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NarcoRoma, la nuova capitale della cocaina

NarcoRoma, la nuova capitale della cocaina

La città trasformata nella centrale internazionale del traffico di droga. Gestito da gruppi criminali romani, in affari con i boss della ‘ndrangheta e della camorra. Un business straordinario che permette di raccogliere con un solo carico un miliardo e 300 milioni di euro: più del valore in Borsa di Roma e Juventus. Il procuratore Pignatone: la rotta che parte dalla Capitale ha come obiettivo l’intera Europa


Le droghe più usate al mondo: tutti i dati

di ROBERTO SAVIANO

“Va’ e annuncia ai Romani che la volontà degli dei celesti è che la mia Roma diventi la capitale del mondo” scrisse Tito Livio tra il 27 a.C. e il 14 d.C. in “Ab Urbe condita”. Oggi potremmo scrivere “Và e annuncia agli italiani che per volontà delle organizzazioni criminali di tutto il mondo Roma è diventata la capitale indiscussa della cocaina”.

Da caput mundi a capitale della coca, e sullo sfondo un Paese distratto, in crisi, un Paese a cui questa politica inadeguata, in perenne campagna elettorale e che occupa ogni centimetro di informazione, riesce a far credere che le sciagure dell’Italia dipendano da migranti e ius soli. Leggere le inchieste e provare a spiegarle richiede tempo e studio e la politica ha il dovere di studiare e spiegare, non di spaventare per guadagnare consenso. Chi ha deciso che non è importante capire come si muovono i flussi di denaro che condizionano le nostre vite? Va da sé che chi lo ha fatto ignora o finge di ignorare che dove le uniche società in attivo sono le mafie non c’è spazio per niente altro. Chi ha deciso che oggi la comunicazione politica – al pari di torte e gattini – deve essere veloce ed esaurirsi in migliaia di like? Magari chi lo ha deciso non sa che i like piacciono anche alle mafie, che anche le mafie frequentano i social: il pollice all’insù di Facebook, infatti, è il simbolo con cui una enorme partita di coca è stata marchiata in Sudamerica e spedita in Italia, una partita di coca purissima (“senza peli sulle gambe”, come la criminalità romana definisce la coca migliore, paragonandola al corpo di una donna), scoperta in un’inchiesta destinata a ridisegnare la mappa criminale del nostro Paese e a mostrarci chi in Italia oggi ha nelle mani il vero potere economico.

Chi vuole capire l’Italia oggi deve partire da queste inchieste. Babylonia e Tempio 2014 non sono serie tv o videogiochi, ma indagini dei Carabinieri coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Roma che, insieme a Luna nera realizzata dalla Guardia di Finanza, hanno portato lo scorso giugno, nel giro di una settimana, all’arresto di quasi cento persone e al sequestro di beni per centinaia di milioni di euro, svelando l’esistenza di vere e proprie organizzazioni mafiose totalmente romane. Da queste indagini, non solo è emerso che alcuni bar della capitale sarebbero diventati centrali di spaccio di droga attive 24 ore su 24, ma anche che decine e decine di attività commerciali, come caffè, ristoranti, pasticcerie e tabaccherie di Roma, sarebbero stati comprati riciclando i narcoeuro. Imbattersi in questi locali non è difficile, basta passeggiare per le strade della capitale, partendo dall’ora di colazione. Può capitare di fermarsi in zona Portuense a prendere un cornetto al Babylon Cafè di via Oderisi da Gubbio. O magari viene voglia di un dolce siciliano e si va al Mizzica! in via Catanzaro, vicino a piazza Bologna. Se nel pomeriggio, uscendo dalla metro a Piramide, ci accorgiamo di aver finito le sigarette, possiamo fermarci lì accanto, al Babylon Cafè di via Ostiense, che fa anche da tabaccheria. Per bere qualcosa la sera c’è il Macao di via del Gazometro, che non chiude mai. Ebbene, se durante la nostra giornata romana ci siamo fermati in almeno uno di questi esercizi commerciali, secondo la DDA avremo contribuito a finanziare un sistema fondato sul danaro delle reti criminali. Ne ho citati solo alcuni ma la mappa è molto più vasta: solo nell’operazione Babylonia sono stati sequestrati 46 tra bar, ristoranti, tabaccherie e sale slot, oltre a centinaia di immobili, conti bancari e quote societarie, per un valore complessivo di 280 milioni di euro.

Da una parte, il generale dell’Arma e i magistrati che con le loro inchieste hanno scoperchiato un sistema cresciuto all’ombra dei palazzi del potere. Dall’altra i giovani temibili vertici di una nuova e spregiudicata mafia in salsa romana. Che ha importato dal Mezzogiorno i metodi della criminalità organizzata per scalare i vertici del traffico internazionale di droga

I protagonisti

Tullio Del Sette
Il comandante dei Carabinieri
Le operazioni Tempio 2014 e Babylonia “provano che Roma è diventata uno snodo del narcotraffico mondiale” e “aprono un nuovo fronte di lettura dei flussi criminali delle mafie italiane”

Giuseppe Pignatone
Il procuratore
Ormai, dice, «non siamo di fronte a una mafia trapiantata a Roma da meridionali emigrati, ma a consorterie criminali al 100% romane, che ripropongono delle mafie meridionali le strutture fondanti»

Michele Prestipino
L’aggiunto
Parla di uno «scambio simbiotico, in cui le nuove consorterie romane mettono a disposizione il loro know how criminale e le cosche tradizionali insegnano l’utilizzo del metodo mafioso»

Gaetano Vitagliano
Il “nullatenente”
Napoletano domiciliato a Roma, a tempo di record ha creato un piccolo impero nel campo degli esercizi commerciali a Roma, senza lavorare né dichiarare redditi, ma riciclando i proventi dello spaccio

Francesco Filippone
“Baffo”
Figlio di un boss, è nato in Calabria ma vive a Roma, e da qui programma e finanzia ingenti carichi di cocaina, che poi verrà smerciata non solo nella capitale Roma ma anche in altri Paesi europei

Costantino Sgambati
Il “piccoletto”
Classe ’77, detto anche «il nuovo reuccio di Montespaccato», è romano ma è riuscito a mettere in piedi una struttura piramidale per lo spaccio degna dei più potenti clan criminali del Sud

Coca capitale

A Roma la droga si vende, a Roma la droga serve per comprare attività commerciali, a Roma la droga serve per costruire case. Roma è diventata una narcocittà. Per chi crede che stia esagerando ho pronto un paragone che renderà chiara la situazione anche agli occhi di un bambino. Soltanto nell’operazione “Tempio 2014” i carabinieri hanno messo le mani su 578 chili di cocaina pura quasi all’80 per cento, tutti movimentati secondo gli inquirenti da un’organizzazione di base a Roma. La droga sequestrata equivaleva a 24 milioni di dosi al dettaglio, che sul mercato valgono oltre un miliardo e trecento milioni di euro. Ora, per avere un’idea della cifra enorme di cui stiamo parlando, facciamo un gioco: ipotizziamo di voler investire i proventi di questa singola partita di coca in squadre di calcio. Sappiate questo: non dovremmo accontentarci delle serie minori ma potremmo puntare in alto. Se il valore di mercato della Juventus è di 800 milioni di euro e quello della Roma è di 183 milioni di euro (dati di capitalizzazione delle società quotate pubblicati da Borsa Italiana), con i guadagni di quella droga si sarebbero potute tranquillamente acquistare tutte le quote azionarie di entrambe le società. E sarebbero avanzati anche i soldi sufficienti a comprare fuoriclasse del calibro di Messi e Neymar. Eppure, molto probabilmente, nessuno di voi avrà sentito parlare di queste inchieste. Qualche riga in cronaca, nessun commento. Che l’economia vincente nel nostro Paese sia quella mafiosa non ve lo dirà quasi nessun politico, primo perché non conosce inchieste e cifre, secondo perché parlare di mafie innesca la perenne paura di lordare l’Italia, di sporcare l’immagine serafica e rassicurante del Belpaese. E questo non conviene a nessuno.

“L’operazione Tempio 2014 e l’operazione Babylonia” dice il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Tullio De Sette “hanno portato alla luce in maniera chiara una verità allarmante. E cioè che Roma è diventata uno snodo centrale per gli affari del narcotraffico mondiale. Sia da un punto di vista operativo – i narcotrafficanti si incontrano a Roma per organizzare gli investimenti sulla cocaina interfacciandosi con i cartelli sudamericani (colombiani e panamensi) – , sia da un punto di vista economico, scegliendo Roma come piattaforma prima per il grande riciclaggio di danaro”.
E allora proviamo a raccontarle queste inchieste, proviamo a capire cosa accade nelle strade in cui ogni giorno camminiamo; proviamo a comprendere cosa ci sia dietro le case che abitiamo, le pizze che mangiamo, i caffè che beviamo.
Il Nucleo Investigativo dei carabinieri, comandato dal colonnello Lorenzo D’Aloia, ha chiuso poche settimane fa l’inchiesta denominata “Tempio 2014”. Si tratta di un’indagine durata quasi tre anni, partita nel 2014 dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Giancarlo Orsini, detenuto in carcere per l’omicidio di Roberto Musci, commesso a Casalotti, nella periferia di Roma, il 23 gennaio 2014. Un’esecuzione pianificata con cura: Musci era agli arresti domiciliari; il killer si è presentato da solo, fingendosi ufficiale giudiziario e poi ha sparato sei colpi a bruciapelo. Orsini cominciò a raccontare che nella borgata di Montespaccato, a ovest del Vaticano, sopra l’Aurelia, si era creata una vera e propria centrale di spaccio, completamente assoggettata al controllo di due gruppi che si spartivano gli affari nella zona al 50 per cento, “stecca para”, nel gergo della mala capitolina. Uno dei due gruppi, però, in breve tempo si era allargato e aveva conquistato sempre maggiore potere sul mercato romano degli stupefacenti. Si tratta dell’organizzazione guidata da Costantino Sgambati, che Orsini definiva “il nuovo reuccio di Montespaccato”. Oltre a vendere cocaina all’ingrosso a dei “cavalli” (cioè spacciatori esterni che gestiscono la propria clientela autonomamente) come fa anche l’altro gruppo attivo nel quartiere, Sgambati stipendia direttamente dei pusher – anche 6mila euro al mese, secondo le dichiarazioni di Orsini – per offrire la droga al dettaglio nelle piazze di spaccio dell’organizzazione, collocate in due bar: il Caffè 22 di via Cornelia e il bar ‘Nduja in via Gaetano Mazzoni.

È questa la forza del gruppo di Sgambati: differenziare la distribuzione e arrivare a coprire la filiera della vendita fino al cliente, al consumatore, realizzando margini di guadagno enormi. Questo metodo è mutuato dal boss di Secondigliano Paolo Di Lauro, che negli anni ’90 rivoluzionò il narcotraffico napoletano creando a Scampia il più grande supermercato di droga a cielo aperto d’Europa.
La natura completamente romana di questo e altri gruppi criminali la spiega bene il procuratore Giuseppe Pignatone: “Premesso che dal punto di vista criminale i problemi romani sono molti e molto complessi, l’inchiesta Tempio 2014 mostra che non siamo di fronte a una mafia trapiantata a Roma da meridionali emigranti, ma a consorterie criminali al 100 per cento romane, che ripropongono delle mafie meridionali le strutture fondanti”. Pignatone aggiunge che “gli interlocutori di questi gruppi sono pezzi di ‘ndrangheta e camorra che hanno trovato un punto di equilibrio per portare avanti la rotta della cocaina che parte da Roma come centro del traffico e del riciclaggio e ha come obiettivo l’Europa intera”.  

Le rotte principali della cocaina

MAPPA - Il traffico internazionale di oppio ed eroina

 

1.215: le tonnellate di cocaina pura prodotta nel 2015
864 tonnellate: la cocaina sequestrata nel 2015 nel mondo
17,1 milioni: il numero di persone che ha consumato cocaina nel 2015
29,5: i milioni di persone nel mondo che hanno consumato droga nel 2015
30% : il probabile aumento del consumo di coca tra 2011 e 2015 in Europa
18%: l’incremento delle coltivazioni di cocaina nel 2015 rispetto al 2014
50%: l’aumento del traffico di droga tramite darknet tra il 2013 e il 2015

Tutti i dati – Fonte: UNODC

Cani e cipolle

Costantino Sgambati, classe ’77, detto “il piccoletto”, è nato a Roma e vive a Roma, ma riesce a mettere in piedi una struttura piramidale degna dei più potenti clan del Sud. Subito sotto di lui ci sono due luogotenenti, Alessio Concu e Fabio Fiorini, che curano personalmente la gestione della rete di spacciatori, sia quelli esterni (che fanno arrivare la droga di Sgambati anche in altri quartieri, a Primavalle, a Cinecittà, in via Tuscolana, ai Castelli), sia quelli che operano per loro conto all’interno dei due bar. Qui a vendere cocaina, hashish e marijuana sono giovani pusher italiani e stranieri, che tengono la droga nascosta nei luoghi più disparati, dagli accendini alla cassetta del water. In un’occasione, durante una perquisizione nel bar ‘Nduja, i poliziotti non trovarono nulla nonostante fossero accompagnati dalle unità cinofile: la droga in realtà c’era, solo che gli uomini di Sgambati l’avevano nascosta nelle cassette di cipolla della frutteria attigua al bar, ingannando così anche l’olfatto dei cani antidroga, che sono respinti dall’odore dei bulbi.  
Gli accordi per la compravendita con i pusher vengono fatti via sms: nei messaggi la droga diventa “la macchina” o “la pizza”, la quantità si indica in “tavoli” (un tavolo = un chilo) o “doc”. La cocaina che smerciano è di varie qualità, indicata sui pacchetti e nei messaggi con nomi di noti marchi spesso scritti storpiati: c’è la “coccodrillo” (con scritta “La Coste”, staccato), la “Yamaka”, la “Louis Vuitton”, la “Gucci”, la “BMW”. L’organizzazione si serve di un box auto in periferia, appena fuori dal Grande Raccordo Anulare, per stoccare la merce prima della vendita. Capita che per far spazio a nuove partite, Sgambati decida di liberarsi dei rimasugli di scorte precedenti di marijuana svendendoli a tariffe molto ribassate, quasi al prezzo di costo. Un po’ come accade nelle grandi catene quando si fanno i supersaldi di fine stagione per svuotare i magazzini e far spazio ai nuovi arrivi. Quando, al contrario, la merce comincia a scarseggiare nei depositi dell’organizzazione (come accadde nel luglio 2015), Sgambati la fa vendere solo sulla propria piazza, ai pusher alle sue dipendenze, mentre smette di rifornire i pusher esterni fino alla nuova consegna. Se proprio il pusher esterno insiste a volerla acquistare perché ne è totalmente sprovvisto, il gruppo di Sgambati gli offre la cocaina della sua piazza ma a un prezzo maggiorato (45mila euro al posto di 38.500 euro al chilo). Insomma, come avviene in tutti i mercati, il prezzo è determinato dall’incontro della domanda con l’offerta.
Quando la rete di Sgambati vende gli stupefacenti all’ingrosso, spesso manda il cosiddetto “provino” agli intermediari perché venga testato e, se la merce non soddisfa le aspettative, accetta di riprenderla indietro senza problemi. Come nelle grandi imprese commerciali, la regola del gruppo è: soddisfatti o rimborsati, perché tenersi il cliente è più importante che mettersi a fare storie su una fornitura. Il gruppo è efficiente e ben organizzato. Catena di montaggio perfettamente oliata in ogni suo punto. L’organizzazione si preoccupa di sostituire periodicamente le schede Sim a tutti i membri (intestandole a insospettabili cittadini indiani o bengalesi) in modo da ostacolare il lavoro di intercettazione delle forze dell’ordine. E come accade in tutte le mafie, quando un esponente del gruppo finisce in carcere è l’organizzazione che si occupa di pagare gli avvocati e di sostenere economicamente i familiari.

Blackberry Pin to Pin

Vi starete chiedendo da dove arrivi tutta la droga che i gruppi romani gestiscono e come faccia Sgambati a procurarsela non essendo affiliato a nessuna organizzazione criminale storica. Domande legittime. Ecco la risposta: basta avere i contatti giusti, e nel narcotraffico i migliori sono quelli con la ‘ndrangheta. Sgambati, infatti, è in contatto con i fratelli Giannini (Marco, Milko e Ivan), attivi nel narcotraffico romano e da tempo in ottimi rapporti con il clan Bellocco di Rosarno. I Giannini sono uomini di fiducia di Francesco Filippone detto “Baffo”, figlio del capo della cosca Filippone-Bianchino-Petullà di Melicucco, un paese in provincia di Reggio Calabria, alleata dei potenti Bellocco di Rosarno. Pur essendo nato in Calabria, Filippone risiede stabilmente a Roma: programma e finanzia ingenti carichi di cocaina, che poi verrà smerciata non solo a Roma ma anche in altri Paesi europei. In pratica agisce da broker per conto terzi. Ai suoi “servizi di importazione” si rivolgono non solo i gruppi dello spaccio romano, ma anche il gruppo napoletano formato da Giuseppe e Giuseppe Jr Criscuolo detto “Sonny” (come uno dei figli di Don Vito Corleone nel “Padrino”) e da Francesco Mele, quest’ultimo di stanza a Roma e abituato a fare affari con varie famiglie della “nobiltà” ‘ndranghetista, come i Pesce e gli Strangio.

Filippone è il referente del clan Bellocco a Roma: chi si rivolge a lui sa che è come se si rivolgesse direttamente alla cosca in Calabria, la quale interviene solo quando ci sono gravi problemi da risolvere. In un’occasione, ad esempio, Pasquale Furuli, rappresentante della famiglia ‘ndranghetista dei Bellocco, sale a Roma da Rosarno per dirimere una diatriba nata tra alcuni membri del sodalizio sull’importazione di una partita di coca dalla Spagna. Furuli è un personaggio criminale di spicco ha bisogno di comunicare velocemente. Nessun capo mafia delle organizzazioni italiane usa cellulari: si tengono lontani dagli smartphone e diffidano dalle connessioni. Come disse il boss Michelangelo Chindamo, capo della zona di Fino Mornasco (Como), “avere un cellulare significa avere un carabiniere in tasca”. Intercettano le telefonata ma non solo, se si attiva il microfono è possibile trasformare il telefonino una microspia. Ma ad accedere al cellulare è la necessità di chiudere affari velocemente. Il telefono è un rischio necessario: certo, un pizzino è più sicuro, ma quelli di Provenzano ci mettevano tre giorni per venire recapitati fuori da Corleone. Come sveltire la comunicazione limitando i pericoli? Furuli comunica solo via Blackberry pin to pin, una chat difficilissima da intercettare. Proprio per questo è il metodo prediletto della ‘ndrangheta, che spesso abbina al Blackberry anche Sim olandesi per rendere le intercettazioni ancora più inaccessibili alle forze dell’ordine italiane. Ad oggi è l’unico sistema in uso ai narcos non intercettabile.

Coca Facebook

E qui arriviamo alla coca marchiata Facebook. Il 7 maggio 2015, presso la sede di una società romana di spedizioni e trasporti amministrata dal fratello di uno degli uomini di Filippone, i carabinieri sequestrarono 95 chili di cocaina nascosta nel serbatoio di un generatore elettrico, confezionata in panetti riportanti il simbolo del like di Facebook, il famoso pollice all’insù. Il macchinario arrivava dal Cile ed era stato spedito da una società panamense, la IIM-International Industrial Machinery (con sede operativa in Ecuador). Si scoprì poi che insieme a questo generatore la IIM ne aveva fatti partire altri cinque, tutti sbarcati nel porto di Livorno circa un mese prima. Uno era già stato consegnato, ad Amsterdam; uno era stato spedito ad Anzio e aveva come destinatario il titolare di un negozio di ferramenta di Roma, che però risultò totalmente all’oscuro della consegna avvenuta a suo nome; gli altri tre stazionavano ancora in un magazzino di Forlì in attesa di essere consegnati. Ebbene, in questi tre generatori furono rinvenuti altri 435 panetti di cocaina tutti riportanti il simbolo del like di Facebook esattamente come la coca scoperta nel macchinario di Roma. Ogni panetto pesava poco più di un chilo, per un totale di 483 chilogrammi. Due di questi generatori erano destinati a partire per l’Olanda, per inondare le strade del Nord Europa di polvere bianca sudamericana. Grazie alle intercettazioni, i carabinieri sono arrivati alla conclusione che tutti i generatori – e quindi tutta la coca – erano riconducibili al gruppo di Filippone. In effetti qualche mese prima della partenza dei generatori, l’organizzazione di Filippone aveva ricevuto a Roma la visita di quattro cittadini panamensi, che secondo gli inquirenti erano narcos venuti a ritirare l’anticipo del denaro per la partita di cocaina da spedire agli italiani: ad occuparsi di loro durante la permanenza in Italia erano stati i fratelli Giannini, che oltre a trovare un bed&breakfast per il pernottamento dei quattro (e farli sembrare ordinari turisti) si erano occupati anche di ingaggiare delle prostitute per intrattenerli durante le vacanze romane.

Ma quello panamense era solo uno dei canali di procacciamento: gli inquirenti hanno monitorato numerosi viaggi in Spagna dove gli uomini di Filippone si incontravano con intermediari di coca colombiani. La partita da acquistare in Spagna era destinata a due diversi clienti: un gruppo romano e un gruppo napoletano. E mentre i romani si raccomandavano che la droga fosse di buona qualità (cioè che non avesse “i peli sulle gambe”, come dicono nelle conversazioni intercettate), i napoletani erano disposti ad accettarne di qualità inferiore, perché tanto a Napoli si sarebbe venduta senza difficoltà. Alla fine, dopo lunghe trattative, questo affare spagnolo non andò in porto perché gli intermediari colombiani avevano alzato all’ultimo momento il prezzo della merce.  Ecco che Roma, quindi, è come un grande centro operativo da cui i broker italiani gestiscono le più importanti rotte di droga mondiali, che dal Sud America portano verso l’Italia, e da qui proseguono anche verso l’Olanda per poi diramarsi a tutto il Nord e Centro-Europa. Quindi Sud America, Roma e poi Olanda per arrivare laddove la coca serve e viene spacciata, dove c’è domanda e manovalanza pronta a scendere in strada. Le banlieue di Parigi, Nizza, Marsiglia, Molenbeek in Belgio vengono letteralmente inondate della coca transitata da Roma. E a spacciare, nelle periferie degradate, capita che siano anche militanti dell’Isis, convertiti dell’ultim’ora che, per essere arruolati, hanno bisogno di costruirsi curricula criminali. Lo spaccio è addestramento e, allo stesso tempo, possibilità di guadagno. La crisi economica ha reso le organizzazioni criminali l’unico vero ammortizzatore sociale, ma il prezzo che la comunità paga è troppo alto perché la politica possa continuare a tacere, a ignorare, pensando che il gioco valga la candela.

I consumatori di droghe nel mondo

Dati espressi per milioni di unità

Fonte: Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine

Ma l’inchiesta offre anche un altro spunto di riflessione: il porto italiano in cui sbarcano i generatori imbottiti di coca è Livorno. Non Gioia Tauro, o Napoli, scali ormai troppo controllati per poter rischiare di far arrivare i carichi, anche se occultati nelle più fantasiose merci di copertura. Le organizzazioni oggi scelgono approdi più insospettabili, come Livorno, Vado Ligure, Genova. È in quest’ultimo porto che il 17 giugno 2015 è stato arrestato Pasquale Furuli: nel bagagliaio della Fiat Panda su cui viaggiava c’erano 185 chili di cocaina, arrivata poco prima in un container dal Perù. Quattro mesi dopo, sempre a Genova, la Guardia di Finanza arrestò Giuseppe Bellocco (della stessa cosca di Furuli) e altri due affiliati trovati in possesso di 148 chili di cocaina: si scoprì che la cosca faceva affidamento su alcuni portuali che lavoravano nello scalo ligure per prelevare la droga dai container appena sbarcati.
Più coca riesce a entrare in Italia, più la ‘ndrangheta e la camorra guadagnano: per questo le organizzazioni sono sempre alla ricerca di nuovi contatti negli scali, anche minori, cui rivolgersi per far passare inosservato il proprio tesoro. In un’intercettazione riportata nell’inchiesta, il calabrese Furuli approfitta di un incontro a Roma con il napoletano Mele per chiedergli se avesse agganci nel porto di Salerno (dove gli ‘ndranghetisti stanno allargando la loro influenza) in vista di eventuali sbarchi:

Furuli: “…quindi a Salerno problemi zero pure che parliamo con te!”
Mele: “non ci stanno problemi, compà!”
Furuli: “…banchine, cose…”
Mele: “…tutto!” (…)
Furuli: “…speriamo Madonna bene! Perché potremmo avere bisogno…poi ti spiego tutto…”

Ecco che Roma rappresenta quindi anche l’occasione per stringere serenamente accordi, programmare affari, conoscere boss di altri clan, insomma, per allargare i propri orizzonti criminali.

Per centomila euro ti ammazzo la famiglia”

L’inchiesta Tempio 2014 dimostra che Roma è ormai base attiva del crimine organizzato: mentre fino a qualche anno fa c’erano ‘ndranghetisti, camorristi e mafiosi che vi giungevano appositamente per fare business (di varia natura, dal vendere droga all’investire nella ristorazione), ora invece ci sono gruppi autoctoni capitolini che hanno acquisito tutte le caratteristiche delle organizzazioni mafiose del Sud, le ripropongono su Roma adattandole a quell’ambiente e intrattengono con i calabresi e i napoletani rapporti d’affari alla pari. Hanno solo compiti diversi: ai boss calabresi e napoletani è rimasto il ruolo di broker del narcotraffico, perché hanno decenni di relazioni e di esperienza maturata nel settore, mentre la parte di distribuzione – non solo al dettaglio ma anche all’ingrosso – è in mano a organizzazioni romane. Conclusione: a Roma esiste una nuova camera di compensazione delle diverse mafie italiane, con una struttura autonoma, la cui presenza si è radicata anche a causa all’assenza di allerta. Un’industria invisibile, trascurata da tutti e che è prosperata in questo cono d’ombra.

“È proprio in questo contesto di rapporti e di relazioni – precisa il Procuratore aggiunto Michele Prestipino – che da alcuni anni si sta sviluppando un originale processo simbiotico di scambio: le nuove consorterie romane mettono a disposizione know how criminale, derivante dalla conoscenza di luoghi, ambienti e settori di mercato; gli esponenti delle cosche tradizionali insegnano l’utilizzo del “metodo mafioso”, la cui espansione, ormai facilmente percepibile, compromette il tessuto socio economico non solo metropolitano, rendendo sempre più difficoltose le iniziative investigative”.
Come afferma il generale Del Sette, “queste due operazioni (Tempio 2014 e Babylonia, ndr) aprono un nuovo fronte, non solo per l’Italia ma per l’Europa tutta, di interpretazione dei flussi economico-criminali delle mafie italiane che, come emerge alle intercettazioni, sono tuttora considerate le più pericolose del mondo dai cartelli sudamericani stessi”.  Le mafie italiane tributano un pedigree di qualità in ambito criminale, un passepartout riconosciuto a livello internazionale. Nell’inchiesta “Tempio 2014”, un uomo del gruppo di intermediari in Spagna che sta vendendo alla joint venture romano-calabro-napoletana una partita di coca viene intercettato mentre spiega a un suo amico chi sono le persone con cui sta trattando: “Francesco è forte… conosce tutti i napoletani… è forte, è forte, amico! È mafia, mafia, mafia… (…) e i calabresi la stessa cosa, il mio amico calabrese è la stessa cosa… (…) se tu rubi a una persona hai rubato ad uno ma se rubi… guarda, ammazzano tutta la tua famiglia, non soltanto uno, capisci? Per centomila euro…”.
Le organizzazioni criminali romane sono il prodotto di un’evoluzione criminale: sfruttano la fama, i contatti e replicano i metodi intimidatori, l’organizzazione verticistica, la struttura imprenditoriale delle mafie del Sud, ma godono anche di un enorme vantaggio rispetto a queste ultime: sono libere dal fardello delle regole e della tradizione. Questo le rende molto più dinamiche sul piano operativo. Sebbene infatti la regola sia sempre stata garanzia di unità e di perpetuazione dell’organizzazione nel tempo, spesso questo vincolo rappresenta anche un enorme macigno che intralcia gli affari piuttosto che agevolarli. Roma invece è città aperta: si è liberi dalle faide tra cosche, dalle regole di onore, dall’obbligatorietà della vendetta, dai legami parentali. Ci sono solo gli affari, il profitto. È mio amico e alleato chi può farmi guadagnare. Nient’altro conta.

La joint venture tra criminalità romana, ‘ndrangheta e camorra nella Capitale non riguarda solo il narcotraffico. La recente inchiesta della Guardia di Finanza “Luna Nera”, coordinata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino, che il 16 giugno ha portato all’arresto di diciassette persone, ha rivelato l’esistenza di un sodalizio criminale romano che si faceva aiutare da affiliati a ‘ndrangheta e camorra per realizzare usura ed estorsione ai danni di imprenditori e attività commerciali: in cambio del loro servizio di “recupero crediti”, calabresi e napoletani trattenevano una percentuale sulle cifre raccolte. Il gruppo di estorsori-usurai versava denaro al clan del boss Michele Senese detto “‘o pazz”, detenuto al 41bis, i cui affiliati controllano ancora la zona di Roma Sud: per fare affari in quella zona bisognava avere il suo placet e la sua protezione. La fama criminale di Senese è una garanzia da sfoggiare, con le vittime o con altri criminali: “Cioè qui stiamo parlando de… che è il capo di Roma! No il capo di Roma, il capo… il boss della camorra romana!!! Comanda!! Comanda tutto lui!!”, dice di Senese un indagato intercettato.

Quantità di droga sequestrata nel mondo

Dati espressi in tonnellate, riferito al 2015

Eden del riciclaggio

La scelta delle organizzazioni criminali non poteva che cadere su Roma, città quasi predestinata per la tranquillità d’azione, per l’assenza di faide che attirano attenzione di investigatori e media e per la mancanza di una vera cultura antimafia. Da anni la città appare piegata su se stessa e annichilita dal peso di problemi che nessuno sembra davvero in grado di affrontare, incapace di aprire gli occhi e quasi rassegnata a una deriva che ne sta distorcendo l’identità fino a cancellarla. La ricerca ossessiva del favore, della scorciatoia indispensabile per ottenere anche il minimo diritto, si unisce al desiderio di soldi facili che trasuda in tutta la vita sociale, dove non esistono più linee rette ma solo percorsi trasversali. Una metropoli dove storicamente le distanze dall’alto al basso si annullano davanti a una mazzetta o a una raccomandazione, oggi è l’habitat perfetto per qualunque scambio illecito. Di più, Roma non è semplicemente una enorme piazza di spaccio, non è il luogo in cui la coca arriva e si ferma, ma è una sorta di hub, un terminale: la coca arriva, resta quella che serve e il resto parte per raggiungere le periferie.

Non solo. Roma offre vastissime possibilità di riciclaggio: negozi, bar, ristoranti sono attraversati da una crisi epocale, per cui molti proprietari vogliono vendere il prima possibile e a chi offre di più. E chi offre di più è chi non ha problemi di liquidità, cioè le mafie. Roma fornisce alle mafie una copertura vantaggiosissima: a differenza di altre città, nelle quali impennate improvvise del valore degli immobili o degli esercizi commerciali verrebbero viste con sospetto, a Roma, soprattutto in ambito turistico, la possibilità di iniettare danaro senza suscitare allarme è infinita.   Tutto questo è possibile anche grazie al vertiginoso aumento del turismo in Italia, che non è frutto di politiche intelligenti di promozione o di miglioramento dei trasporti: no, è solo l’onda lunga del terrorismo. Il terrorismo islamico ha spazzato via i vacanzieri dall’Egitto e dalla Tunisia, ha ridotto drasticamente le presenze in Turchia e svuotato gli alberghi francesi. L’Italia viene percepita come una meta sicura e le mafie ne approfittano, inserendosi nei flussi di denaro legati al business dei visitatori. Una pasticceria comprata un anno fa a un milione di euro può – causa boom turistico – essere rivenduta a 5 milioni. Ma rivenduta a chi? A loro stessi. Meccanismo semplice, le organizzazioni aprono una società all’estero che riempiono di soldi generati con il narcotraffico, poi creano un’altra società in Italia con la quale comprano beni. Fanno partire l’azienda, il cantiere il bar, il ristorante, il supermercato, e dopo un po’ vendono alla società estera (loro stessi), facendo così legalmente rientrare il narcocapitale. Questo è il meccanismo solitamente usato. Conveniente e silenzioso: queste operazioni non lasciano tracce, solo i conflitti interni tra i clan fanno emergere l’architettura criminale. Cosa accaduta in questo caso. L’inchiesta “Babylonia”, che il 23 giugno 2017 è culminata nell’arresto di ventitre persone e al sequestro di beni per 280 milioni di euro, è nata dopo una sparatoria avvenuta proprio nel “Babylon Cafe” di via Oderisi da Gubbio nel dicembre 2012: proiettili che hanno squarciato gli schermi dei capitali sospetti. Le indagini dei Carabinieri del Nucleo investigativo, coordinate dalla DDA di Roma, hanno portato a scoprire che il locale era riconducibile a un’organizzazione criminale dedita al riciclaggio guidata da Gaetano Vitagliano, napoletano domiciliato a Roma, un tempo vicino al clan camorristico dei Mazzarella e oggi agli Scissionisti di Secondigliano. La rete di Vitagliano reinvestiva i proventi del traffico di stupefacenti in esercizi commerciali. Il sistema Vitagliano è degno di un manuale sul riciclaggio: prima la sua organizzazione ripulisce i soldi sporchi della droga servendosi di “società lavatrici” (come vengono definite nell’inchiesta) che incassano il denaro con il metodo delle false fatturazioni e poi reinveste questi soldi resi immacolati nell’acquisto di bar, locali, ristoranti, pizzerie, pasticcerie, tabacchi, sale slot, non solo a Roma ma anche in altre città italiane, intestandoli a dei prestanome. Vitagliano ricicla per sé e per altri: oltre ai quattrini della droga da lui stesso smerciata a Roma, in queste attività della capitale sarebbero finiti anche gli incassi delle piazze di spaccio della camorra a Melito, in provincia di Napoli.
In meno di due anni, Gaetano Vitagliano è riuscito a creare un piccolo impero nel campo degli esercizi commerciali a Roma, senza mai ufficialmente svolgere un lavoro né dichiarare redditi. Nonostante si comporti come il dominus di svariate attività imprenditoriali nella Capitale, Vitagliano risulta sconosciuto al fisco. Non stiamo parlando di piccole aziende: Vitagliano aveva creato un impero legale accreditato e stimato in tutta Roma, basti pensare che alcune società che secondo l’inchiesta sono a lui riconducibili annoverano tra i loro lavori la fornitura di servizi a diverse importanti società di produzione cinematografica.
Secondo gli inquirenti, Vitagliano ha finanziato con narcosoldi anche la costruzione di un complesso immobiliare di 200 abitazioni a Guidonia Montecelio, ricevendo in cambio dal costruttore alla fine dei lavori la titolarità di fatto di alcuni appartamenti, alcuni dei quali sono stati poi utilizzati come corrispettivo in nero per rilevare attività commerciali. Come poteva il nullatenente Vitagliano imbastire tutte queste speculazioni? Semplice: diventando amico di funzionari di banca e dirigenti. Nella ragnatela della sua organizzazione c’erano notai e commercialisti, che si occupavano delle intestazioni di facciata. Per esempio seduce una direttrice di banca che secondo gli investigatori viola “costantemente e reiteratamente la normativa antiriciclaggio”.  Viene richiamata dai vertici della banca e infine trasferita.

Direttrice di banca  – Ti odio
Gaetano Vitagliano – Io ti amo ..
Direttrice di banca  – Se vabbè mi ami perché ti servo…

In Italia sempre più spesso l’elemento fondante nel rapporto con gli istituti di credito non è l’idea, non il progetto, ma la certezza che ci siano dietro relazioni di conoscenza. I rapporti sopperiscono alle garanzie economiche e l’appartenere a una organizzazione criminale diventa spesso garanzia per l’istituto di credito che il danaro erogato tornerà in tempo perché serve solo a riciclare e non realmente a finanziare. Anche in questo caso i proventi della coca per le banche diventano prezioso cash da battezzare e rendere legale. Soldi fatti con la coca, case in piedi grazie alla coca. Mattoni di coca, cemento di coca, malta di coca, pilastri di coca. Ed ecco che la prospettiva si ribalta e quando pensiamo che il mondo del narcotraffico non ci appartenga perché popolato da tossici e spacciatori, dobbiamo ricordarci che poi quei soldi si trasformano nelle case che abitiamo, nelle pizze che mangiamo, nei locali che frequentiamo.

Babilonia calabro-napoletana

Quest’ultima inchiesta è stata chiamata “Babylonia” dal nome del primo locale posto sotto osservazione, il Babylon Cafè. In fondo Roma in questo momento è come una moderna Babilonia pagana, in cui uomini che parlano la stessa lingua – quella criminale – stanno costruendo una gigantesca torre che punta sempre più in alto, piano dopo piano, affare dopo affare. In nome del denaro, le maggiori organizzazioni criminali italiane stanno unendo le forze per creare nuove collaborazioni che prescindono dal clan d’origine, dai gruppi familiari. Nell’inchiesta Tempio 2014 lo ‘ndranghetista della cosca Bellocco, Pasquale Furuli, dice al broker napoletano Francesco Mele: “Siamo tutti lo stesso paese… (…) siamo amici con tutti noi… (…) La casa mia è la casa vostra”.

Nell’Italia distratta dai collassi politici non si dà attenzione a quello che realmente accade all’economia del Paese (qualcuno dirà “è affare per addetti ai lavori”) e a quello che accade nelle strade (be’, questo è affare di tutti). Gli esiti di Luna nera, Babylonia e Tempio 2014 impongono un nuovo corso alla politica che non si era accorta che a Roma è nata un’organizzazione criminale potente quanto quelle storiche, che non si era accorta che le organizzazioni criminali in Italia invece di estinguersi si moltiplicano e lo fanno proprio dove la politica ha sede, lavora, è più presente. Una politica che è distratta, lontana, utile idiota di chi sta saccheggiando il Paese. Una politica incapace di leggere i veri pericoli derivanti da ciò che sta accadendo al di fuori dei nostri confini: il Venezuela, per via della sua posizione geografica (a Ovest la Colombia, il maggior produttore di coca mondiale, a Nord-Est l’Oceano Atlantico) è sempre stato il punto di partenza di gran parte della cocaina sudamericana diretta in Europa via mare. Il presidente del parlamento venezuelano Diosdado Cabello è stato accusato dalla DEA statunitense nel 2015 di essere il capo del Cartel de los Soles, una gang formata da militari e specializzata nelle spedizioni di coca, alleata con il cartello messicano di Sinaloa di El Chapo Guzman. Non solo pochi mesi fa il vicepresidente Venezuelano, Tareck El Aissami, è stato inserito nella black list americana perché accusato di narcotraffico internazionale. Crollato il petrolio la coca è il bene rifugio della borghesia di Caracas. Il Venezuela oggi è ormai uno Stato al collasso, in cui la dittatura chavista non ha più il controllo dei porti, dai quali quindi navi cariche di cocaina possono partire in ogni istante a costi notevolmente abbattuti. Non esiste più un monopolio dei messicani non ci sono più soltanto le FARC (forze armate rivoluzionare colombiane) a gestirne l’acquisto. La crisi economica e politica ha aperto il mercato, l’occasione ideale per le famiglie italiane, ndrangheta e Camorra che sono tra i principali acquirenti e distributori della cocaina colombiana in Europa. Le mafie guadagnano dalle crisi economiche e si inseriscono nei vuoti politici: lo fanno da sempre in Italia e sapranno trasformare anche un disastro politico sudamericano in un punto di forza, approfittando della disattenzione generale, politica e mediatica.

Narcoroma non ha bisogno di manipolare la politica. Narcoroma prescinde dalla politica. Ha gia’ tutto ciò che serve: banche, notai, edilizia, negozi, ristorazione. Alla politica chiede solo una cosa: distrazione, attenzione su altro e soprattutto silenzio sui loro affari.  Puntiamo il dito sugli immigrati e finanziamo pure nuovi lager in Libia. Tra vent’anni, continuando di questo passo, l’Italia sarà un NarcoStato e avremo ben altri problemi da risolvere. Chi può si goda il momento e l’inconsapevolezza.


14/07/2017

fonte: http://www.repubblica.it/