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Al Supermarket delle sentenze: ecco l’inchiesta che fa tremare il Consiglio di Stato

L’Espresso, Lunedì 15 maggio 2017

 

 

Al Supermarket delle sentenze: ecco l’inchiesta che fa tremare il Consiglio di Stato

Rapporti opachi tra giudici e avvocati. L’ombra della corruzione su alcune cause milionarie. Accade in uno dei Palazzi 
del vero potere romano, che ha 
la parola definitiva sugli appalti pubblici. Ecco i nuovi sviluppi della bufera Consip

DI EMILIANO FITTIPALDI E NELLO TROCCHIA

È una mattina fredda di gennaio dell’anno scorso. Italo Bocchino e Alfredo Romeo sono uno di fronte all’altro. Parlano di Carlo Russo, il presunto facilitatore che, insieme a Tiziano Renzi, avrebbe dovuto aiutarli ad agganciare l’amministratore delegato della Consip Luigi Marroni. E di cause milionarie decise dai giudici del Consiglio di Stato. «Abbiamo preso un altro bidone», dice Bocchino parlando di una sentenza negativa arrivata qualche giorno prima da Palazzo Spada. Nel mirino dell’ex delfino di Gianfranco Fini c’è Stefano Vinti, l’avvocato amministrativista ingaggiato da Romeo per i contenziosi con i suoi concorrenti. Bocchino parla a briglia sciolta: non sa che i carabinieri del Noe stanno registrando tutto. «Vinti c’ha un pacchetto di dieci cose là, capito?», spiega a Romeo. «Perché quando va a fare qualche operazione… non è che va a fare l’operazione… questi sono di Romeo per la cosa di Romeo… Va là, dice “questi sono per te”, no? Poi negozia dieci cose. Su questo si è distratto. Perché secondo me era certo che tu… che vinceva perché aveva ragione. La distrazione ha portato allo scarso studio della cosa… Ma ora li possiamo recuperare?».

«Vinti, un negoziatore di cause», appuntano i carabinieri del Noe. L’intercettazione è nascosta in una piega dell’informativa Consip, e fa drizzare le antenne prima ai pm di Napoli, poi a quelli di Roma. Se i militari parlano subito di possibili «aderenze che l’associazione» potrebbe avere «in seno alla giustizia amministrativa» e di «cause oggetto di mercimonio», qualche settimana fa il pm Henry John Woodcock decide di aprire un nuovo filone. Il nuovo ramo d’inchiesta finisce per competenza, come quello su Consip e sul presunto traffico di influenze illecite di papà Renzi e Russo, alla procura di Roma, che sta ora approfondendo l’esistenza, o meno, di eventuali illeciti penali. In particolare, l’esistenza o meno di corruzione in atti giudiziari.

Ai magistrati della Capitale il nome dell’avvocato Vinti non è affatto sconosciuto: sono mesi e mesi, infatti, che un pool di quattro magistrati (Stefano Fava, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo) sta indagando su un presunto sistema di compravendita delle sentenze della giustizia amministrativa. Accendendo un faro su faccendieri, politici conniventi, giudici e professionisti che, dentro ai tribunali e al Consiglio di Stato, riuscirebbero a fare il bello e il cattivo tempo. Aggiustando cause importantissime, pilotando appalti pubblici milionari, stravolgendo decisioni economiche di enorme rilievo per la pubblica amministrazione e per aziende che danno lavoro a migliaia di persone.

Se i sospetti degli inquirenti fossero confermati, sarebbe un colpo al cuore della giustizia amministrativa. E a un pezzo fondamentale del sistema giuridico nazionale: perché se, come dice Romeo, «i tribunali amministrativi sono le vere commissioni giudicatrici delle gare d’appalto» (quasi ogni decisione della Consip viene infatti appellata prima al Tar e poi a Palazzo Spada), il Consiglio di Stato è da sempre una camera di compensazione dei poteri economici e politici del Paese, e i suoi membri considerati grand commis di Stato, scelti spesso e volentieri come collaboratori fidati di ministri e sottosegretari.

Gli investimenti del giudice 

«Non conosco gli atti che lei mi legge e non posso ricordare i fatti dopo tanto tempo», replica all’Espresso Bocchino, spiegando che la conversazione tra lui e Romeo non nasconde alcun mercimonio, ma solo una chiacchierata da bar. «So solo che Romeo era convinto di avere ragione e che rimase sorpreso e amareggiato dalla sconfitta giudiziaria. Anche perché si era affidato a un principe del foro molto bravo e molto noto. Gli eventuali commenti che facemmo davanti a un caffè erano dettati dallo stupore, ed erano consolatori». Si vedrà. Di certo l’inchiesta è molto complessa e gli sforzi messi in campo da procure (anche di altre regioni) e corpi specializzati della Finanza sono enormi.

Un altro avvocato finito nel mirino dei magistrati romani si chiama Piero Amara. Un legale di Siracusa molto conosciuto in Sicilia e a Roma, e accusato, qualche giorno fa, di frode fiscale e false fatturazioni insieme a Fabrizio Centofanti (l’ex capo delle relazioni istituzionali di Francesco Bellavista Caltagirone spiega all’Espresso di non voler fare commenti, sottolineando che «la mia azienda ha una struttura industriale reale e solida, e non ha certo bisogno di truccare i conti») e una ventina di altri indagati. Durante le perquisizioni della società Dagi srl, nella stanza in uso ad Amara sono stati trovati anche documenti finanziari e investimenti di un pezzo da novanta di Palazzo Spada. Il suo nome è Riccardo Virgilio, ed è stato fino a un anno fa presidente (facente funzioni) del Consiglio di Stato. Alessandro Pajno, il nuovo numero uno di Palazzo Spada vicinissimo al capo dello Stato Sergio Mattarella, lo ha sostituito nel febbraio del 2016.

Le carte trovate nello studio di Amara, indagato anche per associazione a delinquere, raccontano alcune operazioni finanziarie di Virgilio. Che all’Espresso risulta non solo essere stato titolare di un conto in Svizzera aperto agli inizi degli anni Novanta al Credito Svizzero, ma anche di aver investito oltre 750 mila euro cash in una società maltese, la Investment Eleven Ltd, i cui soci sono schermati da un’altra fiduciaria. Un contratto di finanziamento firmato il 4 novembre 2014 garantirebbe al consigliere di Stato un diritto di opzione per il controllo di quote della Teletouch. Una società di cui è socio lo stesso Amara, due cittadini svizzeri e l’imprenditore Andrea Bacci. Quest’ultimo è un caro amico di Matteo Renzi e in passato socio d’affari del padre Tiziano. Qualche mese fa è stato in predicato – secondo alcuni quotidiani – di diventare amministratore delegato di Telecom Sparkle. Poi, Bacci è finito nuovamente sui giornali lo scorso fine gennaio perché qualcuno ha sparato alcuni colpi di pistola prima contro la sua auto parcheggiata, poi contro l’insegna di una delle sue ditte. Un messaggio che ancora non ha un mittente: gli inquirenti fiorentini indagano per scoprirlo.

Spulciando i documenti della camera di commercio maltese, dove è conservato un verbale del 13 marzo 2017 della Investment Eleven, si legge chiaro e tondo che per finanziare l’operazione Teletouch (che dovrebbe garantire addirittura «un ritorno del 50 per cento l’anno», grazie anche a un memorandum d’intesa non vincolante con Telecom Italia firmato nel 2015 teso «a sviluppare la tecnologia N-Touch») e altri business legati al commercio del petrolio e del gas con Dubai (attraverso altre due società di Amara e del suo socio Giuseppe Calafiore), «la società ha sviluppato un accordo con il signor Riccardo Virgilio».

Amara, sentito dall’Espresso, è categorico. «L’operazione è stata tutta tracciata. Il presidente Virgilio ha fatto un bonifico con nome e cognome. Ha messo anche la causale: “finanziamento socio”» ragiona l’avvocato. «Il suo conto corrente in Svizzera è stato aperto nel lontano 1993, ed è collegato a suoi risparmi e a un’eredità, quella di una sua zia molto ricca. E le ricordo che Malta, non è più un paradiso fiscale da un pezzo. Insomma, è tutto regolare». Ma perché l’ex presidente della Cassazione avrebbe dovuto investire in una tecnologia mai sentita? «Guardi, la N-Touch, inventata da un ingegnere geniale, è basata su un microchip interno al cellulare, che permetterebbe agli utenti di godere di una straordinaria realtà aumentata. Ho consigliato io il presidente di investire nel business. La Telecom era impazzita quando noi, con la Teletouch srl, abbiamo firmato il memorandum con loro. Temo però che adesso l’operazione rischi di saltare, dopo che i giornali hanno parlato di Bacci come possibile amministratore delegato di Telecom Sparkle».

Virgilio risulta anche sottoscrittore di una polizza sulla vita con la Credit Suisse Life (Bermuda) ltd, la società del colosso svizzero che è stata indagata dalla procura di Milano con l’accusa di aver aiutato migliaia di presunti evasori fiscali attraverso polizze vita fasulle. Leggendo il verbale della Investment dello scorso marzo, si scopre che i fondi investiti sono proprio «parte di una assicurazione sulla vita aperta nel 2006» dal giudice. Amara ci tiene a spiegare anche questo passaggio: «Le somme contenute nel conto furono trasformate in polizza vita nel 2005. Nel 2014 il presidente ha liquidato la polizza e investito nella Investment. Chi c’è dietro la Investment? Solo io e il mio socio Giuseppe Calafiore». Anche lui, per la cronaca, indagato per associazione a delinquere.

Sistema Bigotti 

Amara è il legale del presidente Virgilio anche in altre operazioni finanziarie (ha gestito un contenzioso sull’eredità della zia tra il magistrato suo cliente e altri eredi, che per chiudere la partita hanno deciso di donare alla famiglia Virgilio un appartamento ai Parioli del valore di circa 800 mila euro), ma soprattutto è un professionista esperto che, al Consiglio di Stato, si muove come un pesce nell’acqua.

Tra i tanti clienti importanti, Amara è anche il legale di un imprenditore poco conosciuto dall’opinione pubblica, ma di recente assurto all’onore delle cronache per il caso Consip. Ezio Bigotti, fondatore del Gruppo Sti a soli 29 anni, console onorario del Kazakistan, come raccontato dall’Espresso un mese fa è infatti – intercettazioni alla mano – il vero nemico giurato di Romeo: che ripeteva ai suoi fedelissimi, prima di essere arrestato per corruzione, come proprio Bigotti sarebbe diventato in pochi anni il dominus di un sistema di potere in grado di fare il bello e il cattivo tempo nella Consip. Più forte rispetto a quello messo in piedi dallo stesso Romeo.

Un uomo, Bigotti, vicinissimo a deputati importanti di Ala come Denis Verdini, Ignazio Abbrignani e Saverio Romano, e capace, secondo un esposto mandato sempre da Romeo alla Consip e all’Anac di Raffaele Cantone, di organizzare «cartelli» per vincere appalti insieme alle cooperative rosse e altri partner importanti, come i francesi di Engie Servizi (l’ex Cofely, i finanziari hanno fatto perquisizioni anche nella loro sede), e di riuscire a battagliare come pochi sia nei Tar che al Consiglio di Stato.

«È vero», sostiene l’avvocato Amara, «che sono legato a Bigotti, tra l’altro abbiamo vinto da poco un processo a Torino in cui lui era stato ingiustamente accusato di millantato credito. Ma ci tengo a sottolineare che io non ho seguito Ezio nelle cause al Consiglio di Stato, né contro Romeo né contro la società Siram. Il presidente Virgilio è stato presidente della quarta sezione, ma con lui nei collegi Bigotti qualche volta ha vinto, molte altre – soprattutto contro Romeo – ha perso. Soprattutto io, da quando sono entrato in affari con Virgilio, ho evitato di incrociarmi con lui in un’aula di giustizia».

È un fatto che anche Bigotti, che gestisce servizi di vario tipo nei palazzi della pubblica amministrazione in una decina di regioni italiane, sia però finito nel mirino della procura di Roma. Che prima ha perquisito la Consip prendendo tutte le carte delle gare miliardarie degli ultimi anni, poi ha mandato la Finanza a perquisire direttamente le sue aziende. Gli inquirenti hanno trovato una serie di fatture emesse dalla Dagi di Piero Amara a favore della Sti spa di Bigotti, per oltre un milione di euro. Anche la Exitone, sempre controllata da Bigotti, ha rapporti di fatturazione dubbia con Amara per, a detta degli investigatori, centinaia di migliaia di euro. Anche Bigotti è stato iscritto nel registro degli indagati.

Bigotti, la cui holding è controllata dalla lussemburghese lady Mary II (schermata a sua volta da altre due fiduciarie del Granducato), è considerato da chi lo conosce bene il miglior “architetto” di gare pubbliche in circolazione, capace di allearsi con imprese molto più grandi delle sue e di fare man bassa, grazie ad abilità fuori dal comune, di gare milionarie. Ma Bigotti sembra anche un campione di ricorsi al Consiglio di Stato. In un’intercettazione del Noe ne parla anche l’ad di Consip Marroni insieme a due suoi collaboratori. È il 24 ottobre 2016 e il giorno dopo Marroni ha in agenda un incontro con Bigotti, che sarà accompagnato dall’avvocato Amara e da Verdini. Location: il ristorante “Al Moro”, nel centro di Roma.

Marco Gasparri (il dirigente che poi accuserà Romeo di avergli pagato mazzette per 100 mila euro) è nella stanza di Marroni. I due discutono di quale sia la migliore strategia per convincere Bigotti a smettere di fare ricorsi a catena in caso di sconfitta a una gara della stazione appaltante. «Gasparri dice che Marroni deve chiedergli di non ricorrere più alla giustizia amministrativa in quanto i continui contenziosi rallentano gli affidamenti delle commesse anche di anni», appuntano i carabinieri del Noe che li stanno ascoltando con le cimici: «E di rappresentargli che la sua azienda riesce ad aggiudicarsi una buona fetta dei bandi anche senza ricorsi». A quel punto interviene l’altro dirigente presente, Martina Benvenuti, sottolineando «che molto probabilmente ci sono diversi filoni d’indagine da parte della magistratura che possono interessare la questione Bigotti».

Il giorno dopo, davanti a un’amatriciana, secondo la testimonianza giurata di Marroni, Bigotti si lamentò «dell’atteggiamento aggressivo» di Consip nei confronti delle sue società. Qualche giorno fa, invece, Bigotti – in un esposto mandato alla procura di Roma per chiarire il contenuto della conversazione al Moro – ha spiegato che volle quel colloquio solo per parlare «di taluni gravi vicende» che riguardavano Alberto Bianchi. Un avvocato consulente della Consip famoso per essere presidente della Fondazione Open, la cassaforte del neo segretario del Pd Matteo Renzi, e uno dei capi del Giglio Magico. «Desideravo che l’ad Maroni fosse informato della incredibile situazione rappresentata dal ruolo svolto dall’avvocato Bianchi. Questi era, in quanto legale Consip, in un caso controinteressato avverso la impugnazione di una gara Consip aggiudicata a Siram; ciò non di meno e al contempo Bianchi era, in numerosissime cause amministrative anche presso il Consiglio di Stato, l’avvocato che assisteva e patrocinava proprio la Siram. Marroni reagì molto male, negando la circostanza. Aggiunse pure che qualora fosse stata vera, sarebbe stato gravissimo».

Non sappiamo se l’ad di Consip abbia espresso remore. Di certo Bianchi, all’Espresso, spiega che il presunto conflitto di interessi con Siram è del tutto inesistente: «È solo una “coincidenza” di interessi: Siram difendendo se stessa difendeva infatti le ragioni di Consip (che aveva assegnato proprio a Siram la gara, ndr), dalla quale avevo oltretutto ottenuto l’ok a difendere Siram. Non ho ovviamente mai assunto la difesa di clienti in conflitto con Consip».

Bianchi è titolare di uno degli studi amministrativisti più importanti del paese. Primeggia con quello di Vinti, con quello del potente avvocato Angelo Clarizia, con Gianluigi Pellegrino e con il professor Federico Tedeschini.

Il sospetto del mercimonio 

Anche Amara, seppur meno blasonato, è molto conosciuto al Consiglio di Stato. L’avvocato di Siracusa (dove la Exitone di Bigotti, autore di molti ricorsi, ha da poco deciso di spostare la sua sede legale) in passato è stato chiacchierato per suoi rapporti considerati troppo stretti con giudici amministrativi siciliani e pm della città aretusea, come Maurizio Musco (condannato di recente dalla Cassazione per abuso d’ufficio) e Giancarlo Longo, sul quale – si legge sulla Gazzetta del Mezzogiorno – sta indagando la procura di Messina, a causa di un presunto comitato d’affari denunciato da alcuni colleghi di Longo. «Sono al centro di un complotto», ha replicato il magistrato che ha indagato di recente su una presunta macchinazione internazionale ai danni dell’ad dell’Eni, Claudio De Scalzi, basata su alcuni anonimi rivelatisi poi privi di riscontri.

L’inchiesta sulla giustizia amministrativa e i sospetti di sentenze «oggetto di mercimonio», però, non è cominciata oggi. Ma dura da anni. Il via l’hanno dato alcuni esposti arrivati ai pm romani, e ha trovato un primo snodo importante lo scorso luglio, con le prime perquisizioni dell’indagine chiamata “Labirinto”. A luglio 2016 il consigliere di Stato Nicola Russo, mentre era membro di una Commissione tributaria, è stato indagato per divulgazione del segreto d’ufficio e/o corruzione in atti giudiziari: secondo l’accusa avrebbe aiutato l’amico Stefano Ricucci a vincere una causa da 20 milioni con l’Agenzia delle Entrate. La procura ha chiesto la sospensione del consigliere dagli incarichi giuridici, ma sia il gip (che non vedeva prove schiaccianti per dimostrare l’accordo corruttivo) sia la Cassazione hanno bocciato la richiesta. In attesa della richiesta o meno di rinvio a giudizio, Russo oggi lavora alla sede palermitana del Consiglio di Stato.

In un altro filone dell’indagine i pm stanno cercando di capire se ci sia stata una fabbrica di sentenze messa in piedi da un altro gruppo di potere. Nella rete degli investigatori sono finiti il deputato Antonio Marotta, il faccendiere Raffaele Pizza e il funzionario di Palazzo Chigi Renato Mazzocchi. Quest’ultimo è stato indagato per riciclaggio perché conservava in casa, in mezzo a una confezione di spumante Ferrari, 247 mila euro in contanti. Tra libri e bottiglie di vino sono stati trovati anche alcuni elenchi con nomi di giudici del tribunale ordinario, avvocati e magistrati amministrativi, oltre a sentenze del Tar e del Consiglio di Stato. Una di queste, in particolare, suscita da mesi l’interesse degli investigatori: quella del 2015 che ha restituito a Silvio Berlusconi le azioni di Mediolanum, che Bankitalia, in virtù della condanna definitiva subita dall’ex premier, e il Tar avevano imposto di cedere. Sulla fotocopia della sentenza di Palazzo Spada conservata da Mazzocchi e forse scaricata da Internet, c’era un appunto manoscritto che segnalava presunti incontri tra legali di B. e persone dentro il Consiglio di Stato. Per la cronaca, a presiedere il collegio giudicante era il presidente di sezione Francesco Caringella (che in una lettera al “Corriere della Sera” ha rifiutato con forza qualsiasi insinuazione), mentre relatore della sentenza è stato Roberto Giovagnoli, un giovane magistrato attaccato anni fa da un altro giudice, Alessio Liberati, per aver vinto il concorso «senza i titoli necessari».

Mazzocchi, quando a luglio 2016 i finanzieri gli piombarono in casa fece subito un numero di telefono per trovare un avvocato. Era il cellulare di Piero Amara. Che rifiutò l’incarico.