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29 anni anni la mafia uccide Libero Grassi. Un avvertimento agli imprenditori ribelli

29 anni anni la mafia uccide Libero Grassi. Un avvertimento agli imprenditori ribelli

29 Agosto 2020

di Vito Lo Monaco*

29 agosto 1991, la Cupola dei Corleonesi fa uccidere l’imprenditore Libero Grassi che aveva avuto l’ardire di denunciare, all’inizio dell’anno e con lettera aperta pubblicata dal Giornale di Sicilia, la richiesta di pagare il “pizzo”, con conseguente coraggioso rifiuto di pagare la protezione mafiosa. Un affronto che la mafia, in attesa della sentenza definitiva del maxiprocesso, il più grande processo penale del mondo di allora, non può sopportare, e perciò fa uccidere l’imprenditore Grassi, libero di nome e di spirito, laico, democratico, antifascista e dirigente dell’azienda di famiglia che produce biancheria.
È un avvertimento a tutti gli imprenditori che mostrano segnali di ribellione. L’anno precedente, infatti, nella provincia di Messina i commercianti di Capo d’Orlando avevano costituito la prima, a livello nazionale, associazione antiracket per denunziare e far condannare gli estorsori mafiosi di Tortorici. Inoltre, dopo la seconda guerra di mafia, erano nate una serie di associazioni Antimafia, tra cui il Comitato popolare di lotta contro la mafia nel “triangolo della morte” Casteldaccia-Bagheria, il Centro Impastato e il Centro Studi Pio La Torre, il Coordinamento antimafia di Palermo che sostenevano e partecipavano alla crescita del Movimento Antimafia, sempre più unitario e trasversale: dai sindacati ad associazioni di impresa, come la Confesercenti, la CNA, alle quali successivamente si aggiungeranno le amministrazioni comunali più sensibili e i movimenti studenteschi.
Libero Grassi, prima di essere ucciso, la mattina del 29 agosto 1991, aveva denunziato il suo isolamento nella Sicindustria, di cui era socio, la quale solo anni dopo riuscirà ad esprimere delle prese di posizioni antimafiose, messe però ancora successivamente in dubbio dalla condotta equivoca e borderline dalla gestione di alcuni discussi vertici.
Mentre Libero si affidava allo Stato, rifiutando la scorta, rimane clamoroso il pronunciamento di un magistrato che qualche mese dopo l’assassino ha avuto l’impudenza di dichiarare che, per un imprenditore, pagare la protezione mafiosa non costituiva reato.
Nonostante la legge La Torre-Rognoni e il maxiprocesso permaneva, e purtroppo permane tuttora, soprattutto negli ambienti dell’imprenditoria, della politica, dell’istituzioni e della società civile un atteggiamento di distinguo e omertà. L’intera cupola mafiosa, compresi i killer, fu condannata per il delitto Grassi, e ciò alimentò la crescita del movimento antiracket a livello nazionale, la nascita della legge antiracket 172 che istituì il Fondo di Solidarietà per le vittime di estorsione. La condanna stimolò inoltre una grande attenzione mediatica nazionale: basti infatti ricordare, tra i tanti eventi, la trasmissione a reti unificate di
RAI e Canale 5 condotta da Maurizio Costanzo e Michele Santoro, andata in onda qualche mese dopo l’assassinio.
Perché ricordare anche questo anniversario assieme tutti gli altri? Per ribadire che la mafia di quegli anni, della seconda guerra e delle stragi del 1992-93, è stata storicamente e sul piano giudiziario sconfitta, ma il legame tra protezione politica, affari e mafia è rimasto e vive tutt’ora nelle forme e nella rete delle nuove mafie.
Le recenti denunzie di possibili infiltrazioni delle mafie persino nell’utilizzo delle enormi somme europee, stanziate per fronteggiare la crisi pandemica e rilanciare la crescita economica e sociale del Paese, debbono rafforzare l’impegno di non abbassare la guardia a livello della società civile, dell’economia, della finanza, delle istituzioni e della politica.
Non sono sufficienti le proclamazioni antimafia nelle occasioni degli anniversari per scoprire poi che alcuni provvedimenti del Governo propongono di far saltare i controlli antimafia negli appalti (giustificandosi con la necessità di accelerare la realizzazione delle opere) o di non rendere accessibile la legge regionale del 2008 per il rimborso degli oneri fiscali e previdenziali alle vittime di estorsione, proprio in questa fase di profonda crisi economica e sociale.
L’Antimafia di cartone è poliedrica, ma la vera Antimafia, come ci hanno insegnato tutte le vittime innocenti, ha una sola faccia: quella dell’impegno politico, culturale e sociale quando si manifesta negli atti concreti di governo e di azione economica e sociale.

*presidente del Centro Studi Pio La Torre

Tratto da: articolo21.org

 

fonte:antimafiaduemila.com

 

 

 

Quando Libero Grassi diceva no al Pizzo

29 Agosto 2020

E’ una rinunzia alla mia dignità”

di Luca Grossi


“Perché non vuole pagare il pizzo? Lo fanno tutti!”
“Perché è una rinunzia alla mia dignità di imprenditore, se lo faccio io divido le mie scelte con il mafioso”.
Questa è la frase simbolo che
Libero Grassi, imprenditore palermitano ucciso da Cosa Nostra, pronunciò al programma televisivo Samarcanda, condotto da Michele Santoro, l’11 aprile 1991. Un intervento il suo, che faceva seguito alle sue prese di posizione pubbliche, contro la mafia ed il sistema delle estorsioni, in un tempo in cui pagare il “pizzo”, per tanti imprenditori, era l’unica via possibile per condurre il proprio lavoro.
Alla guida di uno stabilimento tessile a conduzione famigliare denominato Sigma, subì intimidazioni dal clan mafioso dei Madonia che pretendeva il pagamento della “tassa”.
Libero Grassi, coraggiosamente, si espose pubblicamente il 10 gennaio del 1991 quando il quotidiano “Il Giornale di Sicilia” pubblicò in prima pagina una lettera indirizzata al “caro estorsore” in cui si chiedeva a quest’ultimo “di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia”.
A Libero venne offerta una scorta dopo la pubblicazione della lettera, ma lui la rifiutò. Decise, tuttavia, di far avere le chiavi della fabbrica alle Forze dell’Ordine poiché era l’unica protezione che desiderava avere.
Nei mesi successivi non fu facile la vita per l’imprenditore palermitano.
Basti pensare che mentre a Palermo si opponeva al pizzo, il 28 marzo del 1991 a Catania il giudice
Luigi Russo emise una scandalosa sentenza in cui venivano assolti i cosiddetti “cavalieri del lavoro” Catanesi Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Mario Rendo (soprannominati “I cavalieri dell’apocalisse” da Pippo Fava in un suo articolo su “I Siciliani”, ndr) dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il giudice giustificò i loro rapporti con il boss Santapaola, sostenendo che le tangenti girate al clan sarebbero state pagate per necessità, nonostante le dichiarazioni del pentito Antonino Calderone.
In quei mesi, davanti a una platea di persone,
Libero Grassi espresse la sua rabbia: “La decisione scandalosa del Giudice istruttore di Catania, Luigi Russo, che ha stabilito che non è reato pagare la protezione ai boss mafiosi è sconvolgente… Stabilire che in Sicilia non è reato pagare la mafia è ancora più scandaloso della scarcerazione dei boss. Ormai nessuno è più colpevole di niente. Anzi, la sentenza del giudice Russo suggerisce agli imprenditori un vero e proprio modello di comportamento: pagate i mafiosi. E quelli che come me invece cercano di ribellarsi?”.
Ma le parole dette alla trasmissione Samarcanda non potevano passare inosservate; malgrado la visibilità ottenuta, Libero e la sua famiglia si sentirono abbandonati, isolati, quasi scherniti. E fu così che passarono i mesi, l’attenzione pian piano andò scemando e all’interno dell’organizzazione mafiosa si decise che era tempo di agire.
Era il 29 agosto 1991, 7.25 di mattina, dopo aver salutato la moglie
Pina Libero uscì di casa per andare al lavoro a piedi, come sempre. Quella mattina però ad attenderlo c’erano Salvino Madonia e Marco Favaloro del clan dei Madonia, il primo dei due seguì Libero nascondendo la pistola dietro un giornale, per poi freddarlo con quattro colpi alle spalle. Dopo la sua morte la lotta venn portata avanti dalla moglie Pina Maisano assieme ad associazioni come Libero Futuro e AddioPizzo. Grazie alla legge 45/2001 venne ufficialmente riconosciuta la figura di testimone di giustizia che offre benefici anche in materia di tutela personale, le lacune nonostante il lavoro fatto sono ancora tante, infatti chi ha il riconoscimento di “testimone di giustizia” non è messo in condizione di restare nel luogo di origine o addirittura ricostruirsi una nuova vita che non assomigli ad un esilio forzato. E la poca chiarezza normativa, molto spesso, porta a confondere la figura di “testimone di giustizia” con quella del “collaboratore di giustizia”. In questo ultimo anno, in cui l’emergenza del coronavirus ha messo a dura prova il Paese, gli addetti ai lavori hanno lanciato un importante allarme per cui le mafie possono approfittare dello stato di crisi per conseguire un nuovo consenso “assistendo” cittadini in grave difficoltà economica; “assistenza” che ovviamente ha un prezzo. Di fronte al sacrificio di figure come Libero Grassi, che lottano per la propria dignità e indipendenza e che presentano dei valori che non si possono né cedere né comprare, lo Stato non può rimanere inerme e silente.
Il 29 Agosto 2019
Alice Grassi in via Alfieri ha spruzzato la vernice rossa a ricordo del padre, è stato affisso anche il manifesto scritto a mano in cui si ricorda: “Il 29 agosto 1991 è stato assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti, dall’assenza dello Stato”.
La figlia in quell’occasione non ha riservato critiche al governo:
“O sono io che non mi sono accorta di niente oppure il governo in questo anno non ha fatto nulla” sul fronte della lotta alla mafia “perché non mi risulta che abbia fatto proprio nulla – dice ai giornalisti – Siamo così intenti a respingere gente sfortunata che non ci occupiamo di ciò che succede a casa nostra, come la mafia o la ‘Ndrangheta. Il ministro Salvini si sarebbe dovuto occupare della ‘ndrangheta al Nord, che esiste, invece non mi sembra che abbia fatto niente”.
E’ passato un anno da quelle parole e diversi sono gli aspetti che non vengono affrontati dall’esecutivo. Affinché ci sia un vero cambiamento è necessario che la lotta alla mafia diventi il primo punto dell’agenda politica del governo. Se non si fa questa scelta per sconfiggere questo cancro si dovrà attendere ancora per molto molto tempo.

fonte:antimafiaduemila.com