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Che fine ha fatto Nicoletti? Il low profile di don Enrico, “re” di Roma pensionato.E CHE FINE,SOPRATTUTTO, HANNO FATTO I SUOI IMMENSI TESORI? SI PARLAVA ANCHE DI UNA SUA PARTECIPAZIONE,TRAMITE OVVIAMENTE PRESTANOMI,IN UN’AZIENDA DISMESSA NEL SUD PONTINO.

 

Che fine ha fatto Nicoletti? Il low profile di don Enrico, “re” di Roma pensionato

di Beatrice Nencha

Ci sono personaggi per cui la storia si ripete. Ed è, sovente, una storia criminale. Per uno di questi, finito nel mirino della Procura di Roma di nuovo nel 2013, bisognerà ancora aspettare per inquadrare il suo ruolo in vicende commesse in gran parte fuori dai confini della capitale (e in settori considerati “puliti” dell’economia laziale), dove da tempo non dimora più. Parliamo dell’ottuagenario Enrico Nicoletti. Segno che colui che è passato alle cronache (e alle fiction) come l’ex cassiere della Banda della Magliana, già uomo di fiducia di Enrico De Pedis e poi di Marcello Colafigli, è ritenuto ancora oggi, da chi si occupa di malavita romana, uno dei più influenti “re” di Roma. Nonostante l’età (81 anni) e le precarie condizioni di salute, che gli hanno consentito di scontare le ultime condanne, scattate nel 2012 per un cumulo di pene su vari reati per i quali era stato condannato in passato (usura, estorsione e rapine “con aggravanti della pluralità dei soggetti concorrenti”) ai domiciliari fuori dal Lazio. Un trono che, dalla caduta in disgrazia della Banda, a lungo ha condiviso con boss più giovani e radicati come Massimo Carminati (il Nero, oggi alla sbarra per 416 bis nel processo Mafia Capitale) o “indigeni” ma dal carisma indiscusso come Michele Senese (O’ Pazzo’). E a protagonisti delle cronache giudiziarie, seppur meno “blasonati”, quali Peppe Casamonica (lo “Zingaro”) e “don” Carmine Fasciani, famigerato capo mafioso dell’omonimo clan di Ostia. Un potere condiviso ma non (più) centrato sulla sola Città Eterna. Perché quello che Nicoletti ha capito, molto prima di altri, è che i suoi affari possono trarre enormi margini di profitto quando si opera su scala “glocal”. Locale e globale.

Ma chi è quello che alcuni hanno definito il quinto Re di Roma” ? E perché, nonostante tutte le piste seguite con successo sino a poco tempo fa dagli investigatori, il suo nome sembra ormai svanito da ogni cronaca? Sono in molti a chiederselo, in pochi a fornire spiegazioni. Nonostante la sequela di condanne e di sequestri patrimoniali relativi a un impero stimato, già nel 1995, in oltre 70 miliardi di lire solo per gli immobili, dalla metà degli anni ’90 la sua “carriera” imprenditoriale non sembra mostrare segni di redenzione. Tra i primi beni sequestrati a don Enrico, come era soprannominato ai tempi della Banda, sono finiti decine di conti correnti, tre imbarcazioni off shore e a svariate società immobiliari, oltre alla sua spettacolare dimora di via di Porta Ardeatina, villa Osio, dotata di rubinetti d’oro e trasformata dal sindaco di Roma Walter Veltroni nella Casa del Jazz.

La sua vorticosa galassia societaria, legata a suoi familiari o a prestanome, è paragonabile ad un vero e proprio impero finanziario, in grado di spaziare dai settori dell’edilizia tradizionale (e persino dell’edilizia popolare, con la originaria Pontecorvo 80 coop edilizia srl”, primo esempio di “coop a fini di lucro”) a quelli dei cantieri navali, passando per gli autosaloni di vetture extra lusso. Tuttavia, secondo le sentenze più recenti, sarebbero l’usura, l’estorsione e il riciclaggio il “core business” da cui l’ex carabiniere, originario di San Giovanni Campano nel frusinate, ha originato le sue fortune. Proventi del tutto spropositati, secondo i giudici, rispetto al tenore di vita dichiarato, come emerso da indagini sui conti correnti a lui riconducibili direttamente o tramite parenti e prestanomi. Nei corposi fascicoli giudiziari a lui dedicati sono finiti in primo piano i suoi legami di affari, considerati da sempre “fittissimi”, con associazioni camorristiche e mafiose di primo piano nella scena romana. E dal ’92 sono stati passati al setaccio anche i suoi rapporti con esponenti del clan dei Casamonica, impiegati per attività di “recupero crediti”. Tutte queste “laisons dangereuses”, intrecciate nei decenni, sono state definitivamente smantellate? Da tempo, sono interrogativi in cerca di riscontro anche ai piani alti di palazzo Clodio. Ma a cui nessuno sembra in grado di rispondere, se non con la prudenza che contraddistingue chi si occupa di criminalità organizzata da sempre. Perché se è vero che nel 2015 la maxi inchiesta “Mafia Capitale” è riuscita ad assestare un duro colpo a un tessuto di criminalità spiccatamente romana, impastata in una”terra di mezzo” dove un sistema politico e burocratico corrotto è stato eretto a sistema consolidato, c’è tutto un universo affaristico, ben più globale e lucroso seppur più silenzioso, che dalla Città eterna si estende fuori dalle Mura aureliane per arrivare fino al confine della Provincia e al Sud pontino. Con ramificazioni ed interessi che, dai supermercati ai cantieri edili e navali, sembrano aver inquinato importanti settori economici del tessuto imprenditoriale laziale. Non solo,  e forse non principalmente, di quello romano.

Fonte:https://nottecriminaleblog.wordpress.com