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CHI HA FATTO LA STORIA DI QUESTO PAESE,QUELLA  ………“MINORE “ MA QUELLA VERA E NON MANIPOLATA

La storia di Calogero Cangialosi

di Sonia Grechi e Asia Rubbo

06 Marzo 2020

Calogero Cangialosi fu un sindacalista e un politico siciliano, originario di Camporeale, un piccolo comune tra Trapani e Palermo. Segretario della Camera del Lavoro e del Partito Socialista locale, Cangialosi dedicò la sua vita alla giustizia mettendosi al servizio dei contadini ridotti in povertà e sfruttati dal latifondo.

Fu proprio a causa della sua determinazione e del suo coraggio che, dopo essere stato a lungo nel mirino della mafia e del potere locale, trovò la morte l’1 aprile del 1948.

Oggi la storia di Calogero Cangialosi è affidata a sua nipote, Sonia Grechi, che se ne fa carico e testimone, tenendone viva la memoria e lottando per ottenere finalmente giustizia.

Nonno Calogero ha sacrificato la sua esistenza e condizionato quella delle persone a lui vicine per un ideale, per la giustizia e per la creazione di quelle condizioni di democrazia che sono alla base di una società moderna ed emancipata dal sopruso e dallo sfruttamento. Aveva solo 41 anni quando è stato ucciso, una moglie che lo adorava e quattro splendidi figli, di cui la più piccola, Vita, mia mamma, aveva solo due mesi.

Era il 1948. Il nostro Paese, dopo il conflitto mondiale, tentava di rialzarsi e la Costituzione era stata appena varata. “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, recita l’articolo 1. Già, ma quale lavoro? Non certo quello sottopagato dai latifondisti ai contadini siciliani, sfruttati, ridotti alla condizione di minima sussistenza, ostaggio della povertà e con la dignità di uomini calpestata dal profitto e dell’interesse. Allora anche il semplice tabacco rappresentava un lusso.

Mio nonno di tutto ciò era consapevole e sovente si faceva consegnare del denaro dalla nonna e, con questo, comprava le preziose sigarette donandole a chi era meno fortunato di lui. Troppi lo erano. E lui, segretario del PSI e di Federterra, oltre che della Camera del Lavoro di Camporeale, se ne era reso conto e non voleva che i suoi figli fossero costretti a vivere in questa condizione. Anche per questo si era impegnato in prima persona, essendo uomo di grande intelligenza e spessore, per cambiare lo stato delle cose. Del resto, le norme esistevano, solo che non venivano rispettate.

Al tempo, infatti, erano stati approvati i “decreti Gullo” con cui si stravolgeva il concetto del lavoro riconoscendo ai contadini il 60 per cento del raccolto. Una svolta epocale questa, che avrebbe permesso di smarcare dalla povertà un’ampia fetta di popolazione, restituendole la dignità perduta. La determinazione di mio nonno lo porto ad uno scontro violento con don Serafino Sciortino, latifondista di Camporeale di cui lui era mezzadro. Sciortino non avrebbe mai permesso quanto i decreti indicavano e, per questo, propose a nonno Calogero una “buonuscita”: un biglietto di sola andata per gli Stati Uniti d’America per lui e la sua famiglia, accompagnato da un bonus. La proposta, però, venne fermamente respinta.

Nonno Calogero non si fece dissuadere e restò fermo nelle sue intenzioni. Pochi giorni prima, il 10 marzo, il suo compagno e amico Placido Rizzotto, era stato fatto sparire dal capomafia di Corleone. Malgrado tutto, però, quella morte non lo intimidì. Don Serafino giocò un’ultima carta per tentare di convincerlo ad abbandonare la causa. Il 28 marzo lo invitò a casa sua per discutere della faccenda, ma Cangialosi venne sequestrato dal capomafia Vanni Sacco e dai suoi picciotti, con l’intenzione di ucciderlo.

Il piano però non venne portato a termine perché i compagni della Camera del Lavoro e i contadini, dopo aver scoperto dove era tenuto prigioniero andarono a liberarlo con un commando armato di lupare. Nonno Calogero, indomito, continuò nella sua lotta, con la consapevolezza che ormai il suo destino era segnato. Nemmeno il grande, immenso amore per la sua famiglia, lo avrebbero distolto dal perseguimento dei propri ideali. La sete di giustizia e di libertà era talmente grande che nulla e nessuno l’avrebbe potuta soddisfare, neppure la vista dei suoi figli ai quali soleva rimboccare le coperte quando rientrava a casa dopo una giornata di lavoro e di lotta politica. Arrivò la sera del primo aprile, la piazza di Camporeale era piena di contadini che discutevano per le imminenti elezioni politiche del 18 di quel mese e alla Camera del lavoro si era fatto tardi proprio per parlare di tutto questo.

Nonno Calogero salutò i presenti per tornare a casa, accompagnato da Vito di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli. I compagni, ogni giorno, garantivano la scorta al loro dirigente sindacale nel mirino della mafia. Tutti e cinque uscirono dalla sede sindacale, che si trovava in piazza, e si avviarono verso casa di nonno Calogero. Erano quasi arrivati, quando si udì un crepitare di mitra. Decine di colpi, sparati in rapida successione ad altezza d’uomo, si abbatterono sull’intero gruppo. Colpito alla testa e al petto, Calogero cadde a terra, morendo all’istante. Anche Liotta e Di Salvo furono colpiti e feriti gravemente. Miracolosamente illesi rimasero invece Calandra e Natoli. Il corpo del nonno fu subito portato a casa del suocero e, dopo la sua morte, passarono ben quattro giorni prima che un giudice di Alcamo si degnasse a mettere piede in paese. Ai suoi funerali parteciparono tutti i contadini di Camporeale e dei comuni del circondario. In mezzo a loro e accanto ai familiari anche il segretario nazionale del Partito Socialista Italiano, Pietro Nenni, venuto personalmente a Camporeale, per onorare il suo compagno di partito. Per quell’omicidio, tuttavia, non ci fu mai giustizia. Non fu imbastito nemmeno un processo, nonostante tutti sapessero che a dare l’ordine di morte era stato il proprietario terriero don Serafino Sciortino, mentre a sparare ci avevano pensato il capomafia Vanni Sacco e i suoi picciotti. Si procedette quindi contro ignoti che, tali, rimasero per sempre.

La storia vissuta dalla famiglia Cangialosi non ha visto come protagonista solo mio nonno, ma anche sua moglie Francesca Serafino e i suoi quattro figli, Franca, Giuseppe, Michela e Vita. Francesca, donna fortissima, ha cresciuto con la fermezza di un uomo e con la tenerezza di una madre i suoi figli. E se nonno Calogero ha perduto il bene più prezioso, quello della vita, è giusto riflettere su cosa è spettato a mia nonna, persona alla quale è stato sottratto l’amore di un marito e il suo unico sostentamento, che si è dovuta reinventare capofamiglia nella Sicilia del dopoguerra. I suoi figli, invece, hanno perduto in tenera età l’affetto di un padre e con lui un punto di riferimento, trovandosi a vivere momenti difficili e in taluni casi non riuscendo neppure adesso a superare il trauma o le conseguenze di quanto accaduto.

Grosseto nel 1960 fu l’unica possibilità per vincere la povertà in cui la famiglia di Cangialosi, priva del suo sostentamento principale, abbandonata dalla giustizia e con tutte le difficoltà di un territorio sempre più povero, si era ritrovata suo malgrado.

Probabilmente è qui che lo Stato è venuto a mancare. Impedire alla giustizia di fare il suo corso, non riconoscere nonno Calogero come vittima di mafia, ha fatto sì che mai sia stato concesso un benché minimo sostegno a chi ha dovuto subire una perdita incolmabile come quella di un marito e di un padre. Ancora oggi si tratta di una mera questione di giustizia per riparare, a distanza di settant’anni, ad un torto e sanare un colpevole errore della magistratura, che non ha mai condannato né il mandante, né gli esecutori materiali di quell’omicidio pagato con quattro tumuli di frumento.

È doveroso restituire giustizia, perché solo così si può continuare a dare voce a questi eroi ormai muti. Una voce da cui si possano trarre quegli insegnamenti che devono essere oggi pietra angolare della nostra società civile affinché possa farsi forza dei principi che hanno guidato le menti di questi straordinari personaggi, esempio e guida per le generazioni più giovani e per quelle che verranno. Tocca a noi far sì che non vengano dimenticati, implementandone il ricordo. Perché il ricordo è il tessuto dell’identità. Quella stessa per la quale nonno Calogero, settanta anni fa, ha sacrificato i propri amori, la sua famiglia e la sua stessa vita.

(Sonia Grechi, nipote di Calogero Cangialosi) ; a cura di Asia Rubbo

Fonte:https://mafie.blogautore.repubblica.it/