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Cent’anni (e 14 clan) in Australia, milioni a Hong Kong. Da Strangio a Pensabene, la ‘ndrangheta ai confini del mondo

La cattura del latitante a Bali (ri)accende i riflettori sugli affari dei clan in Estremo Oriente. L’arrivo dei primi mafiosi ad Adelaide nel 1922, le migliaia di affiliati oggi nel Paese e gli sch…

Pubblicato il: 12/02/2023 – 14:34

di Pablo Petrasso

LAMEZIA TERME L’anniversario, per quanto spiacevole, risale a meno di due mesi fa: cento anni di ‘ndrangheta in Australia. Festeggiati, si potrebbe dire, con la cattura di Antonio Strangio, riconosciuto dai funzionari dell’Ufficio immigrazione a Bali, dove si trovava in vacanza, prima di rientrare ad AdelaideBeccato grazie a una “Red Notice” dell’Interpol, il narcotrafficante di San Luca è (anche) cittadino australiano: non sarebbe mai stato estradato. Scelte politico-burocratiche che appaiono in aperto conflitto con la realtà.
L’insediamento mafioso in Australia è cosa antica. Coincide, o quasi, con lo 
sbarco della nave “Re d’Italia” ad Adelaide, Sidney e Melbourne nel dicembre 1922. Era il 18 dicembre e – racconta Anna Sergi su icalabresi.it – «in ognuno di questi porti, tra gli oltre mille passeggeri italiani, scesero tre calabresi, Antonio Barbara (spelling errato per Barbaro), Domenico Antonio Strano e Antonio Macri (spelling errato per Macrì)». Macrì fonderà il locale” di Perth, Barbaro diventerà un pezzo grosso del crimine a Melbourne, Strano morirà nel Nuovo Galles del Sud con funerali sontuosi. È con loro, secondo la relazione “The Italian Criminal Society in Australia” che nascerà l’Onorata Società nell’emisfero Sud. Le prime notizie somigliano a storie che, decenni dopo, si sarebbero ripetute in Lombardia: la lotta per la conquista del mercato della frutta e verdura. Poi i presunti attentati: una trentina. E gli omicidi, una decina, probabilmente riconducibili alla mala calabrese ma all’epoca attribuiti a una generica “Mano nera”.

L’indagine della polizia in Australia su 14 clan della ‘ndrangheta

Il 20 gennaio 1932 viene ucciso Rocco Trimarchi, boss di Griffith, una delle roccaforti storiche dei clan. Frammenti di storia criminale. Novanta anni dopo, Nigel Ryan, vice commissario dell’Afp, Australian Federal Police, racconta ai giornalisti che la polizia federale australiana sta indagando su 51 clan della criminalità organizzata italiana, di cui 14 della ‘ndrangheta, oltre che su 5mila presunti criminali residenti negli stati del New South Wales, Victoria, Queensland, South Australia e Western Australia. Gli investigatori li accusano di lavorare a stretto contatto con bande criminali mediorientali, triadi asiatiche e cartelli sudamericani per contrabbandare tonnellate di droghe illegali nel paese. Un bel salto in avanti rispetto all’arrivo dei primi tre (presunti) ‘ndranghetisti a bordo della “Re d’Italia”. Gli italiani, secondo Ryan, «tirano i fili» delle bande di motociclisti, vera nemesi della polizia australiana. La ‘ndrangheta, secondo l’ufficiale, «può contare su migliaia di affiliati nel Paese» e ricicla denaro sporco «nelle legittime attività di costruzione, agricoltura e ristorazione». La caccia ai clan emigrati in Oceania punta su movimenti finanziari e comunicazioni tra affiliati. Tracciate, queste, quando gli investigatori sono riusciti a bucare” l’app crittografia chiamata “Anom”. Una volta ottenuto l’accesso, Afp e Fbi hanno messo le mani su 25 milioni di messaggi: un “tesoro” che ha aperto una nuova fase nelle inchieste sulla criminalità. In quei giorni, Antonio Strangio era un libero cittadino con doppia nazionalità, al sicuro nell’Emisfero Sud. Qualche mese dopo, la “leggerezza” di una vacanza a Bali avrebbe portato al suo arresto. E alla conferma che la ‘ndrangheta si muove con disinvoltura fino ai confini del mondo. 

Dalla “Statale 106” allo schema di riciclaggio a Hong Kong

Lo ha ricordato in un thread su twitter Antonio Talia, giornalista e autore di “Statale 106”, un volume in cui indaga la ‘ndrangheta a partire dalle strada che segna la Jonica. E dalla quale i clan partono per raggiungere l’Italia e il Mondo. In quel volume si narra dello schema di riciclaggio del boss Pino Pensabene a Hong Kong. Un meccanismo quasi perfetto per nascondere i traffici delle cosche: «La società – spiega un broker svizzero a Pensabene – è buona perché ha una doppia schermatura, ha… come si dice… un primo step, una fiduciaria maltese, secondo step una società di Hong Kong… quindi praticamente inaccessibile, l’amministratore è un architetto di Hong Kong». Il capo del “locale” di Desio, nato a Montebello Jonico, operava dal “tugurio”, un bunker situato a Seveso. Da lì gestiva prestiti a usura con modi spicci e movimenti finanziari. Il boss scopre che l’estremo Oriente è un posto perfetto per ripulire i soldi. «Aprire una società è facilissimo, si può fare in qualche minuto – racconta Talia a Magzine.it –. È la terza piazza finanziaria su scala mondiale dopo Londra e dopo New York e offre tantissime possibilità di schermatura dei capitali illeciti attraverso delle doppie società situate tra Hong Kong e Malta».

La joint-venture tra Calabria e Sicilia per riciclare i soldi delle cosche

Gli investigatori – scrive ancora Talia su “The Diplomat – non riuscirono mai a identificare completamente l’”architetto di Hong Kong”, ma la sua società di comodo non era l’unico indizio che indicava un legame tra Pensabene e l’Estremo Oriente. Quasi il 100% dei clienti che richiedevano i “servizi” di Pensabene era costituito da cosche calabresi, ma una fattura in particolare ha attirato l’attenzione degli investigatori: quella di una società cinese collegata alla rete del boss attraverso diversi bonifici bancari per centinaia di migliaia di euro. La figura chiave in questo affare era un siciliano di circa 40 anni che metteva in contatto i mafiosi calabresi con gli imprenditori in cerca di un modo sicuro per ripulire i loro soldi.
Nel 2012, secondo lo Sco, il sistema architettato da Pensabene e il suo contatto 
valeva 8,2 milioni di euro, e il siciliano aveva già realizzato un piano per diversificare gli affari puntando a nuovi mercati e a nuovi clienti: i cinesi. In effetti, il contatto siciliano di Pensabene era già finito nelle maglie dei controlli nel dicembre 2011, quando le sue conversazioni con un cittadino cinese soprannominato “Michele” sono finite nei brogliacci dell’inchiesta “Crimine-Infinito”. La passione delle cosche per l’Estremo Oriente, dunque, è piuttosto datata. Pronte ad arrivare fino alla fine del mondo: per riciclare soldi o nascondersi. (p.petrasso@corrierecal.it)

fonte:https://www.corrieredellacalabria.it/2023/02/12/centanni-e-14-clan-in-australia-milioni-a-hong-kong-da-strangio-a-pensabene-la-ndrangheta-ai-confini-del-mondo/