Il Nostro esecutivo in mano alle lobby e ai petrolieri? Una barzelletta», ripete il premier Matteo Renzi ogni volta che qualcuno osa accostare il suo nome e quello del suo governo a gruppi di pressione, cordate extra-politiche, conflitti di interessi.
Eppure al momento della nascita del governo, più di due anni fa, la nomina di almeno tre ministri destò più di una perplessità per il loro stretto legame con una lobby esterna: Giuliano Poletti, dalla lega Coop al ministero del Lavoro, Maurizio Lupi, legato a Comunione e liberazione e Compagnia delle Opere (confermato al ministero delle Infrastrutture che aveva già guidato con il governo Letta),Federica Guidi, figlia di Guidalberto, da Confindustria al ministero dello Sviluppo economico.
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Timori non infondati, dato che due su tre (Lupi e Guidi) sono stati costretti a dimettersi senza essere indagati, ma dopo che le inchieste giudiziarie hanno svelato i movimenti delle cricche nei loro ministeri. Ma nel governo che tutto dis-intermedia, come sempre si vanta Renzi, c’è il rischio, ha scritto un osservatore di certo non giustizialista come Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera” (17 aprile), che ci sia «un aumento delle aree del privilegio, segmenti sociali ristretti capaci, con un’azione genericamente definibile di lobbying, di assicurarsi quote di risorse aggiuntive o status che li differenziano sempre più dal resto dei cittadini… I pochi finiscono per contare più dei molti». Anche nell’Italia del Rottamatore.
La vicenda di Banca Etruria, con la parabola di Pierluigi Boschi, nominato vice-presidente dell’istituto toscano dopo l’ascesa della figlia Maria Elena a ministro-chiave e oggi indagato per bancarotta fraudolenta, considerata la madre di tutti i conflitti di interessi del governo Renzi, non rientra strettamente in questa categoria, perché il ministero della Boschi non ha diretta responsabilità sulle banche, né mai si è trovata la traccia di un suo diretto intervento sulla procedura di commissariamento dell’istituto caro al papà. Anche se una maggiore prudenza avrebbe sconsigliato il ministro di parlare in alcune interviste da esperta di aggregazioni bancarie riuscite e fallite. Pazienza. C’è di peggio.
Prendiamo il caso di Marco Carrai. Vecchio amico del presidente del Consiglio, con lui fin dai tempi della Margherita, ospitò gratuitamente Renzi in una sua casa al centro di Firenze, quando l’ex boyscout era sindaco del capoluogo toscano. E poi fu nominato amministratore delegato di Firenze Parcheggi e quindi presidente degli Aeroporti Toscani. È uno dei pochissimi membri del Giglio magico a non aver ancora ottenuto una poltrona a Roma, nonostante il suo peso crescente tra gli uomini di fiducia renziani. Da almeno un anno il premier gli ha promesso un incarico di rilievo nella sicurezza nazionale, settore per cui Carrai – nonostante nessuna competenza specifica – ha una vera fissazione.
Il tentativo va avanti da mesi, ma l’idea iniziale (quella di creare un’Agenzia contro il cyber-terrorismo a Palazzo Chigi da affidare a Carrai in persona, che avrebbe deciso investimenti vicini ai 150 milioni di euro) è sembrata fuori misura anche ai fan più accaniti di “Marchino”: Carrai è infatti azionista di una società, la Cys4, specializzata in sicurezza informatica, fondata a fine 2014 insieme a Leonardo Bellodi, ex braccio destro di Paolo Scaroni all’Eni e molto vicino all’attuale numero uno degli 007 dell’Aise Alberto Manenti.
Qualcuno maligna che l’abbia aperta proprio perché sapeva in anteprima che il governo voleva investire sul settore. Malignità a parte, come può un imprenditore che ha un’azienda privata diventare consulente pubblico?
Non basterebbe nemmeno un trust a scongiurare possibili conflitti di interessi. Anche perché nel cda della Cys4 c’è anche il fratello di Carrai, Stefano, che è anche consigliere dell’Aicom, la società fiorentina che ha il pacchetto di maggioranza.
Tramontata l’ipotesi dell’Agenzia, Carrai è entrato in gara per un posto di consulente a Palazzo Chigi. Una scelta che scontenta comunque molti nostri spioni: secondo alcuni di loro è stato infatti Carrai, grande amico del figlio di Fiamma Nirenstein dipendente dei nostri servizi segreti, a spingere affinché l’ex parlamentare berlusconiana fosse nominata dal governo israeliano nuova ambasciatrice di Israele in Italia. Una nomina contestata sia a Roma che a Tel Aviv.
Una sovrapposizione di ruoli che supera le frontiere nazionali. Come i conflitti di interessi, sempre meno confinabili sul territorio italiano. Perfino a Bruxelles, il cuore d’Europa e capitale d’elezione per i lobbisti di 28 Stati, faticano a distinguere quando si tratta di italiani tra interessi nazionali, generali e particolari.
L’ex vice-ministro Carlo Calenda è arrivato da poco a rappresentare l’Italia come ambasciatore presso la Ue e si è trovato subito a occuparsi di dossier che conosce bene. Il quarto pacchetto ferroviario, che dovrà essere adottato da Parlamento e Consiglio Ue, con un’apertura dei mercati domestici e regole di governance e trasparenza finanziaria per i Gruppi ferroviari integrati.
Nella fase finale del negoziato gli italiani si sono spesi per una linea che sembra penalizzare le Ferrovie e favorire gli operatori privati, in testa l’Ntv, di cui sono azionisti Luca Cordero di Montezemolo e Gianni Punzo, due personaggi che l’ambasciatore Calenda conosce molto bene: del primo è stato assistente quando era presidente di Confindustria, del secondo direttore generale all’Interporto campano.
In arrivo c’è il pacchetto aviazione, in cui l’Italia è impegnata a combattere contro chi nella Commissione Ue vorrebbe ostacolare l’alleanza di vettori terzi con paesi Ue. Per esempio, Alitalia-Etihad. Interesse nazionale legittimo e convergenza di ruoli: Montezemolo, presidente di Alitalia, ex capo di Calenda.
In una Bruxelles dove ancora raccontano delle imprese del ministro Federica Guidi, prima delle dimissioni. Di quando andò a bussare alla porta della danese Margrethe Vestager, commissario Ue alla Concorrenza, per soccorrere le aziende italiane che avevano usufruito degli incentivi per le rinnovabili. Anche in questo caso, difficile distinguere la linea sottile che passava tra l’interesse nazionale e quello settoriale della lobby dell’acciaio, cara al ministro e a suo padre.
La Guidi, oggi mediaticamente triturata dall’inchiesta di Potenza e dalle gesta del suo compagno Gianluca Gemelli (che ha trafficato, secondo le accuse, per “spingere” un emendamento a favore dei petrolieri della Total, norma appoggiata con convinzione sia da Renzi che dalla Boschi), fu nominata ministro dello Sviluppo economico nonostante l’azienda di famiglia, la Ducati Energia, avesse tra i suoi committenti aziende pubbliche controllate dal governo come Poste, Terna, Enel e Fs. E pochi mesi dopo richiamò gli amici nei posti chiave.
Piero Gnudi, piazzato come commissario straordinario dell’Ilva di Taranto: manager ultranavigato protagonista di tante stagioni della Prima e Seconda Repubblica, è uno dei migliori amici del papà della ministra dimissionata, Guidalberto. Un altro amico, sponsor in Sicilia di Gemelli, è ilvice-presidente di Confindustria Ivan Lo Bello, anche lui sotto inchiesta a Potenza.
Tutto da dimostrare, sul piano giudiziario. Ma dalle carte dell’inchiesta emerge il potere delle lobby e la loro capacità di condizionare le scelte, anche in era Renzi. Come nel caso della nomina del commissario dell’autorità portuale di Augusta, sgradita a Lo Bello e stralciata dal ministro Graziano Delrio: gli indagati se ne attribuivano il merito nelle telefonate intercettate.
O l’inchiesta sulla flotta navale che coinvolge il capo di stato maggiore della Marina ammiraglio Giuseppe De Giorgi. Nel cuore del sistema lobbistico c’era il consulente della Camera di Commercio Nicola Colicchi, che usava organizzare cene di lavoro sulla splendida terrazza della sede romana, in cima al tempio di Adriano, in piazza di Pietra che sta tra Montecitorio e Palazzo Chigi, lo scenario in cui si incrociano e si incontrano deputati e lobbisti, i giovani rampanti e i nuovi faccendieri, la politica ufficiale e gli interessi settoriali.
Se la scelta sfortunata della Guidi è figlia del Patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi (qualche anno fa Federica era in predicato di formare un ticket elettorale con l’ex Cavaliere), la decisione di mettere nel 2014 Emma Marcegaglia alla presidenza dell’Eni è sembrata più di una mano tesa di Renzi verso la Confindustria, di cui la Marcegaglia è stata numero uno.
Nonostante il rischio dei conflitti di interessi: se da un lato il gruppo Marcegaglia è uno dei più importanti player siderugici d’Italia, il fratello di Emma, Antonio, presidente e amministratore delegato dell’azienda di famiglia, nel 2008 patteggiò per una vicenda di tangenti pagate per alcuni appalti a un manager di Enipower.
Ma all’Eni sono finiti anche Lapo Pistelli ed Andrea Gemma. Il primo, alle origini dell’impegno politico di Renzi a Firenze, poi suo rivale storico, è stato assunto dalla multinazionale controllata dal ministero dell’Economia mentre era viceministro degli Esteri. Dall’incarico di governo alla vicepresidenza senior dell’ente petrolifero: un passaggio di campo mai accaduto prima.
Il secondo, l’avvocato Gemma, è stato inserito nel cda dell’Eni per volontà di Angelino Alfano, capo dell’Ncd, ministro dell’Interno e amico del legale dai tempi del dottorato. I due sono alla piramide di una rete di potere enorme, basata su incarichi pubblici, cattedre universitarie e consulenze: Gemma, insieme ad altri soci tra cui Angelo Clarizia, ha vinto l’anno scorso la gara da 630mila euro per i servizi legali dell’Expo (le cui azioni di maggioranza erano in mano al governo), dopo esser stato nominato da Alfano, quando era Guardasigilli, «soggetto attuatore del Piano Carceri» e ha recentemente difeso l’Ncd in un contenzioso di fronte al Consiglio di Stato.
Nello studio del socio di Gemma, Clarizia, in passato ha lavorato anche la moglie di Alfano, l’avvocato Tiziana Miceli. Una professionista che nel 2014 e 2015 si è aggiudicata – come scoprì “l’Espresso” – cinque consulenze, o incarichi di patrocinio legale, dalla Consap. Non una società privata, ma la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici controllata direttamente dal governo. Di cui, ancora oggi, è presidente e adMauro Masi, ex dg della Rai in quota berlusconiana e vicino di pianerottolo della famiglia Alfano: sia il ministro che il manager vivono nello stesso elegante palazzo in via delle Tre Madonne ai Parioli.
Nel pianeta giustizia, oggi al centro dell’attenzione di Renzi, si muove poi una delle più straordinarie creature del governo. Ilsottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, un centauro, metà politico metà toga. Più esattamente, un politico con la toga. Leader di Magistratura Indipendente, nel 2014 sponsorizzò con un messaggino la campagna elettorale di due amici di corrente per il nuovo Csm. Il primo, Luca Forteleoni, risultò il più votato. «Indifendibile», tuonò Renzi contro il sottosegretario che procacciava voti per i suoi amici magistrati.
Ma non è successo nulla: Ferri è rimasto al suo posto. E dal suo doppio incarico di uomo di governo e di capocorrente è nata la scissione in Magistratura Indipendente che ha portato oggi alla nomina di Piercamillo Davigo alla guida dell’Anm. Un pessimo affare per Renzi: si è tenuto nel governo la toga in conflitto di interessi e si è guadagnato un osso duro da scalfire come leader dei magistrati.
Ma i casi di interessi convergenti tra incarichi pubblici e affari privati non si contano. Il caso di Gabriele Beni è emblematico. Imprenditore che produce scarpe, è l’uomo che ha regalato a Renzi le D’Aquasparta, le snikers con il tricolore che il premier indossò allo show organizzato per il recupero della Costa Concordia all’Isola del Giglio. Qualcuno alzò il sopracciglio, evidenziando che Renzi aveva fatto da testimonial non solo a un suo amico, ma a un imprenditore che aveva finanziato direttamente la sua fondazione politica Open con 25 mila euro.
Subito dopo, nel settembre 2014, Beni – dopo aver bonificato la somma all’associazione che organizza la Leopolda – è stato nominato vicepresidente di una società pubblica, l’Ismea, l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare controllato dal ministero guidato da Maurizio Martina. Che, volente o nolente, s’è prestato a un’operazione difficilmente giustificata da merito e competenze specifiche.
Così come è difficile stabilire quali siano i saperi di Andrea Gentile, nominato dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin come suo rappresentante nel cda dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano. Neppure il ministro Boschi è riuscita a spiegarlo, rispondendo ad alcune interrogazioni parlamentari: «La normativa vigente non stabilisce specifici requisiti per i componenti del consiglio di amministrazione». Non serve essere studiosi di medicina (Gentile vanta una laurea in diritto penale, tesi su “L’illecita captazione di erogazioni pubbliche”), basta essere figli di qualcuno, nel caso il potente ras dell’Ncd calabrese Tonino Gentile, amico di partito del ministro Lorenzin.
Così potente da essere riuscito a rientrare nel governo Renzi come sottosegretario dopo essersi dimesso dalle Infrastrutture nel 2014 dopo la vicenda che aveva coinvolto il figlio Andrea: la pubblicazione della notizia dell’inchiesta a suo carico sull’Asp di Cosenza che provocò la chiusura del giornale “L’Ora della Calabria”. Ora tutto a posto: giornale chiuso, Gentile padre al governo, nel ministero dello Sviluppo Economico senza ministro dopo le dimissioni della Guidi, Gentile figlio prosciolto dalle accuse e piazzato nell’Istituto Tumori senza problemi perché, come ha detto la Boschi, «tale rapporto di filiazione non implica causa di inconferibilità o incompatibilità».
E ci mancherebbe. Deve essere questo che chiamano merito. E non basterà certo l’annunciato registro di quelli che pudicamente vengono chiamati «portatori di interessi» in Parlamento a rendere trasparente ciò che arriva nelle stanze della politica senza mediazioni e ostacoli. Lobby continua.