AMDuemila 28 Marzo 2023
La redazione di ANTIMAFIADuemila esprime piena vicinanza e solidarietà al collega Massimo Giletti, destinatario di una lettera (mostrata in diretta televisiva) contenente pesanti minacce dirette alla sua persona
A Non è l’Arena continua il racconto sulla vita dell’ex superlatitante Matteo Messina Denaro, e di quella Cosa Nostra che durante il periodo delle stragi aveva piazzato bombe nel continente (Roma, Firenze e Milano) uccidendo anche cittadini inermi.
Domenica scorsa è stato mostrato uno dei volti più oscuri dell’organizzazione: l’assassinio di due bambini, il piccolo Giuseppe Di Matteo e Claudio Domino, avvenuti rispettivamente l’11 gennaio 1996 e il 7 ottobre 1986.
“Bisogna capire cos’è la mafia: uomini d’onore che ammazzano un bambino” ha detto Massimo Giletti, conduttore della trasmissione.
“Quale onore c’è in un atto del genere? Non è guerra allo Stato. È guerra all’umanità” ha sottolineato l’avvocato Luigi Li Gotti.
Ospite della serata anche il magistrato Alfonso Sabella che ha commentato il fatto come “il mio più grande fallimento professionale”.
Matteo Messina, ricordiamo, nel corso di un interrogatorio di garanzia che si è tenuto giorni scorsi davanti al gip di Palermo Alfredo Montalto aveva detto di non aver dato “l’ordine di uccidere il piccolo Giuseppe Di Matteo“.
Il boss di Castelvetrano avrebbe scaricato su Giovanni Brusca (ex boss di San Giuseppe Jato ed oggi collaboratore di giustizia) ogni colpa, per la morte del bambino strangolato e sciolto nell’acido per vendetta nei confronti del padre, Mario Santo, che aveva iniziato a collaborare con la giustizia.
Ma sentenze e processi certificano la crudeltà e le responsabilità di Messina Denaro.
Certamente non è stato lui a dare l’ordine di uccidere il bambino, così come dimostrato nei processi e dalle dichiarazioni dei collaboratori, fu Giovanni Brusca. E’ lo stesso ex boss di San Giuseppe Jato ad averlo confessato così come hanno dichiarato anche gli esecutori materiali di quel delitto, Enzo Brusca, Vincenzo Chiodo e Giuseppe Monticciolo (anche loro collaboratori di giustizia).
Messina Denaro vorrebbe “lavarsi le mani”, sporche di sangue di quel delitto, ma non può. Lui è stato condannato definitivamente dalla Cassazione assieme allo stesso Giovanni Brusca, a Leoluca Bagarella, a Giuseppe Graviano, Salvatore Benigno, Francesco Giuliano e Luigi Giacalone.
Come capomandamento e pari grado di Brusca, avrebbe potuto formalmente opporsi a quell’ordine dato, non lo ha fatto. Anzi contribuì attivamente proprio al rapimento, al sequestro e alla tortura del bambino.
Qualche anno fa, nel 2017, alcuni suoi sodali, intercettati e fermati nell’operazione “Anno zero”, commentavano proprio il sequestro e la morte del piccolo Di Matteo. Riferendosi al Padrino, allora ancora latitante, dicevano: “Non ha fatto bene? Ha fatto bene!”. “Se la stirpe è quella… suo padre perché ha cantato?”. “Ha rovinato mezza Palermo quello, allora perfetto”. Certo, rispondeva l’altro interlocutore, “il bambino è giusto che non si tocca, però settecento giorni sono due anni … tu perché non ritrattavi tutte cose? Se tenevi a tuo figlio, allora sei tu che non ci tenevi”. “Una persona la puoi ammazzare una volta, ma la puoi far soffrire un mare di volte“, continuava ancora il primo.
L’omicidio del piccolo Claudio Domino
Era una fresca serata palermitana, quella del 7 ottobre 1986. Claudio Domino, un bambino di 11 anni, stava giocando davanti alla cartoleria dei suoi genitori in Via Fattori. Ad un tratto, un individuo arrivato in sella a una motocicletta, con il volto coperto dal casco, lo chiamò per nome. Claudio gli si avvicinò e, per tutta risposta, l’uomo puntò su di lui una pistola: esplose un solo colpo, fatale, in mezzo agli occhi.
Un omicidio ancora irrisolto, avvenuto durante il Maxiprocesso alla mafia: particolare non da poco, dal momento che, come spiegato in trasmissione da Giletti, i genitori di Claudio, con la loro ditta, avevano vinto l’appalto delle pulizie nell’aula bunker dell’Ucciardone, che di quell’evento storico costituiva il teatro.
Il giorno dopo l’omicidio, l’imputato al Maxiprocesso Giovanni Bontate (fratello di Stefano Bontate, che fu capo di Cosa Nostra prima di essere ucciso dai corleonesi), volle leggere in Aula un comunicato: “Noi condanniamo questo barbaro delitto che provoca accuse infondate anche verso gli imputati di questo processo. Siamo uomini, abbiamo figli, comprendiamo il dolore della famiglia Domino. Rifiutiamo l’ipotesi che un atto di simile barbarie ci possa sfiorare“. Dichiarazione estremamente emblematica, dal momento che quel “noi” sembrò implicare l’esistenza di un comune denominatore a tutti gli imputati, ovvero un’associazione organica, che fino a quel momento i boss si erano prodigati a escludere pubblicamente.
I genitori del bambino, Ninni Domino e Graziella Accetta, non hanno mai cessato di pronunciare questa loro richiesta né hanno mai perso le speranze nella ricerca della verità su quell’agguato infame tuttora impunito.
Sono tante le ipotesi avanzate in questi decenni sulle ragioni che portarono a un tale delitto. Si ipotizzò che Claudio potesse essere stato testimone, suo malgrado, di qualche episodio legato alla droga. Si pensò a una ritorsione nei confronti della mamma e del papà che con la loro azienda avevano vinto l’appalto per la pulizia dell’aula bunker dell’Ucciardone, dove in quei mesi era in corso lo storico Maxiprocesso. Sono molte le domande e poche le risposte. Di certo, ad oggi, c’è solo che l’omicidio violò la pax mafiosa che era stata sancita tra i boss al tempo e che chi sparò dalla motocicletta ancora non ha, ad oggi, un volto.
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