Cerca

La strategia dei clan vibonesi tra talpe, consenso e politica

I Piscopisani intervenivano in ogni tipo di contesa, dalle liti sui terreni ai fidanzamenti maldigeriti. E puntavano all’approvazione sociale regalando pesce alle famiglie e soldi ai ragazzini. Ma avevano anche agganci inconfessabili. Come alcuni boss-imprenditori che sapevano in anticipo delle indagini e vantavano legami anche nei palazzi romani

25 aprile 2019

di Sergio Pelaia

VIBO VALENTIA I Piscopisani, nel loro feudo alle porte di Vibo, erano la legge: si sostituivano ad ogni tipo di autorità e intervenivano in ogni cosa. Per mediare su terreni contesi, risolvere liti di vicinato, addirittura per evitare dissapori dovuti a fidanzamenti maldigeriti. Ma anche per chiedere sconti in negozi di abbigliamento in favore dei paesani. In particolare “Sarino” Battaglia, ritenuto la vera mente del clan di Piscopio (frazione di Vibo Valentia), veniva sempre messo in mezzo per risolvere questioni di varia natura. E lui aveva capito che creando consenso avrebbe potuto contare, quando ce ne fosse stato bisogno, sull’appoggio della gente. Non solo nella sua Piscopio, dove lui e i suoi sodali portavano dei sacchi pieni di pesce regalandolo a chili alla gente del paese, ma anche a Vibo e a Vibo Marina. Dove c’era da far capire che con loro – anzi, sotto di loro – si stava meglio che con i Mancuso.

LA STRATEGIA Battaglia – racconta il pentito Raffaele Moscato, che dei Piscopisani è stato killer ed esponente della “società maggiore” – regalava anche 50 euro ai ragazzini per strada, e così a Piscopio si era creato una sorta di sistema spontaneo di vedette (lo abbiamo raccontato qui) che avvertivano i Piscopisani di qualsiasi cosa succedesse in giro. Dalle frazioni marine di Vibo, invece, Moscato e soci dovevano scalzare i Mancuso: se il clan di Limbadi teneva qualcuno sotto estorsione, loro provavano a subentrare ma si facevano pagare solo la prima volta, poi Battaglia andava dalle vittime dell’estorsione e diceva che era tutto a posto, che non dovevano più pagare nessuno, che si poteva lavorare liberamente e, eventualmente, andare da lui se ci fosse stato bisogno di qualcosa. Una strategia, questa, che dimostrerebbe come i clan vibonesi insofferenti allo strapotere dei Mancuso avrebbero provato a prendersi il territorio anche attraverso il consenso sociale, scrivendo così di fatto il capitolo più recente della storia criminale vibonese che presto potrebbe essere “raccontato” nella sua interezza.

LE TALPE È ormai evidente che le dichiarazioni di Moscato, associate a quelle dell’ex boss emergente di Vibo Andrea Mantella, possano provocare uno squarcio senza precedenti su anni di collusioni e scambi di favori inconfessabili di cui a Vibo si è sempre favoleggiato ma su cui non sono mai emerse verità accertate. E all’effetto dirompente dei verbali riempiti da Moscato e Mantella potrebbe aggiungersi quello scaturito dalle rivelazioni di Emanuele Mancuso, il primo pentito del casato ‘ndranghetista di Limbadi. 
È già emerso come, stando al racconto dei collaboratori, ci sarebbero state delle talpe nelle forze dell’ordine (qui e qui i dettagli), ma ancora potrebbero venire fuori altre clamorose novità su come diversi clan vibonesi fossero a conoscenza – con largo anticipo – di indagini antimafia a loro carico. Alcuni boss molto lanciati nell’imprenditoria, per esempio, pare abbiano saputo in anticipo che un’inchiesta avrebbe colpito i loro interessi e abbiano messo “al sicuro” in tempo i beni di valore per sottrarli al sequestro. Alcuni di loro in un primo momento temevano di essere sotto indagine per reati gravi, come l’omicidio, e per questo, temendo una retata, dormivano a casa solo nel fine settimana. Ma poi avrebbero scoperto anche quali erano in realtà i reati di cui erano accusati e sarebbero tornati a dormire sonni più tranquilli nelle loro case.

I POLITICI Quello delle connivenze tra politica e malavita è il capitolo certamente più scottante. Alcune risultanze investigative, in particolare sugli agganci politici dei Mancuso, sono emerse anche nel passato recente in inchieste che hanno toccato anche livelli piuttosto alti della pubblica amministrazione e del potere calabrese. Le inchieste sulle ingerenze mafiose nella presunta distrazione dei fondi regionali ne sono un esempio ma nulla, almeno finora, è diventato una verità acquisita dal punto di vista processuale. Ora però i tre nuovi pentiti potrebbero aprire scenari tanto inediti quanto inquietanti che, ovviamente, dovranno essere riscontrati da elementi concreti che vadano ben oltre le loro parole. Intanto i nomi, ancora coperti da paginate di omissis nei verbali, li stanno facendo eccome. Moscato per esempio indica chi sarebbero, a suo dire, tutti i politici storicamente legati ai Piscopisani. E dalle dichiarazioni dei collaboratori emergono anche presunte collusioni che andrebbero oltre il Pollino e arriverebbero nella Capitale. Perché c’era chi si vantava, nell’ambiente della ‘ndrangheta vibonese senza coppola e lupara, di avere solidi e proficui rapporti anche con politici romani. (s.pelaia@corrierecal.it)

fonte:https://www.corrieredellacalabria.it

 

 

Categorie