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Belìce, “terra di mezzo” tra Agrigento e Trapani dove MDM stava al sicuro

di Maristella Panepinto

Da Redazione

C’è un’intercapedine importante tra la mafia trapanese e quella agrigentina. Tra la provincia con maggiore densità mafiosa dell’isola e gli interessi di Matteo Messina Denaro.

È quella terra di mezzo, il Belìce, in parte di Agrigento e in parte di Trapani, dove Messina Denaro ha interessi economici forti e  può contare anche sulla protezione di uomini fedelissimi.

Quello più noto è Leo Sutera, il “professore”, originario di Sambuca di Sicilia, finito in manette con l’accusa di associazione mafiosa nella primavera del 2012. Per diversi anni sarebbe stato il capo della famiglia mafiosa agrigentina. Il blitz  Nuova cupola della Dda di Palermo fu uno dei più discussi degli ultimi anni. La Direzione distrettuale antimafia di Palermo si spaccò in due: da una parte c’era l’allora procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che coordinò l’indagine e che in una conferenza stampa disse che era giusto assicurare alla giustizia boss e fiancheggiatori agrigentini, dall’altro c’era Teresa Principato, anche lei al tempo procuratore aggiunto alla DDa di Palermo, ma convinta che quegli arresti fossero stati frettolosi.

La dottoressa Principato stava conducendo indagini delicate sul superlatitante trapanese, ne aveva individuato spostamenti e fiancheggiatori e tra questi vi erano Leo Sutera e il suo fedelissimo, un altro mafioso del Belice, Pietro Campo (anch’egli finito in manette nel 2012). C’è un’informativa dei Ros, che racconta di un incontro tra Sutera e Campo, in un ovile, dalle parti di Santa Margherita Belìce. I due parlano con cognizione di causa di Messina Denaro, Campo addirittura riferisce al boss Sutera di aver incontrato “Diabolik”, di essere stato da lui riconosciuto e chiamato per nome. Si paventa un nuovo incontro. Gli inquirenti fibrillano.

Secondo la Principato quella pista avrebbe condotto  dritti a Messina Denaro.

Quando però Sutera, Campo e altri 46 mafiosi dell’agrigentino finiscono in manette, secondo la ex magistrato va in fumo l’arresto più importante, quello della primula rossa. Sono state prese le milizie e lasciato libero il comandante. La vicenda ha tanti punti di domanda e poche risposte certe.

Passano 11 anni prima che il super-boss venga catturato.

Anni in cui, come l’allora procuratore aggiunto Vittorio Teresi ebbe a dire in una conferenza: “la mafia non lascia vuoti”. A maggior ragione quella agrigentina, che ha tradizioni storiche di boss, di latitanze, intrecci e di fattacci di sangue.

Alcune fonti investigative accreditate, ci raccontano del legame fortissimo di Messina Denaro con la famiglia mafiosa agrigentina, quella a lui più fedele, sebbene durante la sua lunga latitanza non siano mancate le frizioni.

Per comprendere bene, occorre però fare una serie di passi indietro.

Siamo nell’immediato periodo post stragista.  È il 1994, Matteo Messina Denaro è trentenne, è un boss temuto e rispettato ed è agli inizi della sua latitanza. Secondo le fonti, Messina Denaro avrebbe fatto una sosta a Casteltermini, dove latitava, in un ovile a pochi km dal centro abitato, il suo amico Salvatore Fragapane.

Fragapane è un mafioso di Santa Elisabetta, un uomo d’onore vecchio stampo, che sa sparare e sa mediare. Era al tempo il capo della famiglia agrigentina, reggente anche perché “U siccu” aveva messo più di una buona parola in suo favore. Pare sia stata proprio la riconoscenza ad aver spinto Fragapane a coprire un piccolo pezzo della latitanza di Diabolik. Anche perché Messina Denaro che latita a lungo in un ovile sperduto tra i monti Sicani è difficile da immaginare. C’è anche un pizzino, riconducibile a Messina Denaro, in cui il boss conferma che: “L’ultimo vero uomo di mafia di Agrigento è stato Salvatore Fragapane”.

Il boss di Santa Elisabetta è arrestato nel 1995 proprio nel covo di Casteltermini, alla reggenza gli  subentra Cesare Lillo Lombardozzi, con il quale Messina Denaro non intrattiene rapporti felici, malgrado la mediazione di una serie di uomini di onore agrigentini e trapanesi. L’epoca Lombardozzi non è stata semplice per il super boss trapanese.

Il culmine del disaccordo arriva quando a Lombardozzi subentra il pupillo, Giuseppe Falsone, boss di Campobello di Licata, giovane, spietato e con alle spalle una fitta scia di sangue.

Messina Denaro, in un pizzino, lo liquida così: “Falsone non è buono, è un pupo in mano dei Capizzi.”

Il riferimento è ai capi mafia riberesi, potenti e temuti in quegli anni.

I fratelli Capizzi avrebbero fatto un affronto pesante al padrino di Castelvetrano, avrebbero richiesto il pizzo ai supermercati Despar di Grigoli, uomo fedelissimo di Messina Denaro, la sua manus longa nell’impresa della grossa distribuzione.

Falsone, boss latitante per undici anni, non avrebbe mosso un dito per impedire “lo sgambetto” dei riberesi e la cosa avrebbe mandato su tutte le furie Diabolik.

La situazione non migliora neppure quando, catturato dalla Polizia a Marsiglia Giuseppe Falsone (è il giugno 2010), si dice che alla reggenza vi sia per un brevissimo periodo il boss empedoclino Gerlandino Messina.

Messina, arrestato dai Carabinieri a Favara nell’ottobre del 2010 dopo un decennio di latitanza, scrive dei pizzini (ritrovati nel covo favarese) a Messina Denaro, mandandogli delle ambascerie di pace e di collaborazione. Si dice disposto a mettersi a disposizione del boss.

Appelli che pare siano rimasti inascoltati. In considerazione del fatto che il boss di Castelvetrano individuava la leadership agrigentina nel suo fedelissimo Leo Sutera.

Fatti due conti e a giudicare dalle carte, la mafia gestita da Gerlandino Messina muoveva affari piccoli: estorsioni locali e spaccio di droga nel territorio, quella di Leo Sutera, invece, aveva giri a tanti zeri, quelli che sono del modus operandi dell’ultimo dei corleonesi. Messina Denaro stima Leo Sutera, intravede in lui le caratteristiche ideali del capo famiglia: è furbo, sa muoversi, ha cervello per fiutare gli affari giusti e per fare buoni risultati, sa farsi rispettare

Ecco spuntare grossi affari nel Belìce: calcestruzzo, scommesse online, turismo di lusso, energia alternativa, agricoltura. Si tratta di un terra rigogliosa di vigne, agrumi e uliveti. Lì si produce la nocellara, una tipologia rara e pregiata di olive.

Su questo business, che frutta fior di capitali anche oltre i confini dell’Isola, Messina Denaro mette le mani.

Arrivano le richieste estorsive del 4% ai produttori di olive, pena atti intimidatori molto gravi a chi si opponesse. C’è anche la gestione fantasma di alcune aziende agricole belicine con i boss del territorio a fare da garanti.

Subentra anche un business telematico, quello delle scommesse online. La mafia di Messina Denaro crea una rete di fiancheggiatori, che operano nel settore e che impongono a molti esercenti del territorio l’installazione di macchine da gioco e di dispositivi per scommettere online. Da lì il più recente giro di contanti liquidi a disposizione del  super boss.

C’è poi un altro aspetto, quello della massoneria.

Nel Belìce la concentrazione delle logge è la più alta d’Italia. Sono ben tredici le logge iscritte al Grande oriente e che orbitano in quell’intercapedine che comprende il trapanese e l’agrigentino. Due di queste sono a Campobello di Mazara (meno di 11 mila abitanti), una a Castelvetrano, un’altra a Menfi, quindi a Santa Margherita Belìce, a Partanna e a Sambuca.

Piccoli centri, dove la massoneria è presente e radicata, nel tempo e nello spazio.

Sgomentano a tal proposito le dichiarazioni, rese a Piazza Pulita (La7) dall’ex Gran Maestro Giuliano Di Bernardo, secondo il quale, in quel territorio, tra Trapani e Agrigento, la mafia è dentro la massoneria e grazie a questa ha la possibilità di muovere persone, cose e soldi.

Di Bernardo ricondurrebbe le sue dimissioni, anni fa, dai vertici massoni a un “limite morale, imposto dalla presenza in alcune logge della mafia siciliana e calabrese”.

Indica anche la notoria presenza di medici in ambienti massoni, gli stessi che, quando fanno il paio con la mafia dei criminali, non solo ne favoriscono la fuga, ma creano collegamenti con tutte le massonerie di Italia e del mondo, così da garantire protezione e se è il caso cure mediche.

Viene subito da pensare a Messina Denaro, a quell’intervento agli occhi fatto negli anni ’90 alla clinica Barraquer di Barcellona, uno degli ospedali oculistici più rinomati al mondo. Ed ancora rimbalza l’idea di quei due medici indagati, un oncologo trapanese e quindi Alfondo Tumbarello, medico curante dell’alias Andrea Bonafede. Tumbarello, iscritto da tempo al Grande Oriente (quindi sospeso alla notizia degli atti di indagine a carico del sanitario) sarebbe, secondo gli inquirenti, una figura centrale per iniziare a sciogliere i tanti nodi legati a Messina Denaro. Lui ancor più di Andrea Bonafede, l’alter ego, un probabile braccio pratico e operativo del boss.

Continuano le indagini, le perquisizioni, il setaccio dei tanti luoghi del boss di Castelvetrano. Si è tolto un coperchio che potrebbe aprire la porta a verità scomodissime, a misteri lunghi decenni, a intrighi sempre sospettati ma senza conferma.

Resta il punto cruciale: se Messina Denaro parlasse?

Fonte:https://www.grandangoloagrigento.it/mafia/belice-terra-di-mezzo-tra-agrigento-e-trapani-dove-mdm-stava-al-sicuro