Alba Pontina, chiesti 100 anni per i Di Silvio
Requisitoria di oltre nove ore dei pm De Lazzaro e Spinelli che hanno ricostruito le attività criminali del clan
Antonio Bertizzolo
26/05/2021
Una tra le più lunghe requisitorie nella storia giudiziaria di un processo in Tribunale a Latina è un viaggio storico – giudiziario nei risvolti, nelle dinamiche e nelle alleanze criminali. Dal 2010 ad oggi, dalla guerra di undici anni fa scoppiata in città l’ultima domenica di gennaio confluita nel processo Caronte, fino ad Alba pontina. E’ un filo lungo srotolato in oltre nove ore. I due pubblici ministeri Claudio De Lazzaro e Luigia Spinelli dell’Antimafia si alternano al microfono quando devono tirare le somme e formulare nel pomeriggio inoltrato le richieste di condanna: in tutto 100 anni complessivi di reclusione per gli imputati. La pena più alta richiesta è nei confronti di Armando Lallà Di Silvio, collegato in videoconferenza dal carcere. Il tema che prima affiora e poi penetra nelle carte del processo Alba pontina, come mette in luce l’accusa è quello della paura, dell’omertà, della sudditanza. Lo dimostra la testimonianza di un avvocato pontino vittima di Agostino Riccardo e il pm De Lazzaro spiega che: «Non ha denunciato, era sconvolto da lasciare Latina, ha pagato, è stato preso a sommarie informazioni ma non ha denunciato, ecco questo episodio ha una grandissima rilevanza».
Il magistrato ha ripercorso prima di tutto i capi di imputazione e le estorsioni, mettendo in luce la figura di Lallà Di Silvio: «Ha l’autorità per risolvere i dissidi, è lui che ricopre il ruolo di paciere, colui a cui si sottopongono le questioni di maggior rilievo». Il pm ha ricordato le estorsioni compiute elencando le intercettazioni telefoniche o ambientali, spiegandole e in alcuni casi ne ha fatto ascoltare una di una cimice nascosta in auto, quando si parlava della somma di 1500 euro che doveva dare una delle vittime al clan. «Paghi e stai tranquillo, questa è una delle condotte classiche mafiose, oppure “ci servono i soldi per i carcerati”, anche questa è una condotta tipica», come nel caso dell’estorsione all’avvocato. In aula è stato ripercorso ogni singolo pezzo dell’inchiesta: dall’estorsione al ristoratore di Sermoneta, alla scelta di Pugliese e Riccardo di passare dopo gli arresti di Don’t touch con il gruppo di Campo Boario fino al tentato suicidio in carcere di Toselli, che diventa bersaglio di intimidazione. La pubblica accusa ha ribadito che alcune minacce sono significative e «di straordinaria rilevanza quando si identificano in un gruppo di appartenenza: sparare – ha detto il pm De Lazzaro – significa compiere delle azioni». Sempre il timore di ripercussioni è un altro nodo cruciale della requisitoria. «Qui la gente paga sull’unghia per la paura e i proventi vengono divisi. Armando Lallà – ha aggiunto il magistrato – ha il carisma del capo che voleva prendersi Latina». Il pm Luigia Spinelli ha sottolineato il ruolo dei due collaboratori di giustizia che sono «convergenti e puntuali e hanno avuto una visione privilegiata di quello che accadeva: Pugliese frequentava giornalmente casa di Lallà e a Riccardo quando è passato dai Travali ai Di Silvio, da Lallà gli è arrivata l’offerta di far parte del clan». Il magistrato che ha coordinato le indagini insieme al collega ha ricostruito le modalità di spaccio della droga a Campo Boario. «L’obiettivo è quello di tenere quantitativi utili per disfarsene, mai grandi quantità, e il sistema era semplice, con delle precauzioni. Tutti conoscevano la forza criminale del clan – ha aggiunto il pm Spinelli – i proventi venivano divisi e utilizzati per dare sostegno ai familiari detenuti. Armando ha un ruolo di leader e la ripresa dell’attività del territorio serviva per fare capire il potere del clan».
Fonte:https://www.latinaoggi.eu/