Expo, nei legami tra i “pizzinari” e gli imprenditori lombardi il ritorno di Cosa Nostra al Nord
di Arianna Giunti
Il Tribunale di Trapani, su di loro, ha pochi dubbi: lo scorso maggio ha pronunciato pene complessive a 80 anni di carcere per sette dei suoi più fedeli affiliati. Senza troppi giri di parole, li considera i “pizzinari” di Matteo Messina Denaro. Ovvero, coloro incaricati di diffondere i messaggi e gli ordini del numero uno di Cosa Nostra, latitante da 23 anni. Perché il clan di Castelvetrano, nell’assolata provincia trapanese, è così: determinato fino alla morte a essere la voce e le orecchie dell’ultimo dei padrini.E dunque oggi questo scenario risulta ancora più sconfortante – per usare le parole del pool antimafia della Procura di Milano – se si scorrono le parole del decreto con cui il giudice della sezione autonoma Misure di Prevenzione Fabio Roia sancisce il commissariamento della società Nolostand spa, controllata da Fiera Milano Spa, il più importante operatore fieristico italiano e uno dei più noti al mondo.
Perché è qui, fra queste righe, che i nomi di professionisti di primo piano del nostro più prestigioso polo espositivo si mescolano a quelli di personaggi ritenuti dagli inquirenti imparentati con esponenti del clan Anzallo di Pietraperzia, con la famiglia mafiosa degli Accardo di Partanna a loro volta legata – ha pubblicamente spiegato il procuratore aggiunto Ilda Boccassini – per l’appunto al clan di Castelvetrano. Ovvero, i “pizzinari” di Matteo Messina Denaro detto “u secco”.
Se questi legami dovessero essere provati anche nelle aule del Tribunale, per Cosa Nostra questo segnerebbe un ritorno in grande stile in terra lombarda. Ormai da alcuni anni l’organizzazione criminale siciliana sembrava superata dalle potentissime ‘ndrine calabresi, le prime tra l’altro a tentare di accaparrarsi la succulenta torta di Expo 2015 già nel lontano 2009.
Il clan di Pietraperzia, in particolare, in Lombardia ha una storia lunga e importante. Anche se ultimamente sembrava passato sottotraccia. Emigrati al Nord nei primi anni Ottanta, con fortissimi legami internazionali in Belgio, la cosca originaria di Enna è specializzata in estorsioni, usura e – appunto – nel trasferimento fraudolento di ingenti somme di denaro.
A Cologno Monzese fino a pochi anni fa era presente una vera e propria enclave, capeggiata dal pluripregiudicato Calogero Ferruggia.
Le accuse nei confronti degli 11 arrestati nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Milano che avrebbe scoperchiato l’ennesimo scandalo legato a Expo, in ogni caso, sono ancora tutte da dimostrare. Così come i loro presunti legami con l’universo mafioso. Come sempre vige la presunzione di innocenza e questa inchiesta giudiziaria non fa eccezione.
Però le carte raccontano storie quantomeno suggestive.
A partire, appunto, dalle parentele scomode dei due effettivi titolari del consorzio Dominus Giuseppe Nastasi e Liborio Pace, entrambi finiti in manette con l’accusa di aver favorito un fiume di denaro nero che da Milano arrivava in Sicilia con l’intento di favorire i clan mafiosi.
“Giuseppe Nastasi – si legge nel decreto – è sposato con una donna a sua volta coniugata con Francesco Manno, appartenente alla locale di ‘Ndrangheta di Pioltello e condannato nell’ambito dell’indagine Infinito”. “Consolidati – scrive ancora il giudice – anche i rapporti di Nastasi con la famiglia mafiosa degli Accardo, la cui esistenza e operatività è attestata da numerose pronunce”. Nelle carte è dunque riportato il numero delle sentenze con il quale la Corte d’Assise di Trapani, di Marsala e di Sciacca hanno dimostrato il pieno sostegno del clan a Cosa Nostra e la vicinanza al capo mafia Matteo Messina Denaro.
Ingombrante anche il legame di Liborio Pace (a sua volta imputato nel 2010 per una vicenda di riciclaggio di denaro dal Belgio alla Lombardia ma alla fine prosciolto) con il suocero Giuseppe Anzallo, che gli inquirenti considerano legato al clan di Pietraperzia, condannato per associazione di tipo mafioso. Anche la cognata di Pace – si legge nelle carte – risulta sposata con Vincenzo Monachino, pure lui condannato con sentenza irrevocabile per associazione mafiosa.
Il solo grado di parentela con un condannato, si dirà, non fa di un uomo un mafioso. E quindi – per rafforzare l’impianto accusatorio – gli inquirenti annotano frasi e intercettazioni telefoniche che sottolineano la tracotanza e l’arroganza degli indagati, determinati a tutti i costi a ottenere dalla società controllata da Fiera Milano i lavori per decine di milioni di euro per il montaggio e lo smontaggio di cinque padiglioni di Expo: “Qui c’è un bordello, stanno provando in tutti i modi a farci uscire in cattiva luce – dice Nastasi intercettato al telefono – ma adesso mi ci metto addosso come un pitbull. Il contratto me lo devono prorogare di due anni, me ne sbatto i coglioni!”.
Per ottenere i loro obiettivi, secondo le indagini i due indagati non esitano a placcare i vertici di Fiera Milano. E ci riescono. Tanto da arrivare a scalare la vetta e ad avere un proficuo appuntamento con l’amministratore delegato di Fiera Milano in persona, Corrado Peraboni.
Dalle intercettazioni emerge che l’atteso incontro avviene il 29 luglio 2015, giorno in cui in tutta fretta Pace e Nastasi interrompono le loro vacanze siciliane per catapultarsi a Milano.
“Siamo stati con lui un paio di ore – diranno quindi la sera stessa due indagati – l’incontro è andato bene”. Quel giorno, infatti, Pace e Nastasi tirano un enorme sospiro di sollievo: il contratto con la Nolostand non subisce modifiche e viene rinnovato per altri due anni. “Abbiamo fatto bingo”, commenteranno il giorno dopo.
La loro fortuna, chiamiamola così, però non deve essere passata inosservata. E infatti proprio in quei giorni al direttore tecnico di Nolostand Enrico Mantica (che secondo gli inquirenti ha “rapporti assidui e privilegiati” con i due indagati) arriva un lettera anonima: qualcuno segnala che Giuseppe Nastasi ha legami con Cosa Nostra.
Mantica lo avverte e gli gira la mail. Nastasi, temendo che il contratto gli venga revocato, si allarma. Manda una collaboratrice a controllare il casellario giudiziario (che risulta pulito) e tenta maldestramente di “cancellare” quello sui carichi pendenti, dove risulta invece una vicenda di contributi non pagati.
Tanta preoccupazione, però, risulta eccessiva: infatti Mantica nel giro di qualche giorno si dimentica la lettera anonima e torna a concedere ampia fiducia alla Dominus. “Gli ho fatto avere un contatto che è rimasto a bocca aperta e la lettera non se l’è più inc….” si vanta al telefono.
Qualcun altro, però, da lontano lo stava osservando. Si tratta di Domenico Pomi, fino al 2014 responsabile del settore Security del gruppo Fiera Milano spa. E’ stato lui, ex generale di brigata dei Carabinieri, a sentire l’inconfondibile odore di mafia. E così ha annotato i suoi sospetti in una nota che è finita dritta alla Compagnia dei Carabinieri di Rho. E quindi sul tavolo dei magistrati.