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Caselli: “Correnti e politica, la ‘stagione felice’ delle toghe è finita da tempo. Serve ricostruire”

Il Fatto Quotidiano

Caselli: “Correnti e politica, la ‘stagione felice’ delle toghe è finita da tempo. Serve ricostruire”

L’ex magistrato, 82 anni, è stato prima giudice istruttore nelle inchieste sulle Brigate Rosse e poi procuratore a Palermo, dopo la morte di Falcone e Borsellino. Ora si racconta e racconta i mali e i peccati della Giustizia italiana: “L’appartenenza è spesso diventata criterio dominante per la scelta dei capi degli uffici giudiziari. Un quadro devastante, capace di demolire quel poco di fiducia nella giustizia che ancora resiste”

di Ettore Boffano | 20 MAGGIO 2021

Ha 82 anni Gian Carlo Caselli. I suoi capelli, però, erano già bianchi e ben pettinati tanti anni fa, quando fu prima giudice istruttore nelle inchieste sulle Brigate Rosse e poi procuratore a Palermo, dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Arrivò in Sicilia un sabato mattina, il 15 gennaio 1993, lo stesso giorno dell’arresto di Totò Riina. Il partito armato e poi la mafia provarono più volte a ucciderlo. Per impedirgli di diventare Procuratore nazionale Antimafia, il governo Berlusconi promosse addirittura una legge contra personam: “Contro la mia, appunto. E persino nel Csm di allora, la maggioranza fece barriera contro di me”. Accanto a lui sul divano, mentre parla, c’è una copia del libro di Luca Palamara, scritto con Alessandro Sallusti: “Il Sistema”. Poco più in là, una copia del Fatto Quotidiano posata su un cuscino riporta in prima pagina il nuovo scandalo della magistratura: quello dell’avvocato Piero Amara e del “corvo” che ha diffuso i verbali che parlano di una fantomatica “loggia Ungheria” e di un altro, piccolo “sistema” per condizionare le nomine negli uffici giudiziari.

Come vogliamo cominciare, dottor Caselli? Forse proprio da queste vicende che, per qualcuno, segnerebbero la fine della credibilità della giustizia italiana e delle sue “correnti”, compresa Magistratura Democratica di cui lei è stato uno degli esponenti di spicco?

Che per la magistratura sia un “momentaccio” è di una evidenza assoluta. Credo e spero che possa riuscire a superarlo. Non si tratta, per parafrasare un celebre modo di dire, di semplici pidocchi sulla criniera di un cavallo di razza, ma di ben peggio. In ogni caso, pidocchi o no, temo soprattutto coloro che proveranno ad approfittarne alla grande.

Ma veniamo a lei. Quali furono le idee che la portarono a diventare un magistrato?

Partirei dall’art. 3 Costituzione e da don Lorenzo Milani.

Un connubio inedito, che va spiegato. Come si può combinare la Costituzione con il pensiero del priore di Barbiana?

La mia scelta di entrare in magistratura è maturata negli anni Sessanta, quando nella società italiana affiorò con forza l’esigenza della difesa dei diritti fondamentali dei cittadini, come previsto dall’articolo 3 della Costituzione, là dove dice che “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”. Un compito assegnato alla Repubblica in tutte le sue articolazioni, quindi anche alla magistratura. Era la stagione in cui i magistrati cominciavano a rompere la loro ‘tradizionale’ sintonia col potere. Prendeva il via l’entusiasmante battaglia per una magistratura veramente indipendente. Perché i giudici potessero avere finalmente la forza e le garanzie per inseguire l’obiettivo di una interpretazione e applicazione della legge uguale per tutti. Svolgendo la loro funzione come una possibilità per realizzare qualcosa di utile nell’ l’interesse generale. Senza lacci burocratici soffocanti. Furono decisive per quella scelta alcune letture: Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Marco Ramat, uno dei fondatori di Md. E poi Danilo Dolci e don Lorenzo Milani, appunto, dal quale ho imparato che il lavoro del magistrato deve sì essere al servizio della legge, ma sempre nella prospettiva più ampia e profonda della giustizia.

Rompere la tradizionale sintonia dei magistrati con il potere”. Come possiamo spiegare a un giovane cittadino di oggi che cosa significano queste parole?

Per chiarirci le idee partirei da un esempio storico, quello dei “Fanghi rossi di Scarlino”. C’era un tempo in Italia in cui nelle acque pubbliche, mari e fiumi, torrenti e ruscelli, laghetti e paludi, si poteva rovesciare di tutto, anche le sostanze più tossiche, perché nessuna legge lo impediva e nessuna legge imponeva i depuratori. La tutela della salute pubblica, bene fondamentale garantito come diritto dalla Costituzione, era lettera morta. Scarlino, in provincia di Grosseto e in piena Maremma, è stata una delle aree più inquinate della Toscana a causa dell’ex polo industriale Montedison (che per decenni ha prodotto acido solforico e un componente per la “sinterizzazione” del biossido di titanio). I “fanghi rossi” erano veri e propri veleni, riversati dalla Montedison nelle acque pubbliche senza nessun problema, nel più totale vuoto normativo. Finché un pretore di Livorno (Gianfranco Viglietta: Jorge Amado gli ha perfino dedicato un suo libro) non scova, nella pletora della legislazione penale che caratterizza il nostro ordinamento, una leggina a tutela del patrimonio ittico, un reato da niente, una contravvenzione punita con poche lire di multa a carico di chi danneggia i pesciolini. Un reato “bagatellare”, ma pur sempre un reato, che in quanto tale permette di mettere in moto tutti i meccanismi del processo penale, compreso il sequestro del corpo del reato, in questo caso lo stabilimento Montedison. Siamo negli Anni Settanta e la Montedison, come potere economico e politico, è forse seconda soltanto alla Fiat. Eugenio Cefis è uno degli uomini più influenti d’Italia. Eppure viene condannato per i “fanghi rossi di Scarlino”. Lo scandalo che ne segue è clamoroso e i giudici che lo hanno originato devono subire una reazione rabbiosa. Insieme ad altri colleghi che nello stesso periodo finiscono sotto i riflettori per analoghi processi, a tutela dei diritti dei cittadini, ma contro soggetti “forti”, piuttosto inclini a preferire i “servizi compiacenti” alle decisioni imparziali. Vengono scherniti come “pretori d’assalto”. Una definizione irridente e delegittimante al tempo stesso. Battezzarli così, come assalitori con il coltello tra i denti (mentre tra i denti, semmai, avevano la Costituzione e la legge) era il modo migliore per intimidirli, bloccarne l’azione o sminuirne i risultati. L’esordio, insomma, di una tecnica che ancora oggi (anzi, soprattutto oggi) gode di ottima salute. Oggi come allora, chi teme il controllo di legalità sui suoi interessi e affari, per respingere o depotenziare l’azione della magistratura non esita ad attaccare il magistrato di turno, appiccicandogli addosso una falsa etichetta di appartenenza politica o deformazione professionale: pretore d’assalto ieri, giustizialista oggi. L’importante è sventolare una specie di “cartellino rosso” che squalifichi il giudice. Con lo scopo ultimo di conficcare nella testa di tutti i magistrati il messaggio che chi tocca certi fili deve mettere in conto che correrà dei bei rischi a differenza dei colleghi che accettano di far finta di niente.

Ecco, l’accusa di fare politica attraverso il codice penale, di sostituirsi alla politica, di trasformare il potere giudiziario in qualcosa di diverso e di invasivo in altri ambiti istituzionali. E’ vero, quel giudizio negativo, quell’accusa non sono mai venuti meno. Ma davvero tutto ciò non è mai accaduto nella storia giudiziaria italiana della Repubblica?

L’esempio di Scarlino continua ad essere utile per dare una risposta alla domanda. Precisiamo subito alcuni principi fondamentali. Il primato della politica, innanzitutto: nel senso che il governo della società e il motore del “vivere giusto” possono trovare fondamento soltanto in azioni politiche e non in provvedimenti giudiziari. E’ un fatto incontestabile. E’ dunque sbagliato porre in contrasto, o in concorrenza, politica e giurisdizione. Secondo: non c’è stata, non c’è e non potrebbe esserci alcuna sostituzione del diritto alla politica, che è – e resta – il motore dell’organizzazione sociale e delle sue trasformazioni (guai – ne sono convinto da sempre – a un governo della società affidato ai giudici!). Terzo: va però detto che l’onnipotenza della politica (la sua possibilità, cioè, di fare e disfare a piacimento, ove ne abbia la forza e i numeri) trova dei limiti. Non è un caso che l’articolo 1 della Carta precisi che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. E’ il sistema del bilanciamento dei poteri, in assenza del quale la “tirannide della maggioranza” (come diceva Tocqueville) è sempre in agguato. Quarto: i limiti principali all’onnipotenza della politica (ma potremmo aggiungere del potere economico) sono il controllo sociale – affidato ai media – e il controllo di legalità, che spetta appunto alla magistratura. E’ a questo punto, però, che sono scattati e scattano i cortocircuiti e l’attacco ai giudici: se il controllo di legalità tocca certi interessi, ai quali il solo pensiero che ciò possa accadere fa venire l’orticaria, allora apriti cielo! Il malcapitato magistrato cui capitano in sorte processi di un certo tipo, deve mettere in conto che gli saranno scagliati addosso fulmini e saette.

A Magistratura democratica fu addebitato il collateralismo politico: con la sinistra e i suoi partiti. Con il pensiero del socialismo marxista e con il catto-comunismo. I suoi iscritti furono accusati di essere, prima ancora che dei magistrati, dei militanti politici. Insomma: le famose “toghe rosse”.

Ho sempre pensato che non sono le idee né la loro espressione, ma casomai le “appartenenze”, in particolare se occulte, a ridurre l’imparzialità del magistrato. Spesso sono proprio l’apoliticità e l’indifferenza a offrire copertura e a mimettizzare fenomeni di subordinazione o di strumentalizzazione del ruolo. L’imparzialità è disinteresse personale, estraneità agli interessi in conflitto, distacco dalle parti, non anche indifferenza alle idee e ai valori (che sarebbe assai pericolosa in chi deve giudicare). Nuocciono ad essa la partecipazione alla gestione del potere, i legami affaristici, il coinvolgimento in conflitti personali e di gruppo; non anche la partecipazione al dibattito e al confronto culturale. Quanto al cattolicesimo progressista (la “categoria” che meglio conosco) posso dire che dalla lezione del Concilio come giurista ho imparato l’importanza della laicità. Nel senso che bisogna evitare la contaminazione tra fede e professione, altrimenti si corre il rischio di un cortocircuito che, per un magistrato, comporterebbe la sostituzione del Codice col Vangelo. Ma nella fede si può trovare un orientamento, ricordando che “fame e sete di giustizia” equivale a dire che la giustizia deve essere al servizio degli uomini, soprattutto dei più deboli. Ed è quel che si trova ancora una volta proprio nell’art. 3 della Costituzione (fondamentale nel disegno della Carta): la difesa del debole, appunto, affinché chi è diseguale possa crescere in eguaglianza rispetto agli altri.

Che cosa rappresentò, dunque, la nascita di Md?

Magistratura democratica é stata la rottura provocata a metà degli Anni Sessanta in un corpo separato dello Stato per il quale erano regola l’assenza di ogni controllo sulla correttezza dell’agire amministrativo e sulle condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro, la negazione dell’esistenza stessa della mafia, la pratica di accorgimenti di ogni genere (motivi di ordine pubblico o legittimo sospetto, avocazioni ecc.) per evitare imbarazzanti controlli suoi reati del potere. Magistratura democratica è stata l’eresia introdotta in un corpo burocratico rifiutando il conformismo (inteso come gerarchia, come logica di carriera, come giurisprudenza imposta dall’alto, come passività culturale), introducendo nell’istituzione il punto di vista esterno e non rifuggendo, per questo, neppure dalla critica di orientamenti giurisprudenziali o decisioni giudiziarie. Magistratura democratica è stata lo scandalo di un gruppo di magistrati schierati a sinistra, dove “sinistra” non è un luogo geografico nel panorama politico (e meno che mai partitico), ma un modo di vivere, di pensare, di agire, facendo cose che altri non hanno la voglia o la forza di fare. Md voleva che tutte le correnti della magistratura fossero strumenti di dibattito e orientamento culturale (pubblico e trasparente) e non luoghi di clientele e di cordate per la nomina di dirigenti o il conferimento di incarichi. Purtroppo, la micidiale crisi di oggi ci dice che le cose sono andate ben diversamente. Quanto a Md va ancora detto che ben presto essa è diventata sinonimo di impropria e indebita politicizzazione. Comodo alibi per chi non voleva pagare dazio, inaugurato e massicciamente praticato da Silvio Berlusconi e dai suoi accoliti.

Caselli, quell’accusa, quell’insulto di essere una “toga rossa” sono stati usati molte volte anche contro di lei. Non c’è mai stato un momento nel quale ha riflettuto se dietro quella definizione ci potesse essere qualcosa di vero?

Se fossi presuntuoso (in realtà lo sono!) risponderei semplicemente “no”, perché mi sono sempre sentito una toga libera e indipendente soggetta soltanto alla legge. Ma la domanda mi porta a citare Piero Calamandrei che (nel notissimo libro Elogio dei giudici scritto da un avvocato) narrava del miliardario che non riesce a fermare il processo contro suo figlio, che con l’auto ha sfracellato contro un muro un povero passante. Al difensore il miliardario ripete continuamente di non badare a spese, purché cessi lo “sconcio” del processo. L’avvocato non sa come spiegargli che “la giustizia non è una merce in vendita: quel giudice è una persona per bene…”. Allora il miliardario salta su sdegnato: “Ho capito… lei non me lo vuol confessare: abbiamo avuto la sfortuna di cadere in mano di un giudice cripto-comunista”. Quello che per Calamandrei era un aneddoto ricco di humour è diventato negli anni una pericolosa deriva illiberale e disgregante. Per quanto mi riguarda altro che toga rossa! Quando mi occupavo di terrorismo brigatista ero accusato di essere un fascista. Decido di andare a Palermo dopo le stragi del 1992 a dirigere quella procura antimafia e divento comunista (il copyright è di Salvatore Riina, ma poi un diluvio di imitatori non si è più fermato); torno a Torino come procuratore e devo occuparmi (fra le tante denunce che mi arrivano) anche di quelle relative ai reati commessi dalle frange violente del movimento No Tav e torno ad essere fascista, anzi fascista e mafioso. E sui muri compaiono leggiadre scritte tipo “Caselli boia”, “Caselli farai la fine di Moro”, “Caselli come Ramelli”. E allora mi viene di nuovo in mente Calamandrei: “Sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria”.

Magistrati e politica: un altro filone delle polemiche che hanno riguardato questo binomio è quello che riguarda i suoi colleghi entrati in politica: candidandosi a cariche elettive e poi, magari, ritornando in magistratura al termine del loro mandato. Che cosa ne pensa?

Di per sé il prestito di magistrati alla politica non è un problema. La contingente commistione dei ruoli può costituire, anzi, un utile scambio di esperienze. Occorre, però (e la riforma dell’ex ministro Alfonso Bonafede era persino troppo dura sul punto) fissare tutta una serie di paletti per quanto riguarda l’esercizio delle funzioni giudiziarie sia prima sia alla fine del mandato parlamentare o amministrativo. A destar scandalo – per parlare chiaro – non sono i magistrati che vanno in Parlamento, ma quelli che ci vanno per rendere servizi. Per distinguerli a volte basta leggere i giornali… Io non ho mai accettato proposte perché fare il politico o l’amministratore non è il mio mestiere.

Ai tempi delle inchieste sulle Brigate Rosse, quando era giudice istruttore a Torino, i suoi rapporti con Md furono difficili. Si giunse quasi alla rottura. Che cosa accadde?

Quando Bruno Caccia, il procuratore capo poi ucciso dai sicari della ‘ndrangheta, mi chiese in qualità di pm di quel processo di procedere (e io, come giudice istruttore, decisi di farlo) contro l’avvocato Giovan Battista Lazagna, a suo tempo valoroso partigiano e poi apprezzato intellettuale progressista (era solito partecipare ai convegni di Md), il comitato direttivo – con l’astensione di Livio Pepino – in pratica decretò la mia espulsione. Avrei voluto dimettermi, ma il mio “capo” di allora, il consigliere istruttore Mario Carassi, mi disse: prima finisci il processo com’è tuo dovere, poi farai quello che vuoi. Devo dire che con la successiva condanna di Lazagna il ventò cambiò del tutto, e io fui addirittura candidato al Csm nelle liste di Md ed eletto assieme a Pino Borrè ed Elena Paciotti. Colleghi dai quali ho imparato un sacco di cose, a partire dal rispetto per le opinioni altrui, purché motivate e discusse. Come avvenne quando io al Csm votai a favore di Giovanni Falcone per la nomina (dopo Antonino Caponnetto) a capo dell’ufficio istruzione di Palermo e loro invece no, ma per motivi del tutto diversi e opposti rispetto a quelli di altri consiglieri che, sotto sotto, non gradivano granché un lotta decisa alla mafia.

Ma quando Md nacque, opponendosi alla corrente conservatrice di Magistratura Indipendente, la vostra categoria sembrò attraversare una sorta di “periodo felice”. E non solo per le grandi inchieste che furono condotte in quegli anni, ma anche per il confronto, che fu innanzitutto di cultura giuridica e non politico in senso stretto, e per una qualche concordia rispetto alla comune difesa dell’indipendenza dei magistrati. E così? Che ricordi ha di quel periodo?

Attenzione: di “concordia” non ce ne fu poi tanta. In particolare nella vicenda della legge contra (meam) personam. La maggioranza del Csm fece le barricate contro di me con argomenti inconsistenti, tirando la volata (senza poi nulla eccepire) a una legge che espropriava il Csm e di fatto faceva sì che il capo di un importante ufficio giudiziario, la Direzione nazionale Antimafia, fosse nominato… dal Parlamento: alla faccia della separazione dei poteri!.

Torniamo alla “stagione felice”, allora.

Una “stagione felice” ci fu dopo Tangentopoli e Mafiopoli, quando la gente, invece di pensare alla scritta dei tribunali “La legge è uguale per tutti” come a una barzelletta, cominciò a crederci davvero e scese in piazza per manifestarlo ( ricordo i cartelli “Borrelli e Caselli come fratelli”). Mentre si incrinava l’omogeneità (consapevole o inconsapevole) di molta parte della magistratura con il sistema politico di cui è stata per lustri simbolo la Procura della Repubblica di Roma ( il “porto delle nebbie” che ha prodotto ogni sorta di artifici, pur di non turbare gli assetti di potere esistenti), si registrava un inedito sviluppo di processi per corruzione e per reati di mafia, molti nei confronti di imputati “eccellenti”. Ma la “stagione felice”, quasi un “momento magico”, finì a causa di una “crociata antigiudiziaria”. Per quanto ne so, senza uguali nel mondo democratico. Quei processi, è ovvio, non potevano credibilmente essere contestati da soli. Di qui la necessità di mettere sotto accusa l’intera stagione giudiziaria in cui essi si inserivano. Di qui la calunnia di “un’azione lungamente studiata dai comunisti, che hanno introdotto nella magistratura elementi propri, i quali hanno costituito una corrente (Md) che ha fatto politica attraverso indagini, processi, sentenze”. Mentre invece non fu per niente una stagione di persecuzioni (come si vorrebbe far credere), ma il doveroso dispiegarsi del principio di obbligatorietà della azione penale e di un controllo di legalità diffuso.

Un’analisi, questa, che si può estendere anche alle inchieste sulla mafia e all’operato della magistratura per sconfiggere Cosa Nostra?

Quanto ai processi di mafia (qui la mia esperienza è diretta), la stagione di grande tensione seguita alle feroci stragi del 1992 ha determinato, anche nella magistratura, una crescita di attenzione alla complessità del fenomeno mafioso e alla sua non riducibilità alla cosiddetta “ala militare”. Di qui l’apertura e lo svilupparsi, ovviamente non in base a teoremi politico-sociologici, ma a fatti ed emergenze probatorie, anche di procedimenti a carico di imputati “eccellenti” appartenenti alla borghesia politica, imprenditoriale e professionale (cioè a settori che da sempre, pur avendo avuto un ruolo centrale nella storia della mafia, erano rimasti sostanzialmente fuori da ogni indagine). Ma questo indirizzo non è stato indolore: è accaduto che, pur di scongiurare il salto qualitativo nell’azione di accertamento dei legami e delle collusioni con Cosa Nostra, si è accettato (persino da parte di consistenti settori dello Stato) di perdere una guerra che si sarebbe potuto vincere. Fino a smarrire il significato stesso delle parole, al punto di celebrare come assolto un imputato (Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio) che secondo la Cassazione, confermando la Corte d’Appello di Palermo, ha commesso (commesso!), fino al 1980, il delitto di associazione a delinquere con Cosa nostra. Fino a rovesciare la verità parlando di un imputato perseguitato costretto a percorrere un doloroso calvario. Così riuscendo anche ad occultare gli imponenti risultati investigativi e processuali ottenuti in quegli anni nel contrasto alla mafia. Mi stupirei molto se, alla fine, tutto ciò (come i cerchi che via via si allargano quando si lancia un sasso in acqua) non avesse profondamente inciso sulla magistratura.

Prima di parlare dei casi Palamara e Amara, e delle possibili riforme necessarie soprattutto riguardo al Csm, vorrei proporle una breve riflessione. Gli scandali sul sistema delle correnti e sulla gestione delle nomine negli uffici giudiziari, non sono forse il disvelamento di un problema che riguarda la magistratura nella sua interezza: per come è diventata, per come è oggi?

Una cosa è certa: è fortemente cresciuta la tendenza ad interpretare il proprio ruolo in maniera meramente burocratica (carte e fascicoli a posto, e poi vada come può!), piuttosto che con l’etica della “responsabilità del risultato”. Significa accontentassi del minimo sindacale, e non darci dentro (nel rispetto delle regole) per arrivare alla soluzione del caso. Significa, per esempio, limitarsi a un paio di testimoni, oppure cercarne e sentirne fin che serve. Siccome anche da questo punto di vista nessuno “nasce imparato”, contano molto l’esempio e l’insegnamento: quello dei primi magistrati con cui nella carriera hai a che fare, in particolar modo i dirigenti. L’etica della responsabilità a me l’ha insegnata Mario Carassi. Quando la Cassazione (nel 1976 assegnò alla magistratura di Torino l’inchiesta per l’omicidio del Procuratore generale di Genova Francesco Coco (ucciso dalle Br con gli uomini di scorta, Giovanni Saponara e Antioco Dejana), Carassi mi chiamò e sostanzialmente mi fece questo discorso: Caselli, questo processo lo intesto a te, che di Br ti stai già occupando (si trattava del processo ai “capi storici” della banda armata brigatista), ma anche a due tuoi colleghi. Allora gli chiesi perché e lui mi ripose: le Br hanno cominciato ad uccidere colpendo un magistrato. Noi dobbiamo farci carico di portare a termine quel che ci è affidato. Quindi questo processo lo fate in tre, perché se il titolare è uno solo e lo uccidono il processo è finito, mentre se ne restano due va avanti. E così nacque il primo pool (di cui facevano parte, oltre a me, Mario Griffey e Luciano Violante, non ancora “emigrato” in politica), al quale si ispirò poi anche Caponnetto per il pool di Palermo: quello di Falcone e Borsellino. Tutti coloro che hanno avuto la fortuna professionale di crescere sotto la guida di Carassi lo ricordano come un vero maestro e francamente non so dire quanti come lui ci siano ancora oggi in magistratura.

Oggi, però, che cosa è cambiato?

In ogni caso, l’etica della responsabilità fatica a formarsi e ancor più a resistere se chi fa il magistrato constata quotidianamente che certi suoi colleghi – onesti e capaci – vengono sistematicamente aggrediti solo perché fanno il loro dovere anche nei confronti di soggetti che di essere sottoposti come tutti gli altri al controllo di legalità non lo sopportano proprio. E che reagiscono difendendosi non tanto “nel”, quanto piuttosto “dal” processo e dal proprio giudice, che si cerca di condizionare, intimidire e svalutare con vere e proprie “campagne” ben organizzate. Come abbiamo già detto, questa è purtroppo la storia della magistratura italiana negli ultimi trent’anni e l’elenco degli insulti abitualmente rivolti ai giudici “scomodi”, da parte di personaggi anche ai vertici delle istituzioni o da loro accoliti, è interminabile e impressionante. Due esempi per tutti: “Antropologicamente diversi dal resto della razza umana” e “Cancro da estirpare”. Mica roba da niente… Alla fine il magistrato (ma con lodevoli eccezioni), magari inconsapevolmente, si chiede: ma chi me lo fa fare? Meglio stare alla larga da certi problemi, e se mi capitano, non sarò di certo io a cercarmi dei guai…. Ed ecco appunto che l’approccio burocratico si diffonde e la magistratura cambia.

Una delegittimazione dunque, ma anche un affievolirsi dell’esercizio dell’azione giudiziaria e soprattutto dell’accertamento dei fatti e delle responsabilità per i reati. E’ così?

Al magistrato s’insegna che se ci sono le prove deve condannare anche se la piazza chiede l’assoluzione e viceversa che deve assolvere se le prove non ci sono. Ma il magistrato vive inserito nel mondo e (se non è animato da etica della responsabilità, ma preferisce essere un burocrate) sente e registra le voci che salgono verso il palazzo di Giustizia. Sente soprattutto il “bombardamento” di chi può e conta (e magari dispone di media potenti) contro i colleghi più esposti: e così, cerca di non esporsi anche lui, per non rischiare la stessa sorte. Ovviamente , e lo ripeto fino alla noia, ci sono anche – e tante – lodevoli eccezioni.

Arriviamo al caso Palamara. Secondo lei Md ha delle responsabilità in quella vicenda? Ha partecipato alla degenerazioni del correntismo?

Finché sono stato in magistratura mi è sembrato che Md fosse “pulita”. Del resto Palamara (lo scrive a pagina 54 del suo libro scritto con Sallusti) dice che quando gli venne l’idea di darsi da fare per creare quello che diventerà “il sistema”, gli serviva “non essere in Magistratura democratica, corrente ideologica e non scalabile da uno con la sua storia, ma in una corrente meno strutturata e più pragmatica”. Quel che è successo dopo non sono in grado di valutarlo, posto che sono fuori dalla magistratura ormai da quasi 10 anni. E per orientarmi non mi bastano di sicuro le ricostruzioni di Palamara, che scrive un libro presentandosi come vittima di un “sistema” di cui è stato per anni motore e traino.

Ora però che tutto si è compiuto e che l’immagine, ma anche la realtà stessa della magistratura italiana sono devastate, che cosa si può fare?

Con il caso Palamara, con le intercettazioni telefoniche e ambientali acquisite dalla procura di Perugia e ora diventate pubbliche, è stato squadernano lo spettacolo avvilente di una limacciosa partita fra schieramenti trasversali e singoli magistrati dentro e fuori del Csm e dell’Associazione nazionale magistrati (Anm). Un vergognoso groviglio di caotiche trattative, scontri, manovre, accordi, baratti di posti e favori. E l’appartenenza è spesso diventata criterio dominante per la scelta dei capi degli uffici giudiziari. Un quadro devastante, capace di demolire quel poco di fiducia nella giustizia che ancora resiste. Oggi che si è toccato il fondo, serve uno scatto d’orgoglio dell’Anm e del Csm, per puntare – partendo da posizioni di sincera autocritica – a un robusto recupero di credibilità. Senza del quale non è neppure ipotizzabile una valida interlocuzione sulle prossime, ormai inevitabili riforme. Necessarie tanto quanto l’ossigeno per i malati di Covid.

E come non bastasse, ecco arrivare la ancora confusa vicenda dell’avvocato Amara.

Il groviglio di problemi scatenato dal dossier con i documenti (non firmati) riferibili a cinque interrogatori dell’avvocato d’affari Amara, che uno o più zelanti “postini” si sono adoperati per recapitare a giornalisti e non solo, appare assai singolare e nello stesso tempo insidioso, confuso e complesso. Per individuare le responsabilità di ciascuno (nessuno escluso, com’è doveroso) ci vorrà – tralasciando i tanti talk show che si occupano del caso – un lungo e serio lavoro investigativo-giudiziario.

Qualche suggerimento sia ideale, sia etico e anche operativo per i suoi ex colleghi?

Prima di tutto i magistrati devono scacciare “i mercanti dal tempio”, recuperando il coraggio, l’orgoglio e la responsabilità che in momenti ben peggiori hanno saputo esprimere. Sarò un inguaribile ottimista, ma credo che si possa ancora fare. In gioco c’è l’indipendenza stessa della magistratura. Qualche parte politica ostile a tale indipendenza cercherà sicuramente di approfittare della crisi. Per evitarne il tracollo occorre dunque che le diverse articolazioni del mondo della magistratura sappiano produrre un vero e proprio “rinascimento”: presupposto per ribadire che l’indipendenza non è un privilegio di casta dei giudici, ma un patrimonio dei cittadini. Che solo così possono sperare (quanto meno sperare) in una giustizia che non mostri gli occhi dolci a qualcuno per digrignare invece zanne feroci a tutti gli altri.

Ciò che sembra più urgente è soprattutto una riforma profonda e rapida del Csm. E’ d’accordo?

Quanto al sistema elettorale per frenare il correntismo, quello proposto a suo tempo dal ministro Bonafede mi sembrava andasse nella direzione giusta: se non per spazzare, quantomeno per ridimensionare in maniera forte il potere delle correnti. Per parte mia introdurrei una novità “rivoluzionaria”, ma credo efficace. La previsione di un collegio elettorale per ogni distretto di Corte d’Appello, con “primarie” per formare la rosa dei candidati prima della vera e propria elezione (imprescindibile per l’articolo 104 della Costituzione). Primarie da effettuarsi in ciascun collegio con la partecipazione, oltre che dei magistrati ordinari, di quelli onorari, di tutto il personale amministrativo e di adeguate rappresentanze dell’Avvocatura (tutta categorie che i magistrati li conoscono bene, per quotidiana frequentazione professionale). Lo strapotere delle correnti potrebbe così trovare un freno consistente.

L’altro grande problema è quello dei criteri per le nomine dei capi degli uffici giudiziari.

Su questo tema, mi sembra saggia e praticabile la proposta del presidente della Corte d’Appello di Brescia, Claudio Castelli (esponente storico proprio di Md): “Se si debbono valutare le capacità organizzative ed i risultati ottenuti sul campo”, posto che “il Csm, ma neppure i Consigli giudiziari hanno queste competenze, perché la valutazione è una scienza”; ci si potrebbe avvalere di un “organo consultivo” formato da “tecnici esterni, in particolare di estrazione universitaria, incaricati di una vera istruttoria” (come già avviene per formare i consigli di amministrazione di molte imprese). Infine penso che dovere assoluto del Csm sia migliorare il sistema di nomina degli uffici direttivi. Dandosi più stringenti regole, per poi applicarle rigorosamente con trasparenza. Per esempio: evitando il “raggruppamento” delle pratiche, mezzo prediletto dai faccendieri per elaborare strategie di spartizione, adottando sempre istruttorie approfondite e motivazioni rigorose, rendendo in qualche modo pubbliche anche le sedute della competente commissione: in modo da ridurre gli spazi per accordi clandestini, prevedendo infine un termine tassativo (2-3 mesi) per la decisione delle pratiche.

Un ultima domanda: prima di andare in pensione lei si dimise polemicamente da Md, dopo essere stato a lungo uno dei leader riconosciuti. C’era anche qualche malessere personale legato al correntismo, in quel gesto, maturato nelle polemiche attorno alle sue indagini sulle frange violente dei No Tav della Val di Susa?

Con le mie dimissioni da Md le beghe correntizie di cui abbiamo fin qui parlato non c’entrano. Mi sembrava inaccettabile che l’Agenda-calendario della corrente avesse pubblicato (per di più con una nota introduttiva compiaciuta) un intervento dello scrittore Erri De Luca favorevole, tutto sommato, alla violenza politica e alla lotta armata. L’Agenda fu poi ritirata e ne va dato atto a Md.