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C’era una volta al Comando Provinciale dei Carabinieri di Latina………………………………1996-2015: 20 anni di inerzie e di omissioni e la storia ( eccetto gli interventi delle DDA di Roma e di Napoli) continua………………..

C’era una volta al Comando Provinciale dei Carabinieri di Latina…

Lunedì 05 ottobre 2015 

Sembra lontano secoli eppure quanto Carmine Schiavone raccontò il 13 marzo del 1996, quasi venti anni fa, resta più che mai attuale. Se, infatti, gli uomini e i fatti descritti in quell’occasione, quando era già riconosciuto collaboratore di giustizia, fossero stati valutati diversamente, probabilmente la storia di questa provincia e delle sue infiltrazioni criminali sarebbe cambiata con un anticipo fino a dieci anni delle indagini che poi, più volte, la hanno scossa nelle fondamenta.

Ma erano altri anni si dirà, “la camorra in provincia non c’è”, raccontavano i politici di allora, spesso gli stessi di oggi, “solo un po’ di criminalità in più durante l’estate ma il tessuto è sano”. E invece no, da quell’interrogatorio già noto ma che riproponiamo integralmente, emerge che la criminalità, quella vera e in tutte le sue diramazioni, c’era e i suoi protagonisti erano già ben noti a chi sin da allora li avrebbe potuti fermare e, invece, ha permesso si affermassero. Non evidentemente i carabinieri che trascrissero quegli interrogatori ma chi sopra di loro lesse i verbali e, per colpa o dolo, non li valutò con la giusta attenzione. Schiavone è morto il 22 febbraio scorso a Viterbo ma le sue dichiarazioni sono ancora lì con tutto il loro carico di drammaticità.

E’ IL 13 MARZO 1996 – Carmine Schiavone è negli uffici del Comando di Latina per sottoporsi a quelle che, alla fine, sarà una giornata intera di deposizione.
E il cassiere del clan dei casalesi è un fiume in piena, che pur tra qualche errore di memoria (si è attribuito tra i 50 e i 70 omicidi in prima persona e oltre 500 come mandante), non tralascia dettagli:
Per la mia attività ero a conoscenza di tutti gli interessi del gruppo camorristico e prendevo parte attiva alle decisioni operative, registravo gli introiti del sodalizio verificando ogni mese la natura la portata degli interessi stessi”.

L’interrogatorio è posto in relazione a un’indagine su diversi fenomeni criminosi riguardanti la provincia di Latina e il collaboratore racconta che “il clan dei casalesi da moltissimi anni ha avviato, nella provincia di Latina, un’opera di infiltrazione e di investimento degli illeciti introiti comunque ricavati. Non era solo il mio gruppo ad avere interessi in terra pontina perché, parlando con i capi zona nostri, avevo notizia della presenza di esponenti di tutte le mafie nazionali che fungevano da referenti locali dei gruppi dai quali provenivano”.

L’ORGANIZZAZIONE DEL CLAN IN PROVINCIA – “In provincia di Latina il clan dei casalesi aveva un capo zona a Latina che si identificava in Antonio Salzillo detto “Capocchione” (Ndr ucciso il 6 marzo del 2009 a Cancello e Arnone). Questi era nipote di Ernesto e Antonio Bardellino e, quindi, fedele agli stessi. Come già ho avuto modo di riferire alla magistratura napoletana la famiglia Bardellino e la mia famiglia costituivano un unico gruppo sino al 1988 e succesivamente da noi fortemente avversata. Quando dico che Salzillo era il nostro capo zona, mi riferisco fino alla data della rottura con gli stessi. Il Salzillo, quando è arrivato a Latina ha subito trovato come attività di copertura occulta nella società dei fratelli Diana che avevano la concessionaria di veicoli industriali e da lavoro Scania, con sede a Latina. I fratelli Diana Costantino e Armando, chiamati i “repezzati”, sono dalla data del loro trasferimento a Latina, espressione diretta del gruppo dei casalesi in terra pontina. Li conosco personalmente e con gli stessi mi sono ripetutamente incontrato negli anni per discutere di varie cose. I Diana per nostro volere hanno svolto diversi lavori presi in subappalto di grossi appalti pubblici. Mi riferisco ai lavori della terza corsia autostradale e tutti gli altri che comunque abbiamo gestito e che hanno costituito motivo di notevoli guadagni. Antonio Salzillo, che non credo comparisse direttamente nella compagine societaria dei Diana, gestiva ufficialmente fino al 1988, tutte le attività dell’azienda. I Diana corrispondevano alle casse del gruppo dei casalesi una percentuale del 10% di quanto guadagnavano per i lavori di movimento terra legati alla costruzione di strade e di fogne. A riprova del diretto inserimento dei Diana nelle attività del gruppo delinquenziale cui io facevo parte, posso dire che un mio nipote a nome Antimo Zara, morto in un incidente stradale poco prima del 1990, è stato amministratore di una delle società dei Diana ed era fidanzato con la figlia di Armando Diana. Come ho già detto colui che invece aveva il pieno controllo delle attività dei Diana era il Salzillo.

DOPO LA ROTTURA CON I BARDELLINO i Diana hanno mantenuto diretti contatti con il gruppo degli Schiavone anche tramite Vincenzo Zagaria, detto Zagor, il quale ha soppiantato il Salzillo come capo zona a Latina, intendendo per questa la zona che va da Sabaudia fino a Roma. Salzillo ricordo che gestiva un gruppo di circa trenta persone che venivano regolarmente stipendiate da me come cassiere del clan. Ogni mese io attribuivo circa cento milioni dalle casse del clan al Salzillo perchè potesse pagare i suoi uomini. Considerando chelo stipendio dei “soldati” o di coloro che comunque venivano utilizzati per le attività del gruppo, era di tre milioni al mese, posso dirvi che i ragazzi di Salzillo erano circa trenta. Salzillo si occupava inoltre dello spaccio degli stupefacenti nella zona a lui affidata. La droga veniva gestita direttamente da Beneduce prima questi venisse ucciso, successivamente da Vincenzo Zagaria. Come ho già avuto modo di riferire durante la mia collaborazione a Napoli, proprio a Latina il mi gruppo ha realizzato un investimento di notevole entità in un’azienda agricola di Borgo Montello, ora non so se sottoposta a sequestro, costata alle casse del clan circa tre miliardi, comprensivi dei lavori fatti nei vigneti e nelle altre colture.

IL CONTROLLO NEL SUD DELLA PROVINCIA – La parte meridionale della provincia di Latina era affidata a Gennaro De Angelis, capo zona di Formia, Gaeta fino a Terracina. Il De Angelis ufficialmente vende autovetture insieme al fratello a Cassino (ndr arrestato ad agosto 2015). In effetti, fino alla data del mio pentimento, rappresentava per noi il punto di riferimento di tutte le attività di penetrazione e di investimento nel sud – pontino. Il De Angelis si preoccupava di allacciare i contatti con i politici, necessari a conoscere in anticipo le decisioni che sarebbero state prese in materia di urbanizzazione e di edificazione. Lui rappresentava criminalmente noi casalesi e, per questo, come ho detto per il Salzillo, riceveva mensilmente 50-60 milioni per soddisfare le esigenze dei suoi sottoposti. D’altra parte lui aveva suoi introiti che provenivano dal traffico di armi e di droga che gli consentivano un alto tenore di vita ed altre possibilità di investimento.

FORMIA E IL SEVEN UP – Sempre nella zona di Formia e di Cassino vi erano altre persone a noi legate e organicamente iscritte nel nostro sodalizio. Mi riferisco ad Aldo Ferruci, proprietario del locale notturno Seven Up, incendiato per intascare il premio assicurativo. Tale struttura rappresentava una nostra forma di investimento a Formia, in quanto acquistata e realizzata con soldi provenienti dalle attività illecite del clan. Per quanto attiene il Seven Up posso dire che se ne interessò il gruppo Bardellino e in particolare Ernesto Bardellino, il vero cervello della famiglia. Già prima del suo materiale trasferimento a Formia, Ernesto Bardellino aveva appuntato la sua attenzione sul basso pontino come zona favorevole all’estensione delle attività del gruppo.

L’ATTENTATO (CHE NON CI FU) A ERNESTO BARDELLINO – Nonostante la pace fatta tra tutti i gruppi della criminalità organizzata, sul finire dell’anno 1992, tra noi Schiavone e i Bardellino non vi potrà mai essere ricongiungimento. Personalmente, quando con mio cugino Francesco Schiavone capeggiavo il clan, ho più volte valutato la possibilità di realizzare un attentato eclatante ai danni di Ernesto Bardellino. Mario Iovine allora ancora in vita, propose di utilizzare un lanciamissile per colpire la villa bunker di Ernesto Bardellino a Formia. Doveva essere usato un lanciagranate SAM di cui il gruppo ne aveva disponibilità. Io mi opposi a tale soluzione che ci avrebbe creato non pochi problemi per l’impatto di tale evento sull’opinione pubblica. Cio che ho detto fa riferimento agli anni 1988-89.

L’OMICIDIO PICCOLO (ndr qui diverse sono le imprecisioni rispetto poi alla sentenza che condannerà Michele Zagaria all’ergastolo) – Di fatti omicidiari verificatisi in provincia di Latina di cui ho diretta e piena conoscenza, posso riferire circa l’omicidio di tale Piccolo (ndr Pasquale) e il tentato omicidio di uno di quelli che lo accompagnava, vero obiettivo dell’agguato (ndr Raffaele Parente). Quest’ultimo, fidanzato della figlia di Ciccio Fontana, cognata questa di Antonio Salzillo, doveva essere il principale bersaglio dell’agguato anche se pure il Piccolo doveva essere eliminato. In merito a tale fatto posso dire che rientrava nello scontro tra noi Schiavone e il gruppo dei Bardellino e fu organizzato da me per colpire persone vicino ai Bardellino. Fui io a consegnare due pistole, una 357 Colt e una Beretta 92/S rispettivamente ad Aldredo Zara e a Vincenzo Zagaria, detto “Zagor”. L’organizzazione dell’agguato se l’assunse lo Zagaria che mi disse di aver preso parte, insieme allo Zara, al gruppo di fuoco. Mi disse pure che gli altri suoi ragazzi avevano provveduto all’appoggio e che a uccidere il Piccolo fu materialmente Zara, e che lo stesso Zagaria aveva fatto uso delle armi . Se non vado errato, tale fatto è avvenuto agli inizi del 1989 nella zona di Formia. Zagaria, in proposito, mi raccontò pure come aveva organizzato l’agguato e di essere entrato in azione nel momento in cui Piccolo e gli altri si stavano recando a un appuntamento con Antonio Salzillo. Come ho detto noi avevamo molti appoggi da Formia in su e non ricordo quali personae fornirono allo Zagaria le notizie necessarie alla preparazione dell’agguato. nel corso del racconto che mi fece lo stesso Zagaria non ho prestato attenzione a tali circostanze di minore interesse, dato anche il mio ruolo nell’organizzazione, strutturata in modo tale da delegare ai singoli capozona le azioni operative. Le persone in posizione gerarchica inferiore, non erano nemmeno ammesse al mio cospetto e a quello della cupola. L’ordine lo riceveva il capo zona e il capo zona era responsabile della esatta e puntuale esecuzione dell’ordine stesso. Nel caso dell’agguato di cui ho fatto cenno, intanto ho potuto dirvi anche dell’identità del killer materiale, in quanto ho consegnato personalmente le armi allo Zagaria e al suo braccio destro Alfredo Zara.

FONDI, I TRIPODO E LA ‘NDRANGHETA – Conosco personalmente da svariati anni i fratelli Venanzio e Carmelo Tripodo.Conoscevo anche il loro genitore Domenico Tripodo, detto Mico. Quest’ultimo era un personaggio di notevole rilievo della ndrangheta calabrese, in contatto stretto con le famiglie mafiose di Rosario Riccobono Stefano Bontade. Mico Tripodo era in guerra con il clan De Stefano di Archi di Reggio Calabria. Questi si nascondeva, a metà degli anni 79, nella campagna casertana, perché ricercato per omicidio, avendo ucciso il fratello di Paolo De Stefano. Almeno questa era la voce ricorrente. In tale zona è stato arrestato tra il 1975-76 e proprio nel 1976 fu ucciso mentre era detenuto nel carcere di Poggio Reale – Padiglione San Paolo.

I fratelli Carmelo e Venanzio (ndr 2009: operazione Damasco), figli del Mico, dovettero lasciare la Calabria perché inseguiti dai sicari dei De Stefano. Ebbero salva la vita grazie all’intervento di alcune famiglie malavitose calabresi, che intervennero presso i De Stefano, data anche la loro giovane età. Entrambi i germani si sono sempre occupati di stupefacenti e non hanno mai interrotto i legami con la terra di origine. Mi risulta che ultimamente Venanzio, dal 1990 circa, non più partecipato al traffico degli stupefacenti, continuando però a ricevere parte degli utili. In effetti tale attività è sempre stata svolta dal Carmelo e posso dire ciò in quanto il mio gruppo ha ceduto al Carmelo dai 15 ai 40 chili al mese di cocaina, dall’anno 1981-82 e sino al 1992. Qualche mese è capitato che la fornitura sia saltata per problemi di arresti di corriere ma il quantitativo trattato è comunqeu di entità notevole. Dal 1981 al giugno del 1990 il Carmelo ha prelevato la cocaina tramite Alberto Beneduce.

TRAFFICO DI STUPEFACENTI E I RAPPORTI TRA TRIPODO, LA TORRE E CASALESI – Dopo la morte di questi è passato tramite Augusto La Torre. Per noi casalesi i controllori di tale attività sono sempre stati Michele e Vincenzo Zagaria. Costoro dovevano controllare che Beneduce prima e Augusto La Torre dopo, non presentassero alla casa del clan rendiconti addomesticati. Carmelo Tripodo, al pari del fratello Venanzio, ha avuto con me periodi di detenzione comune. Più volte mi è capitato di parlare con lui della sua attività di trafficante di stupefacenti e ho appreso pure che, oltre alla cocaina che gli davamo noi, trattava eroina grazie ad appoggi a Torino e in Calabria. Anche nella capitale aveva delle basi che utilizzava per il traffico degli stupefacenti. Come dicevo, con noi trattava solo cocaina in quanto il nostro gruppo non si occupava di eroina. In effetti il Carmelo faceva eroina con vari gruppi criminali e, tra questi, quello facente capo a un cittadino giordano, residente in Germania, con moglie danese che risponde al nome di Mohamed Ben Khalil che attualmente dovrebbe avere 54-55 anni. Conosco personalmente questo giornado in quanto sia lui che suo zio erano molto amici di mio cugino Francesco Schiavone. Costoro ci dicevano che Carmelo trattava con loro molti chili di eroina al mese, anche non raffinata. Ci dicevano infatti che il Carmelo, nella zona di Fondi, aveva una “cucina”, come noi chiamiamo un impianto di raffineria in grado di trasformare la morfina in eroina. Posso dire per la mia personale e diretta conoscenda del Carmelo Tripodo che questi è un grosso esperto di stupefacenti. Conosceva le rotte del traffico, i produttori e i terminali dello stesso. Con il Carmelo Tripodo ho più volte parlato anche della cocaina che il mio gruppo gli forniva. Ogni mese avevo modo di controllare gli introiti della vendita di cocaina al Carmelo, seguendo i rendiconti che mi presentavano Beneduce prima e i La Torre dopo, tramite Vincenzo e Michele Zagaria. Vi erano delle sigle con le quali identificavamo i vari trafficanti che rifornivamo, in modo da rendere più agevole il controllo sulle entrate del clan. Carmelo è in stretto contatto con i La Torre di Mondragone i quali, a loro volta, si sono estesi nella zona pontina, estorcendo denaro agli imprenditori dopo averli indimiditi con l’esplosione di ordigni. Su Fondi la presenza dei La Torre è sicura e costoro, prima di operare, come è regola nel nostro ambiente, devono necessariamente mettere al corrente il loro referente locale di quanto stanno per fare. E il loro referente su Fondi è Carmelo Tripodo.

Per quanto possa io desumere, Carmelo Tripodo doveva avere già negli anni 1985-86, un incasso netto di circa 200 milioni di lire mensili per il traffico di stupefacenti, intendendo per questi sia la cocaina che gli fornivamo noi, sia l’eroina ottenuta dal giordano, dai calabresi e da altri.

UNA NAVE IN OLANDA – Mi sovviene una circostanza che riguardava Carmelo Tripodo. Nel 1986 o 87, io mandai mio genero Nicola Pezzella e un’altra persona di cui non ricordo il nome a casa di Carmelo.

Io mi trovavo in soggiorno obbligato a Otranto ed ero entrato in società con gente di Brindisi, come già ho verbalizzato. Insieme a loro ho comprato una nave in Olanda. Nell’affare vi erano anche soldi di Ciro e Alfonso Mazzarella. La nave la facemmo arrivare nel porto di Brindisi e doveva servire per trasportare sigarette da Durazzo e da Valona. Per tale traffico cercai anche degli sbocchi in via autonoma rispetto al mio clan. Mi ero accorto, infatti, che gli altri miei soci utilizzavano la nave per traffici di armi e di drogadel tipo eroina che si riusciva ad acquistare a prezzi estremamente convenienti. Quindi inviai il mio genero da Carmelo Tripodo a Fondi per stabilire un contatto al fine di concretizzare una fornitura di eroina he il Tripodo avrebbe dovuto smistare. Il Carmelo accolse mio genero con tutti gli onori. Mi è stato addirittura riferito che lui, Venanzio e loro madre, hanno apparecchiato la tavola con posate d’oro. Quando mi fu riportata questa circostanza, io telefonai a Carmelo dicendogli che dati i nostri rapporti, non avrebbe dovuto scomodarsi tanto. Per inciso la fornitura di eroina non avvenne in quanto mi resi conto che trattare tale stupefacente, vietato dal mio clan, mi sarebbe potuto costare caro. Rientrai in possesso del denaro fornito per l’acquisto della nave e lasciai l’affare.

TERRACINA – Io so dell’esistenza di due discreti trafficanti di cocaina che domiciliano a Terracina e che, fino alla data del mio pentimento, si rifornivano da Carmelo Tripodo, prendendo dallo stesso parte della cocaina che noi gli davamo. Si tratte dei due fratelli Iannucci. Non conosco personalmente questi due fratelli, so che gestiscono dei locali e che dovrebbero avere all’incirca l’età di Venanzio Tripodo, forse qualche anno in più. Costoro tentarono, prima dell’uccisione di Beneduce, di scavalcare Carmelo Tripodo e rifornirsi di cocaina direttamente da noi. Sia io che gli altri del vertice del gruppo ci opponemmo a tale richiesta della quale Beneduce si era fatto portavoce, perchè sarebbe stato un affronto a Carmelo Tripodo. Oltre che un fatto di facciata del clan, i Tripodo erano con noi e non contro di noi. Mi risulta che tali fratelli Iannucci, allorquando il Beneduce fu arrestato a Roma con una valigia di cocaina, si diedero molto da fare per ottenere la scarcerazione, cosa che avvenne in tempi ragionevolmente brevi.


L’AVVOCATO CIPRIANO CHIANESE – Il Chianese era per noi il referente per gli affari che riguardavano lo smaltimento lecito e illecito di ogni tipo di rifiuti, anche tossici e nocivi (ndr il processo all’avvocato è iniziato nel 2015). Il Chianese è titolare di una o due discariche tra le province di Caserta e di Napoli. Per farvi capire la figura del Chianese vi debbo dire che, come tutti gli imprenditori del casertano, pagava una quota al nostro clan per l’attività svolta. Anche io, per i lavori che appaltavo, corrispondevo una quota alle casse del clan. E’ una regola generale. Il Chianese, in compenso, poteva partecipare liberamente a ogni attività imprenditoriale, fruendo della forza intimidatrice del nostro gruppo oltre che delle possibilità di operare ovunque grazie al rispetto di cui godevamo. D’altra parte il Chianese, per nostro conto, si stava occupando dell’apertura di una banca a Cassino insieme all’avvocato Tibaldi di Sessa Aurunca. In tale banca sarebbero dovuti affluire capitati introitati dal clan. Quando ero cassiere movimentavo circa due miliardi e cinquecento milioni al mese. Pagari gli stipendi ai “soldati” e soddisfatte le eseigenze di tutti i gruppi, restavano comunque dai trecento ai cinquecento milioni al mese che bisognava investire in qualche modo. Anche i soldi che dovevano essere utilizzati per i pagamenti vari, restavano per qualche tempo inutilizzati, con grandi perdite per l’organizzazione. Per questi motivi e per riciclare i capitali illeciti, avevamo deciso di aprire una banca. Chianese, con le sue attività imprenditoriali, doveva servire da copertura. Chianese è persona bene introdotta negli ambienti imprenditoriali, politici e giurisdizionali. So per certo che lui è un massone. Frequentava un circolo culturale di Aversa che per accedervi occorreva effettuare un giuramento.

So che Chianese ha introdottoGaetano Cerci (ndr arrestato nel settembre 2014), nipote acquisito di Francesco Bidognetti, conosciuto come Cicciotto ‘e mezzanotte, negli ambienti della P2 di Licio Gelli. Mi risulta che il Cerci frequentava casa di Gelli al pari dell’avvocato Chianese. Per farvi comprendere vi dico che Chianese si occupava dei rifiuti che arrivavano sia dall’Italia che dall’estero e che venivano smaltiti nelle discariche napoletane e casertane. Cerci, che era incensurato, era il rappresentante del clan dei casalesi in tale attività, quindi la presenza del Chianese non può essere vista come quella di imprenditore taglieggiato ma come imprenditore organico al nostro sistema. Altrimenti pure io dovrei definirmi imprenditore taglieggiato, visto che per i lavori che appaltavo corrispondevo una quota percentuale alla cassa del clan. Finanche per l’impianto di calcestruzzo di mia proprietà io mettevo nella cassa del clan mille lire ogni metro cubo di cemento venduto. Anche Mario Iovine corrispondeva al clan questa percentuale sulla vendita di calcestruzzo dei suoi impianti.

LO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI IN PROVINCIA – La provincia di Latina non può definirsi immune dal problema dei rifiuti smaltiti illecitamente. Mi diceva Antonio Salzillo, ai tempi in cui faceva parte ancora del gruppo, che lui operava con la discarica ufficiale di Borgo Montello. Da tale struttura lui prendeva una percentuale sui rifiuti smaltiti lecitamente e in tale struttura lui faceva occultare bidoni di rifiuti tossoci o nocivi per ognuno dei quali mi diceva che prendeva 500mila lire. Il Salzillo mi diceva pure che smaltiva rifiuti tossici anche sul lungomare di Latina in delle buche dalle quali era stata estratta sabbia o in luoghi pubblici adibiti ad allevamenti di animali. Non mi diceva quale sistema usava per falsificare la documentazione dei rifiuti e come riuscivano gli imprenditori del settore a dimostrare l’avvenuto smaltimento.

I MALVENTI – Conosco la famiglia Malventi di Napoli. Conoscevo bene il vecchio zio Felice e il figlio Antonio, questi è stato ucciso in un agguato sull’autostrada vicino Napoli. Ho visto una volta anche il fratello di quest’ultimo, a nome Aniello Malventi. L’intera famiglia è inserita ai massimi livelli della camorra napoletana. Antonio era il capo militare mentre Aniello, pur vivendo sempre nell’ombra, è la vera mente dell’organizzazione. Aniello Malventi conosce molto bene mio cugino Francesco Schiavone con il quale so che ha stretti rapporti. So pure che la famiglia ha sempre usato, come attività di copertura, una società che si occupa della vendita all’ingrosso di prodotti surgelati. Antonio era in strettissimi rapporti con Carmine Alfieri e da questi fatto eliminare a causa dell’ambizione smodata di Marzio Sepe, il quale ha soffiato nell’orecchio di Alfieri che Antonio Malventi voleva tenere per sé i suoi contatti con i politici e con i giudici. So per certo che Marzio Sepe è anche in ottimi rapporti conGennaro De Angelis, di cui ho prima parlato. I due dividevano la stessa cella nel carcere di Carinola negli anni 1985-86. Sia Antonio che Aniello Malventi avevano contatti con la massoneriaFrequentavano Elio Della Corte, nella cui abitazione di Pozzuoli (SS Domitiana), io e mio cugino Antonio, fratello di Sandokan, abbiamo avuto modo di vedere il grembiulino, il triangolo e il compasso che simboleggiavano l’appartanenza alla massoneria. Aniello Malventi ha diretti contatti con gli ambienti delinquenziali, anche se non lo fa apparire. Pensate che Marzio Sepe di cui ho parlato, ed ora latitante, dormiva nello stabilimento dei Malventi e fungeva da capo operaio.

ANCORA TRIPODO… E I RAPPORTI CON GLI ABATE – Tornando a parlare di Carmelo Tripodo, dove aggiungere che lo stesso è in stretti contatti con i fratelli Abate di San Giorgio a Cremano. Uno di questi a nome Filippo, detto Tore-tore ha delle proprietà a Nettuno e tratta stupefacenti in grossi quantitativi sul litorale romano. L’Abate prendeva droga anche da Carmelo Tripodo.

ALTRE RIVELAZIONI – Conosco personalmente Ulderico Di Bello, detto o’chiattone. So per certo che egli è in organico alla camora ed era legato, fino al giugno 1991, a noi. Poi, successivamente, ha tradito, assieme ai membri del sodalizio di Gigino Venosa, aderendo alle posizioni dei Bardellino. Come attività delinquenziali egli trattava la vendita al minuto, nell’ordine dei cinquanta grammi alla volta di cocaina.

Conosco anche Domenico Letizia, di Alfonso, detto “Pezz’ a Culo”, grosso imprenditore nell’ambito del calcestruzzo e degli inerti, dimorante a Mondragone e Falciano del Massico, ma originario di Casal di Principe. Sarei in grado di indicarlo in foto. Pezz a culo, collegato con Ernesto Bardellino e con i La Torre, è un grosso riciclatore del denaro sporco di questi ultimi e ha grossi interessi nella costruzione della linea ferroviaria veloce per conto dei casalesi, tramite i La Torre.

Franco Gilfarti era amministratore della Banca Massicana di Sessa Aurunca, collegato con Mattia Coppola, ora deceduto, ed era anche legato con Antonio Bardellino. Questo personaggio doveva collaborare per la creazione della Cassa Rurale di Cassino.

I BALDASCINI – Conosco la famiglia Baldascini e mi riferisco in particolare a quella che si occupava della compravendita di cocomeri, meloni etc., in particolare nella provincia di Latina. Uno dei fratelliBaldascini, Gennaro, venne ucciso nella zona di Villa Literno e stava con noi (ndr la sentenza nel 2013), ma non era ritenuto affidabile in quanto considerato pazzo. Anche un altro fratello a nome Mario, era inserito nel nostro clan ed era stato fatto assumere come guardiano nell’impresa di Ferlaino. Egli per noi svolgeva attività minori e in un’occasione, tra il 1988 e l’89, lo utilizzammo per osservare i movimenti e le attività di Ernesto Bardellino, in previsione di un eventuale attentato che intendevamo preparargli. Ho già detto a proposito che quell’attentato non venne fatto per motivi di opportunità. Comunque Mario Baldascini era considerato uno dei nostri (ndr arresti nel 2012 a Latina).

I SORRENTINO DI MONDRAGONE – Conosco la famiglia Sorrentino di Mondragone, titolari di un supermercato. Tale Sorrentino è vicino ai La Torre, ai quali è anche legato da rapporti di parentela. Dei La Torre il vecchio padre continuava ad avere un ruolo di rilievo nell’organizzazione. Il figlio Augusto è il capo militare del clan mentre Antonio, che stava in Scozia, è la mente del sodalizio.

MOCCIA E MAGLIULO – Anche i clan Moccia e Magliulo avevano realizzato consistenti investimenti nel sud pontino. Negli anni addietro i Moccia, tramite l’avvocato Tibaldi e Tebaldi, quello anziano, comprarono una grande azienda agricola che si trovava in tenimento di Suio Terme, ai margini del fiume Garigliano. I Magliulo hanno proprietà terriere e hanno svolto lavori di svariati miliardi per conto delle Ferrovie dello Stato nelle tratte del sud del Lazio.

AZIENDA A BORGO MONTELLO – L’azienda agricola acquisita qui a Borgo Montello, di cui ho già parlato, era intestata a mio cugino Antonio Schiavone fu Giovanni, persona incensurata e alla quale mi rivolsi io per chiedere di intestarsi il bene che comunque consideravo mio e di mio cugino Sandokan. So che dopo il mio pentimento il gruppo ha minacciato Antonio Schiavone che fu costretto a cedere la proprietà alla società dei Coppola, denominata Enogea. Tali Coppola, cognati di Walter Schiavone, fratello di Sandokan, erano in realtà i fattori. In effetti il fattore era Michele Coppola, da me e da Sandokan sistemato qui a Latina in quanto si era sposato e non aveva una casa. Lo piazzammo lì e gli passavamo anche tre milioni al mese dalla cassa del clan poiché l’azienda non rendeva ancora. Antonio Coppola, fratello di Michele, era rimasto a Casale, dove aveva un’impresa e, fino a quando non ho deciso di collaborare, non si occupava dell’azienda di Latina.

ANCORA SULL’OMICIDIO PICCOLO E LA GUERRA CON I BARDELLINO – Ho già riferito dello scontro violento tra la coalizione che faceva capo a noi Schiavone e il gruppo di Bardellino.

Con noi vi erano la famiglia Iovine, la famiglia De Falco, la famiglia Bidognetti, la famiglia Zagaria. Con Bardellino vi erano alcuni calabresi e alcuni della provincia di Latina da me non direttamente conosciuti ma che rappresentavano i loro diretti referenti in terra pontina. La cupola del clan mio d’appartenenza decise la guerra a oltranza ai Bardellino, quindi l’ordine era anche quello di eliminare fisicamente gli appartenenti al clan Bardellino. Potevamo risparmiare solo quelli che si dissociavano dal clan Bardellino e si aggregavano al nostro, o quanto meno dovevano estraniarsi dalla guerra e non dare appoggio ai Bardellino medesimi. Poiché Vincenzo Zagaria operava sulla zona di Formia e Latina, gli fu dato incarico di studiare un’azione militare contro tutti gli appartenenti al clan Bardellino. Agli inizi del 1989 Vincenzo Zagaria venne a riferire circa la possibilità di colpire Antonio Salzillo e altri del gruppo nella zona di Formia, in quanto gli avevano portato notizie sicure sui loro spostamenti e sui luoghi ove si nascondevano.

In quel momento della cupola eravamo presenti io, mio cuginoFrancesco Schiavone detto Sandokan, l’altro mio cugino Francesco Schiavone di Luigi, Giuseppe Caterino detto “Tre Bastone”, Vincenzo De Falco detto ‘o fuggiasco. Zagaria era accompagnato da Aldredo Zara, suo braccio destro. Noi tutti gli dicemmo che poteva e doveva agire subito. Alfredo Zara chiese due pistole delle quali una a tamburo, per evitare di lasciare bossoli. Mio cugino Sandokan mi invitò a fornire subito le armi che chiedevano e io consegnai allo Zara una Colt 357 Magnum e allo Zagaria una Beretta 92S cal 9 Parabellum, la stessa in uso alla forze dell’ordine. Io avrei voluto dotare lo Zagaria di una Walther P38 tedesca ma lui mi chiese una pistola con caricatore bifilare per poter disporre di un maggior volume di fuoco. Quindi gli consegnai la “92”. In effetti avevano bisogno soltanto di una rivoltella in quanto già erano in possesso di altre armi lunghe automatiche. A loro serviva una pistola a tamburo da usare senza lasciare bossoli. Così come lo stesso Zagaria mi prospettò, il suo gruppo avrebbe dovuto attaccare Antonio Salzillo e gli altri che stavano con lui mentre si trovavano in un’abitazione nella quale sarebbero entrati utilizzando fucili a pompa i fucili mitragliatori e alla fine avrebbero dato il colpo di grazia con la rivoltella che mi aveva chiesto. Quanto ho detto poiché necessitava non distruggere le pistole dopo gli agguati, mentre potevamo tagliare e disfarci dei fucili mitragliatori e dei fucili a pompa in quanto ne avevamo in abbondanza e perché dall’estero ne arrivavano in numero considerevole. Per le pistole vi era un traffico minore per quanto attiene a quelle di calibro militare, che ci servivano maggiormente per la loro potenza di fuoco negli agguati. Normalmente invece giravamo con pistole di calibro non militare, più facili da trovare.

Zagaria e Zara dopo l’agguato mi riferirono – ed era presente anche mio cugino Sandokan – come s’era svolta l’azione di fuoco. Il loro gruppo era formato da sette – otto persone con due macchine e due motociclette, e avevano trovato appoggio in un appartamento o in un garage nella zona di Formia. Quando si è trattato di entrare in azione, si sono resi conto che il Salzillo non c’era e il Piccolo e il cognato di Salzillo si accorsero della presenza degli uomini di Zagaria e tentarono di scappare per raggiungere un posto di blocco dei carabinieri che loro sapevano essere sulla strada. Poiché si videro ormai scoperti, Zagaria e Zara decisero comunque di intervenire, gli arrivarono vicino con una motocicletta – mi sembra guidata da Zagaria – con dietro sicuramente Zara e avviarono l’azione di fuoco. Zara sparò per primo e la macchina sbandò e si fermò al lato della strada. A questo punto sia Zara che Zagaria continuarono a sparare agli occupanti della macchina. Entrambi mi riferirono pure che riuscirono a sottrarsi all’arresto per un miracolo, in quanto non lontano vi era un posto di blocco dei carabinieri che loro forzarono, approfittando della maggior velocità della moto. Non so se forzarono proprio o riuscirono ad eludere l’intervento dei carabinieri, i quali, se non sbaglio, provvidero direttamente al trasporto del ferito in ospedale che, grazie alla tempestività dell’intervento, riuscì a salvarsi, benché ferito in più parti del corpo”.

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