Il giudizio di secondo grado scaturito dall’operazione che nel 2020 fece scattare le manette ai vertici, del gruppo di Cosa nostra di San Giovanni Galermo
Di Laura Distefano
22 Marzo 2023
Il coraggio di ribellarsi ai loro aguzzini lo hanno trovato dopo 20 anni. Soprattutto quando i santapaoliani sono andati a battere cassa dopo il primo lockdown chiedendo il pagamento anche degli arretrati. E se non si fossero adeguati alle richieste ne avrebbero subito le conseguenze non avendo più la “protezione della famiglia”. E, sicuramente non fu un caso, che dopo si presentarono al supermercato dei rapinatori armi in pugno. Partì da qui l’indagine dei carabinieri poi battezzata Jukebox che nel 2020 fece scattare le manette ai vertici, passati e presenti, del gruppo di Cosa nostra di San Giovanni Galermo.
A fine maggio si aprirà davanti alla Seconda Sezione Penale della Corte d’Appello del processo di secondo grado – dello stralcio abbreviato – che vede imputati 13 persone, tra cui diverse donne coinvolte nel racket.
Le condanne di primo grado
In primo grado le condanne furono da 1 a 6 anni, il gup Luigi Barone l’anno scorso riconobbe a molti imputati il riconoscimento della continuazione con altre sentenze. Il rito ordinario è ancora in pieno dibattimento, nei giorni scorsi si è svolta un’udienza e il Tribunale ha aggiornato il procedimento a ottobre.
L’incubo del racket
Gli imprenditori, padre e figlio, riuscirono a fornire agli inquirenti i tasselli per ricostruire un incubo durato quasi due decenni. Un’estorsione che sarebbe finita nelle tasche di personaggi di spicco dei Santapaola-Ercolano: Salvatore Fiore (Turi Ciuri), Luca Marino, Vincenzo Mirenda, Salvatore Gurrieri (il puffo).
Quando il Governo allentò la stretta dopo la prima ondata del Covid in uno degli hard discount della “vittima” si presentò un’esattrice (Francesca Spartà, moglie di Salvatore Basile) che chiese di tornare a versare le tangenti al clan. Ma non sarebbe stata l’unica donna coinvolta, anche la sorella Rita (moglie di Gurrieri) avrebbe partecipato agli affari illeciti.
La “tassa” mafiosa
La “tassa” mafiosa lievitò negli anni, passando dai 350 euro ai 1500. Questa crescita si sarebbe basata sull’apertura di nuovi punti vendita da parte dei commercianti. Non solo il ‘pizzo’ mensile, la cosca avrebbe preteso anche che “regali” per Pasqua e Natale. O avrebbe costretto i titolari dei supermarket a pagare “conti” solo per la risoluzione di problemi con affiliati di altre famiglie mafiose. Come quello delle minacce inquietanti di Mimmo Assinnata jr di Paternò. A tal proposito, il giovane boss avrebbe costretto le vittime nel periodo natalizio il dono di fiumi di champagne e di costose ceste regalo.
Gli incassi
Insomma una girandola senza via di scampo: gli inquirenti hanno stimato che il gruppo mafioso avrebbe incassato dal 2001 ad aprile 2020 oltre 200 mila euro. Solo la denuncia ha liberato i due imprenditori, perché nonostante arresti e blitz la cosca riusciva ad organizzarsi. E con i capi a piede libero, ci avrebbero pensato le mogli.
I nomi
Ecco i nomi degli imputati che dovranno affrontare l’appello: Domenico Filippo Assinnata, Salvatore Basile, Salvatore Fiore, Luca Marino, Roberto Marino, Nunzio Mirenda, Vincenzo Mirenda, Francesco Lucio Motta, Christian Paternò, Gaetano Riolo, Francesca Spartà e Rita Spartà.