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Borgo Piave

Operazione Olimpia, ecco il sistema Latina 

Il groviglio urbanistico

15/11/2016 – 20:25

Non importa stabilire da dove sia cominciata, se prima a Borgo Piave oppure in via dei Mille o negli uffici comunali dove si affidano gli appalti per interventi di manutenzione delle opere pubbliche; quello che è certo è che il filo che tiene insieme la matassa di questa presunta e articolata associazione per delinquere parte da lontano. Un gomitolo che prende forma attorno alla convinzione che usando qualche accortezza si può fare tutto. Da lì, da questa convinzione maturata e alimentata negli anni, il passaggio al senso di onnipotenza nutrito dalla consapevolezza dell’impunità è stato quasi obbligato.
Il resto viene dalla smania inguaribile di strafare, senza la quale oggi non ci sarebbero in un solo fascicolo tanti fatti diversi messi assieme da un’ipotesi di vincolo associativo.
E’ un’infinità di tempo che il palazzo di Piazza del Popolo non incappava così traumaticamente nei rigori degli apparati giudiziari di controllo; qualche grana, anche di un certo peso come quella di un vicesindaco che andava chiedendo mazzette in cambio dell’aggiudicazione di modestissimi appalti per altrettanto modeste opere pubbliche, si era affacciata nel corso dell’amministrazione Zaccheo, alla vigilia della defenestrazione del sindaco nel febbraio 2010, ma senza produrre effetti devastanti. Le altre vicende giudiziarie che sarebbero seguite nel corso dell’amministrazione Di Giorgi, qualcuna con radici piantate nel passato prossimo della precedente consiliatura, si sono andate sommando nel tempo assumendo per lo più la veste di materia appetibile per le cronache dei giornali, senza mai sfociare in contromisure diverse dall’avvio di una indagine o dal sequestro di documenti e qua e là di un cantiere. Lo scandalo di Borgo Piave che si consuma nelle due delibere di Giunta che adottano e approvano il Ppe che finirà per favorire il consigliere comunale Malvaso, ha origine all’indomani dell’affidamento degli incarichi per la progettazione dei nuovi strumenti urbanistici. Lo scandalo della piscina comunale risale al tempo in cui Giovanni Di Giorgi era assessore allo Sport, nel 2006. E così è per lo stadio Francioni, improvvisamente diventato territorio privato di una società sportiva e poi anche area di conquista per qualche fautore dell’edilizia selvaggia. Non è escluso che anche il più recente episodio di via Quarto, oltre che in una certa propensione alle forzature mostrata dal costruttore Massimo Riccardo, abbia preso le mosse da un disegno antico.
E’ quello che ci suggerisce il caso clamoroso delle palazzine di via Nervi, dove oltre trent’anni fa il Comune di Latina fece finta di non accorgersi che un gruppo di imprenditori aveva ottenuto il permesso di costruire su un lotto di proprietà pubblica.
«Ma sì, chissenefrega!»
Chissà che genere di sostegno elettorale ne è venuto fuori per la politica di allora; il fatto è che a pagare per quel misfatto sono oggi un centinaio di onesti cittadini che hanno avuto la malaugurata sorte di andare a comperare casa proprio lì, su uno dei campi minati degli affari sporchi di questa città. Anche lì, in viale Nervi, qualcuno ha dimenticato di essere proprietario di aree a suo tempo espropriate e regolarmente pagate sotto forma di indennizzo ai legittimi proprietari. Chi se n’è accorto? Gli stessi che per decenni hanno finto di non sapere. E’ bastata una ruggine interna agli uffici di Piazza del Popolo per mettere in moto la macchina della verità, e quando tra un’accusa e l’altra il dubbio dell’affare sporco ha cominciato a farsi strada, sono venuti fuori gli atti di revoca, le diffide, insieme alle ammissioni degli «errori» commessi a suo tempo. Facile, tanto i responsabili del tempo non ci sono più, e se sono rimasti, hanno sulle spalle lo scudo della prescrizione.
Ma quel fatto si lega indissolubilmente con quello che abbiamo visto accadere molto più recentemente in via Quarto. Stesso film di viale Nervi. Il Comune dimentica di essere proprietario, tra gli altri, di uno scampolo di lotto in R-3, e quell’inutile pezzo di terra viene contrabbandato come proprio da un’impresa edile, che peraltro riesce ad esibire perfino il rogito notarile con cui acquista il bene dagli antichi proprietari, quelli espropriati dal Comune, che hanno già avuto l’indennizzo dall’ente pubblico. Non ci si crede, ma è così: dalle mappe, dagli accatastamenti, dai registri dell’archivio immobiliare, dagli atti dei notai, nessuno è andato a sbattere su quello e chissà su quanti altri espropri. Eppure, nei fascicoli fotocopia che circolano negli uffici dell’urbanistica e dei lavori pubblici, nell’elenco dei lotti espropriati c’è anche quello di via Quarto, così come quello di viale Nervi.
La truffa consumata con la cessione gratuita al Comune di un pezzo di terra che era già del Comune, per averne in cambio un premio di volumetria, non è il parto geniale di un imprenditore rampante cinquantenne, ma l’eredità culturale predatoria che si tramanda in questa città dagli anni ‘70 in poi e che diverse generazioni di tecnici e professionisti hanno appreso crescendo tra uno studio e un ufficio pubblico, spesso aiutati nel complicato lavoro di apprendimento dai più scaltri imprenditori della città, sempre prodighi di nozioni, suggerimenti e riconoscenza.
Come è stato possibile che nessuno abbia visto prima e che nessuno sia intervenuto per tempo? Una risposta l’ha data il Maggiore dei carabinieri Paolo Befera nel corso della conferenza stampa di ieri: «Gli associati hanno usato l’accortezza di “ripulire” le particelle catastali già espropriate che potevano risultare utili per produrre premi di cubatura».
Basterà questa bufera a spezzare la catena che da decenni tiene prigioniera questa città nel recinto dell’illegalità? Non serve una palla di vetro per rispondere, perché la risposta è no.
Prima di questo altri procedimenti hanno scosso il terreno sotto i piedi del malaffare, ma senza riuscire ad estirparlo benché indagini e processi abbiano prodotto risultati e condanne.
Un’inchiesta, se ben riuscita, può servire a perseguire un fatto delittuoso e i responsabili di turno, a gettare un cono di luce su un’attività o su una serie di condotte illecite, ma non si può chiedere a una Procura e nemmeno a un Tribunale di assolvere al compito di educare o rieducare una comunità smarrita, né di proporre a quella stessa comunità un codice alternativo di comportamento. Non è quello il compito del potere giudiziario. Una mentalità e le consuetudini comportamentali che ne derivano possono essere soltanto il frutto di una esigenza collettiva nuova, di un processo culturale e non di uno e nemmeno cento processi penali.

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