Cerca

BANCO NUOVO | La parabola criminale dei Cumps

BANCO NUOVO | La parabola criminale dei Cumps

BANCO NUOVO | La parabola criminale dei Cumps

La storia dell’ascesa delle nuove leve di ‘ndrangheta nella Locride. Che da impacciati malviventi si sono trasformati in un gruppo armato alle dipendenze del clan Morabito. E il potere veniva veicolato grazie a Facebook

8 novembre 2017

REGGIO CALABRIA Su Facebook, per firmare gli sms, o al telefono si definivano Cumps. Cumpari, ma all’americana. O in alternativa, fratelli e amici di sangue. Di certo, si proclamavano uniti da vincoli indistruttibili e da un’unica, comune missione: farsi strada nel mondo criminale di Africo. Un cammino che oggi li ha portati dietro le sbarre. Quando inquirenti e investigatori hanno iniziato a seguire Alessio e Nicola Falcomatà, Paolo e Stefano Benavoli, Vincenzo Toscano, Daniele Manti e gli altri che gravitavano loro attorno, molti del gruppo erano a stento maggiorenni. Ma già affamati di gloria criminale.

ERRORI DA PRINCIPIANTI I primi passi li hanno mossi in maniera più che goffa. Illusi di poter rivendicare un personale dominio di ‘ndrangheta sulla propria contrada, arginando così le ingerenze degli africoti, più di un guaio lo hanno fatto. Si sono presentati dal direttore dei lavori di un cantiere controllato dagli africoti, pretendendo di sostituirli nelle forniture di cemento, rimediando solo una sonora tirata d’orecchie dal padre di uno di loro, immediatamente allertato dal professionista cui si erano rivolti. In un’altra occasione, quando hanno deciso di provare delle armi, hanno sparato alla motopala sbagliata, finendo con il dover risarcire il proprietario del mezzo finito con il radiatore bucato.

E TIRATE D’ORECCHIE Sbandieravano ai quattro venti che «da ora in avanti vediamo, non c’è né Africo, né Motticella e né niente», perché – a loro dire – «qua d’ora in avanti si deve dare conto». Ma l’unico risultato che nel tempo hanno ottenuto è stata una pioggia di telefonate a familiari e parenti, generalmente messi sull’avviso dai per nulla intimiditi destinatari delle estorsioni, già sotto l’ala dei Morabito. «Stai attento che tuo figlio così lo scorci (lo perdi)», ha detto uno al padre di uno dei più attivi e carismatici fra gli aspiranti boss.

TALENTO CRIMINALE Tuttavia, tanta “verve” ha colpito nel segno. E i Morabito, i fratelli Giovanni e Bartolo, meglio noto come Babà, nipotini del Tiradritto – che di Africo e delle zone limitrofe, Brancaleone inclusa, sono sempre stati i padroni – hanno voluto “premiare” il “talento criminale” li hanno presi sotto la propria ala. Tanto è bastato perché gli odiati nemici diventassero dei veri e propri guru, nei confronti dei quali mostrare quasi venerazione. Soprattutto nei confronti di Babà, che ha finito per far loro da balia (criminale, ovviamente). Era – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare – «il punto di riferimento di questi giovani che lo riveriscono, lo tengono nella massima considerazione, lo informano di tutto, gli fanno da autista, atteso che gli è stata ritirata la patente e sono pronti ad ubbidirgli ciecamente».

Con lui – annotano gli investigatori – i cumps finiscono per fare riunioni regolari, ma si fanno anche vedere in giro insieme, negli stabilimenti balneari di lusso come al ristorante o nei locali. In cambio, per conto dei Morabito inizieranno a nascondere e vegliare su parte dell’arsenale del clan.

L’INSOSPETTABILE ARMIERE Armi che hanno fatto finire nei guai anche uno di loro, Paolo Benavoli, insospettabile figlio di una famiglia fino ad allora considerata espressione della cosiddetta “Brancaleone bene”. In realtà, ha spiegato il pentito Maviglia, da tempo il padre, noto imprenditore del luogo, non solo era in contatto con i clan, ma era persino affiliato e con una carica importante. Un insospettabile, finito nei guai e stanato proprio grazie all’esuberanza criminale del figlio. A causa delle armi che Benavoli jr nascondeva, il padre è finito dietro le sbarre. E nulla ha ottenuto il diretto interessato presentandosi spontaneamente in Questura per giurare e spergiurare che le armi fossero sue, se non di finire in carcere anche lui.

LA LITURGIA DEI CUMPS Uno scivolone che non ha spaventato per nulla il gruppo, anzi sembra quasi averlo reso più sfrontato e coeso. I “cumps” hanno continuato a organizzare feste e “mangiate”, a mostrarsi contenti, ai tavoli dei locali, circondati da bottiglie, a cavallo sulla spiaggia o pronti a sfrecciare sulla moto ad acqua. Ma soprattutto pronti a proclamare nelle strade e su Facebook il proprio credo criminale, disquisendo di omicidi, detenzioni e falsi rispetti. «Uno se ha 4 pistole vuol dire che il rispetto è quello…, non si scherza, tu vai in una lite e non andare armato e vedi come ti combinano…, compare Condello una botta ha sparato a Bruzzano e sono andati via tutti, hai capito…, “U ferru” ( lett.) detta legge, possono pensare che cazzo vogliono», proclama uno. Si dicono perseguitati dalle forze dell’ordine, ma – sono convinti – più di uno di loro riuscirebbe a incutere nelle divise un sacro terrore. «Fottitene tu – dice uno di loro, intercettato – che Stefano non è stupido, che Stefano, avanti a lui non parlano che hanno paura; infatti ieri quando è arrivato Stefano gli ho detto “Ah cazzo, con Stefano non parlate?”». Una liturgia officiata pubblicamente, tanto nelle piazze e nelle strade, come sui social. E che ha fatto proseliti. In tanti a Brancaleone hanno iniziato nel tempo a rivolgersi ai Cumps in caso di furti, scippi, sgarbi o problemi, come se nelle loro mani stesse la facoltà di gestire l’ordine pubblico.

MESSAGGI VIRTUALI «I social network – riflette il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – sono diventati ormai un veicolo di comunicazione anche delle ideologie mafiose. Ritengo sia un dato allarmante nella misura in cui il criminale entra in contatto con un numero enorme di utenti in uno spazio virtuale che non veicola solo buoni sentimenti ma diviene sempre più il luogo da sfruttare per allargare gli orizzonti della intimidazione diffusa perseguita dalle mafie moderne».

E la parabola dei Cumbs, dalle strade reali a quelle digitali, lo dimostra.

«La ‘ndrangheta sa che la forza di intimidazione per essere tale deve essere veicolata verso le potenziali vittime. E sa bene che solo l’utilizzo delle nuove forme di comunicazione è in grado oggi di garantire tale risultato su larghissima scala. Ecco spiegata la ragione per cui è necessario usare Facebook o altri strumenti similari. Sanno di correre il rischio di fornire a noi elementi di prova a loro carico. Nonostante questo sono consapevoli che il vantaggio che ne deriva è di grandissima ampiezza, tanto da spingerli ad agire lo stesso. Ovviamente non si tratta di una intimidazione virtuale. È virtuale solo lo spazio comunicativo che viene usato. Le armi e le condotte delittuose sono reali, come dimostra l’indagine svolta».

 

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it