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Agguato ad Antoci, le indagini sull’attentato le fa la mafia

 

 

L’Espresso, Martedì 21 Marzo 2017

Agguato ad Antoci, le indagini sull’attentato le fa la mafia
L’assalto ai danni del presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, uscitone illeso, non ha ancora un colpevole. Ma a cercare il responsabile, oltre alle forze dell’ordine, ci sono i boss

DI FRANCESCO VIVIANO


Chi è stato? Anzi, per dirla con il dialetto usato dai mafiosi: «Cu fu?». E stavolta a voler scoprire l’identità dell’autore dell’attentato compiuto in provincia di Messina nel maggio dello scorso anno al presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, uscitone illeso, non ci sono soltanto carabinieri e polizia. Ci sono anche uomini delle cosche di Cosa nostra.

Per raccontare la storia occorre fare un passo indietro. La notte del 18 maggio Antoci, dopo aver partecipato a un convegno antimafia, torna verso casa a bordo dell’automobile blindata con due poliziotti di scorta. La strada provinciale che collega i paesi dei Nebrodi Cesarò e San Fratello è bloccata da alcuni massi: la blindata si ferma e improvvisamente, stando al racconto dei protagonisti, qualcuno spara dei colpi di fucile. I pallettoni sfondano la lamiera nella parte bassa dello sportello posteriore dove Antoci è seduto. La scorta risponde al fuoco ma, nel frattempo, sopraggiunge casualmente un’altra automobile con a bordo il dirigente Daniele Manganaro del commissariato di Sant’Agata di Militello e un altro agente. Sparano anche loro contro gli attentatori che sarebbero fuggiti in mezzo alla campagna, coperti dal buio della notte.

«Il mio capo scorta mi ha immediatamente preso e messo sotto il sedile, si è posto sopra di me, mentre continuavo a sentire gli spari» ha raccontato Antoci agli investigatori il giorno dopo l’agguato. «L’autista ha fermato l’auto, è sceso, ha aperto il fuoco e lo stesso ha fatto il mio capo scorta. Dietro eravamo seguiti dalla vettura del dottor Manganaro, che pur non essendo personale addetto alla mia scorta è arrivato, grazie a Dio, durante l’agguato. È così che sono stato salvato. Erano almeno 5 o 6, e avevano molotov da lanciare per scatenare un incendio nell’auto, costringerci a scendere e quindi ucciderci».

Una ricostruzione dei fatti che anche il dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello e gli altri agenti ribadiscono. Loro, dopo aver ricevuto la gratitudine dello stesso Antoci, adesso sperano in una promozione. Ma non è detto che arrivi.

L’inchiesta si rivela subito difficile per le forze dell’ordine che sguinzagliano in tutte le direzioni i loro informatori. Ma da questi, a distanza di tanti mesi e nonostante il grande sforzo investigativo riversato sul territorio, non hanno avuto neanche una piccola traccia, un’ipotesi, un sospetto. Niente di niente. Neanche gli esami del dna dal sangue rilevato nel luogo dell’attentato, e che si presume possa appartenere a uno degli assalitori, hanno permesso di risalire all’identità di chi ha sparato e quindi al movente.

Le inchieste sulle cosche mafiose fanno però emergere un altro lato della vicenda. Perché oltre ai poliziotti e ai carabinieri, alla ricerca degli autori dell’agguato a quanto pare si siano messi pure i boss mafiosi dei clan messinesi e di quelli che agiscono sul territorio dei Nebrodi. Intercettazioni rivelano che gli uomini di Cosa nostra sono interessati a capire come si sono svolti i fatti e soprattutto a scoprire chi ha agito senza il loro permesso. E per questo svolgono indagini autonome e parallele a quelle degli investigatori delegati dall’autorità giudiziaria. I padrini sospettano che possa essere stato qualche “cane sciolto”. Ma, intanto, indagano.

L’incredibile interesse della mafia messinese per scoprire chi avrebbe sparato all’auto di Giuseppe Antoci è stato svelato da una decina di intercettazioni telefoniche e ambientali eseguite dai carabinieri del Ros e dagli agenti della squadra mobile di Messina che indagano sulla mafia dei Nebrodi. Qualche giorno dopo l’agguato al presidente del parco dei Nebrodi i boss, parlando tra di loro, si chiedono insistentemente «cu fu» (chi è stato?). Da una cosca all’altra la domanda è sempre la stessa, ma anche la risposta: «Noi non siamo stati». E questo potrebbe rientrare nella tipicità del metodo mafioso. Ma qui sembra essere diverso l’atteggiamento dei boss.

«Potrebbero essere stati i catanesi?» chiede un intercettato al suo interlocutore, che risponde: «Ce l’avrebbero detto, quantomeno ci avrebbero avvertiti per evitarci ulteriori guai». Insomma, gli storici clan dei Bontempo-Scavo e le altre famiglie che in questi mesi hanno avuto tra le loro file decine di arresti non si danno pace. Anche loro brancolano nel buio e, se avessero avuto notizie, avrebbero fatto giustizia a modo loro oppure, come spesso la storia della mafia insegna, avrebbero segnalato in maniera anonima agli investigatori gli autori dell’attentato per allentare la pressione nei loro confronti.

L’unica segnalazione anonima che è arrivata fino ad ora è invece quella inviata a tre procure, Messina, Patti e Termini Imerese, al Ministero dell’Interno, al capo della Polizia e all’autorità Anticorruzione. Sono sette pagine piene di veleni scritte, secondo chi indaga, a più mani: non escluse quelle di qualche poliziotto e di qualche politico locale. La denuncia anonima adesso è al vaglio delle tre procure siciliane: vi si trovano accuse anche nei confronti di Manganaro. Secondo l’anonimo il dirigente del commissariato di Sant’Agata di Militello sarebbe anche “vicino” a esponenti politici del Pd e ad alcuni personaggi dell’Antimafia come il senatore Giuseppe Lumia, eletto nella lista “il megafono” di Rosario Crocetta.

Ma torniamo alle intercettazioni tra i boss. Nelle loro conversazioni i mafiosi si lamentano dell’opera di Antoci che ha denunciato i lucrosi affari delle cosche. Queste avevano in concessione pascoli di migliaia di ettari nei Nebrodi, pagando cifre irrisorie per gli affitti dei terreni in cambio di milioni di euro di contributi regionali ed europei. I boss avrebbero quindi avuto motivi per toglierlo da quella posizione, pericolosa per i loro interessi. Ma negano, nelle intercettazioni, di aver preparato e attuato l’attentato. Di più, si lamentano di come quell’agguato abbia provocato ulteriori difficoltà ai loro affari: da allora l’attenzione degli investigatori su tutta la zona è aumentata parecchio.