Maria Teresa e il triplice omicidio d’onore
di Sara Carbonin
Quando si parla di mafia, non v’è certezza neppure del naturale e profondo legame tra una madre e i propri figli.
Maria Teresa Gallucci era una bella donna di Rosarno, ancora giovane ma con una vita sfortunata. Perse il marito molto presto. È stata assassinata tragicamente, assieme alla madre Nicolina e alla nipote Marilena, il 18 marzo 1994 a Genova, dove si era trasferita da poco, ospite della sorella Concetta.
La donna probabilmente era fuggita dalla Calabria per paura, qualcosa o qualcuno la turbava.
Marilena quella mattina era rimasta a letto e non era andata all’università, frequentava la facoltà di architettura e aveva solo 22 anni, venne uccisa per prima mentre ancora stava dormendo, poi la stessa sorte toccò a Maria Teresa ed infine alla nonna Nicolina, lei era ancora in vestaglia.
Una vera e propria strage, eseguita in modo lucido e calcolato, della quale è sempre stato difficile intravedere una spiegazione logica.
Tra le varie piste investigative seguite, a risultare più attendibile fu quella che legava i tre omicidi a Francesco Alviano, figlio di Maria Teresa, aspirante ‘ndranghetista del clan Pesce.
Ma cosa c’era dietro a tutta questa efferatezza?
Il disonore che la donna avrebbe procurato alla sua famiglia innamorandosi e frequentando clandestinamente l’uomo sbagliato, più giovane di lei e che alcuni presumono collegato alle grandi cosche di Gioia Tauro. Quell’uomo probabilmente era Francesco Arcuri, che venne assassinato con nove colpi diretti al basso ventre la sera del 4 novembre 1993 e il cui maggiore sospettato dell’omicidio sarebbe stato proprio Alviano.
Per recuperare l’onore della famiglia il giovane uccise prima l’amante della donna, ma per non scatenare una guerra tra famiglie rivali e dato che per le leggi mafiose, chi uccide per onore non può essere punito anche se a morire è un ‘ndranghetista, la “salvezza” del vendicatore doveva passare attraverso la morte della donna infedele, quindi attraverso la morte di sua madre.
Alviano proprio in quel periodo era agli arresti domiciliari e per compiere l’omicidio avrebbe dovuto partire da Rosarno, arrivare a Genova e ritornare entro le 20 per l’obbligo di firma in caserma.
Il giorno dell’omicidio il ragazzo adempì al suo obbligo alle 19:30. Una volta interrogato, provò a costruirsi un alibi che gli inquirenti fecero cadere facilmente. Le prove raccolte contro di lui, però, erano troppo poche e le indagini vennero archiviate.
Oggi restano solo ipotesi; un processo non c’è mai stato e quelle tre morti sono rimaste senza giustizia, senza un colpevole certo.
Nel 2010 è stato arrestato il boss Domenico Leotta, considerato al vertice della cosca Pesce. Leotta, imputato nel processo “All Inside”, è stato accusato da Giuseppina Pesce, dell’omonima cosca di Rosarno divenuta poi collaboratrice di giustizia, di aver preso parte al triplice omicidio “d’onore” di Genova.
La pentita sostiene che ad uccidere Maria Teresa, la madre e la nipote, sarebbero stati Francesco di Marte e Domenico Leotta, quest’ultimo deciso ad agire al posto di Alviano perché lui non se la sarebbe sentita, alla fine, di uccidere materialmente la propria madre. Ma il figlio non si oppose al tragico destino che la mafia aveva stabilito per lei. Restò inerme, la lasciò comunque morire.
Ed ecco come il rapporto naturale tra una donna e il proprio figlio viene superato da quello “malato” che unisce un uomo ad una organizzazione mafiosa. Un rapporto che trascende l’immaginabile, razionalmente non comprensibile, come se i codici della ‘ndrangheta non si potessero infrangere, come se fossero stati scolpiti su una pietra ancestrale ancor prima della nascita dell’essere umano, come se l’onore venisse prima di ogni altra cosa, anche di chi ci ha donato la vita.
23 Febbraio 2020
fonte:https://mafie.blogautore.repubblica.it/