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Aosta, reati contestati con l’aggravante del metodo mafioso e un controllo territoriale: le motivazioni della sentenza “Hybris” – Narcomafie.

 

Fw: Aosta, reati contestati con l’aggravante del metodo mafioso e un controllo territoriale: le motivazioni della sentenza “Hybris” – Narcomafie

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ARTICOLI ‘Ndrangheta ad Aosta – Narcomafie

Aosta, reati contestati con l’aggravante del metodo mafioso e un controllo territoriale: le motivazioni della sentenza “Hybris”

13 feb 2015 |

    

di Marika Demaria

'NDRANGHETA: ARRESTATI 4 ESPONENTI DEI PESCE DI ROSARNOL’imposizione dell’assunzione di due giovani che sfocia in un incendio doloso. L’onore leso, infamato e per questo punito a coltellate, in un episodio di tentato omicidio. Sullo sfondo, collegamenti con le famiglie Pesce e Facchineri. E le montagne valdostane.
Le motivazioni della sentenza (emessa dal Tribunale di Torino il 14 ottobre scorso) relativa all’inchiesta “Hybris” – condotta dai Carabinieri di Aosta e coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Torino dal 2012 al 2013 (con il pm aggiunto Daniela Isaia allora distaccata dalla Procura aostana e al fianco del pm Stefano Castellani) – raccontano, in 256 pagine, di faide famigliari, di codici mafiosi da rispettare, di “favori” e sgarri accaduti ad Aosta. I reati contestati ai cinque imputati sono tentata estorsione, danneggiamento, rapina, tentato omicidio, lesioni, con l’aggravante del metodo mafioso, come raccontato da «Narcomafie» all’indomani della sentenza
(http://www.narcomafie.it/2014/10/14/valle-daosta-cinque-condanne-in-primo-grado-per-hybris-riconosciuta-laggravante-del-metodo-mafioso/).
I protagonisti. La notte del 3 giugno 2012,  nel quartiere Dora di Aosta un’auto prende fuoco e le fiamme si propagano alle due vetture parcheggiate ai lati, il forte calore propagato fonde inoltre le tapparelle delle abitazioni restrostanti le vetture. I Vigili del Fuoco ipotizzano si tratti di cortocircuito, ma i Carabinieri, a seguito di perizia svolta da meccanici esperti, convengono si tratti di incendio doloso. La “Seat Exeo” danneggiata appartiene a Girolamo Fazari, dipendente (così come il fratello Giuseppe) della Tour Ronde, società attiva in Valle nel settore dell’edilizia. Dalle carte emerge che “le indagini hanno consentito di inquadrare il ruolo preciso e ben più importante che i germani ricoprono all’interno della predetta società, al di là della loro qualifica formale di dipendenti. Fazari Giuseppe, infatti, è risultato garantire, con la propria presenza in azienda, una vera e propria protezione da richieste estorsive di cui la società è potenziale bersaglio”.  Ed è infatti proprio a lui – e non al presidente della società, Silvano Visini – che tali Pasquale Mammoliti e Claudio Taccone si rivolgono per chiedere di assumere i rispettivi figli Domenico e Ferdinando. I legami di parentela dei protagonisti delle vicenda sono delineati all’interno delle motivazioni: “La madre di Mammoliti Domenico, Muscatello Mariangela, è la sorella di Muscatello Grazioso, legato al clan Facchineri, nonché di Muscatello Mirella e Muscatelllo Elena, sposate rispettivamente con Facchineri Rocco e Facchineri Domenico, esponenti di spicco dell’omonimo clan. Taccone Ferdinando, classe 1939, nonno omonimo dell’imputato è fratello di Taccone Antonia, coniuge di Pantano Salvatore, la cui figlia Anna Maria è sposata con Pesce Antonino (classe 1964 e figlio di Pesce Savino) e la cui nipote Pantano Sarina (figlia del figlio Pantano Giuseppe) è coniugata con Pesce Antonino, figlio di Pesce Giuseppe (detto Pecora), fratello di Pesce Antonino (classe 1953 e a capo dell’omonimo clan)”.
Nonostante le richieste di assunzione si facciano sempre più insistenti, i giovani non vengono assunti alla Tour Ronde. A quel punto Claudio Taccone richiama Fazari ai suoi “diritti e doveri”, lamentandosi per la mancata assunzione dei ragazzi. Il 3 giugno 2012, viene appiccato il fuoco al pneumatico destro dell’auto di Fazari, che non ha dubbi, come emerge dalle intercettazioni, sui nomi degli autori: Ferdinando Taccone e Domenico Mammoliti (cioè i due ragazzi non assunti) e Claudio Taccone, perché “come si sentono offesi te la fanno purgare”. Due giorni dopo, Fazari si attiva, invano, per cercare lavoro ai ragazzi, come si evince dai dialoghi telefonici tra l’uomo e un altro imprenditore, Vincenzo La Pegna; contestualmente, i ragazzi si recano alla Tour Ronde per reclamare le assunzioni “tutti e due o niente” e che “uno poteva andare in cantiere e che all’altro avrebbero comunque dovuto pagare lo stipendio”. Gli inquirenti hanno però sottolineato che era proprio Giuseppe Fazari a non voler assumere i ragazzi “corroborando la tesi secondo cui non aveva coraggio di opporre rifiuto a questi e tentava di far ricadere la colpa su Visini (il titolare della ditta, n.d.a.) e la contestuale paura di una nuova ritorsione”. Seguono moltepicli dialoghi intercettati, dai quali si comprende “l’insistenza dei due giovani nelle richieste di assunzione, il loro spazientirsi e l’intenzione di compiere atti violenti ai danni dei Fazari. I padri intervenivano puntualmente a sostenerli”. Il 20 giugno 2012 c’è un nuovo tentativo da parte di Giuseppe Fazari per rimediare un posto di lavoro a Ferdinando Taccone e Domenico Mammoliti presso la ditta di La Pegna, ma anche in questo caso invano. Ragion per cui i due giovani disoccupati aggrediscono e percuotono Pasquale Fazari, figlio di Giuseppe. Val la pena ricordare che tra i Taccone e i Fazari vi sono dei rapporti di parentela. Girolamo e Giuseppe Fazari hanno infatti una sorella, Maria Teresa, sposata con Vincenzo Fazari (senza parentele) e madre di Maria Cristina e Roberta Fazari. Maria Cristina Fazari è la moglie di Claudio Taccone e dunque madre dei loro sette figli (il maggiore è Ferdinando). Le ritorsioni e le aggressioni sono inquadrate in una “scissione all’interno della famiglia Fazari”: da una parte Claudio Taccone e la moglie, dall’altra il resto della famiglia Fazari. Per gli inquirenti si tratta infatti di “montato affronto dei Fazari ai Mammoliti-Taccone” e reputano che i giovani abbiano agito “in maniera del tutto aggressiva ma rispettosa di precisi codici criminali, minacciando anche di morte i Fazari ed aggredendo i loro figli con dichiarazione espressa dei motivi (Fazari infami e pisciaturi)”. Anche gli incontri avvenivano in luoghi isolati ed appartati, ad eccezione di alcuni luoghi due sale slot note ad Aosta e una pompa di rifornimento. Tutti elementi che motivano l’applicazione dell’aggravante del metodo mafioso.
Questione di onore. Alle 22.50 del 30 settembre 2012, la Questura di Aosta invia una Volante presso il pronto soccorso dell’ospedale regionale, dove erano giunte due vittime con aggressione di arma da taglio: Domenico Tripodi – con una lacerazione profonda all’altezza del collo e sino alla tempia sinistra – e il figlio Fortunato, con ferite più lievi. Il padre era stato colpito da un coltello con lama a scatto, che non gli ha provocato la morte per pochi millimetri. Ad aggredire padre e figlio sono tre dei fratelli Taccone: Ferdinando, Vincenzo ed Alex (minorenne all’epoca dei fatti) con l’ausilio del padre Claudio. Questi stessi nomi ritornano in un processo in cui gli uomini sono stati condannati per aggressione ai danni dei loro vicini di casa (http://www.narcomafie.it/2014/04/30/aosta-quattro-condanne-per-aggressioni-e-minacce/). L’alterco sanguinario è scaturito da ragioni di natura sentimentale, poiché Ferdinando Taccone pretendeva, in segno di “rispetto”, che le persone gli chiedessero il permesso prima di avvicinarsi – anche solo per parlare – alla sua fidanzata del momento. Inoltre, i Taccone volevano difendersi dall’infamia, lanciata dai Tripodi, secondo la quale “I Taccone non sanno scannare”.
Secondo le motivazioni del Gip Paola Boemio, “l’aggressione ai Tripodi si inscrive allora, agevolmente, in una contesa tra famiglie appartenenti alla ‘ndrangheta, con tutti i corollari di lesioni all’onore, di rispetto di determinate gerarchie criminali, di affronti e di incontri chiarificatori in cui si decidevano collegialmente gli equilibri criminali e le sorti altrui. La spedizione punitiva, in perfetto stile mafioso, mirava ad avere una enorme cassa di risonanza, costituendo un messaggio che doveva andare ben oltre i confini valdostani.” Si legge inoltre che Claudio Taccone “aveva educato i suoi figli a pretendere, anche con la violenza, un rispetto di tipo mafioso, ma intendeva tenere per sé il ruolo di anziano boss capace di comporre i conflitti, anche quelli provocati dai figli per motivi sostanzialmente futili”.
Le condanne. Claudio Taccone (nato a Rosarno il 30 agosto 1968) è stato condannato a 8 anni e 4 mesi,  mentre i figli Vincenzo (nato a Cinquefrondi il 24 settembre 1993) e Ferdinando (nato a Cinquefrondi il 31 maggio 1992) sono stati condannati rispettivamente a 8 anni, 7 mesi e 10 giorni e 13 anni e sei mesi. Agli altri due imputati, Domenico Mammoliti (27 anni) e il padre Santo Mammoliti (classe 1974), sono stati inflitti rispettivamente 8 anni e due mesi e tre anni. Tutti sono interdetti dai pubblici uffici, ed è stata riconosciuta l’aggravante del medoto mafioso. Claudio Taccone è attualmente detenuto presso il carcere “Lo Russo e Cotugno” di Torino, mentre i figli sono detenuti presso la casa circondariale astigiana così come Domenico Mammoliti; infine, a Santo Mammoliti sono stati concessi gli arresti domiciliari, che sta scontando presso la sua abitazione ad Aosta.

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