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Trattativa Stato-mafia, dall’omicidio Lima ai contatti tra Ros e Ciancimino: la trama del ricatto  

 

Il Fatto Quotidiano, 20 Aprile 2018

Le richieste dei boss corleonesi alle istituzioni per far cessare le stragi di mafia

di Giovanni Bianconi

I pm avevano riscritto o sottolineato un pezzo di storia d’Italia, drammatico e sanguinoso, sostenendo che al tempo delle stragi ordinate dai Corleonesi di Totò Riina ci furono uomini delle istituzioni – investigatori e politici – che si fecero complici oggettivi del ricatto mafioso dello Stato.

L’inizio fu l’omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992), di cui era imputato Bernardo Provenzano. Per questo il processo s’è celebrato davanti alla corte d’assise di Palermo, anche se Provenzano in aula non c’è mai arrivato, perché ancor prima di morire fu dichiarato incapace di intendere. Poi si proseguì con l’ex ministro dc Calogero Mannino, accusato di aver innescato la trattativa con i mafiosi per il timore di essere la vittima successiva dei corleonesi di Riina. Ma nemmeno Mannino è mai comparso davanti alla corte, perché ha scelto il giudizio abbreviato ed è stato assolto in primo grado. Il terzo gradino è la strage di Capaci che uccise Giovanni Falcone, la moglie e gli agenti di scorta, per la quale assassini e mandanti sono già stati condannati a Caltanissetta. Qui però s’inserisce l’aggancio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, da parte dei carabinieri del Ros: Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Secondo loro era solo un’iniziativa investigativa per arrivare a Riina, mentre i pm Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia hanno sostenuto che si fecero tramite del ricatto mafioso riportando al governo le pretese del super-latitante: un alleggerimento delle misure antimafia in cambio della fina della stagione stragista. E la corte ha stabilito che andò proprio così, fino a tutto il 1993, dunque anche dopo l’arresto di Riina eseguito dagli stessi carabinieri del Ros.

Di qui la condanna dei tre ex ufficiali dell’Arma, 12 anni di galera per i primi due e otto per il terzo. «È una ricostruzione falsa e già smentita da altre sentenze ormai definitive che hanno escluso trattative o ricatti di sorta, abbiamo perso una battaglia ma vinceremo la guerra», commenta l’avvocato Basilio Milio, che li ha difesi con passione; le assoluzioni di Mori per la mancata perquisizione del covo di Riina e il mancato arresto di Provenzano del ’95 non sono bastate a convincere i giudici, che evidentemente hanno considerato altre prove. Forse le dichiarazioni più che traballanti di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco, che tuttavia è stato assolto dall’accusa di concorso in associazione mafiosa per aver svolto il ruolo di «postino» delle richieste mafiose. Può essere il segno che la corte non gli ha creduto (dando peso ad altri elementi), tanto più alla luce degli otto anni di carcere inflitti per la calunnia ai danni dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro; ovvia la soddisfazione degli avvocati Franco Coppi e Francesco Bertorotta, che assistevano De Gennaro e avevano già ottenuto una prima condanna di Ciancimino jr per altre false accuse contro lo stesso obiettivo.

Dopo il ’93 arriva il ’94: è il gradino successivo della scala salita dai mafiosi guidati, dopo l’arresto di Riina, dal cognato Leoluca Bagarella, che s’è visto infliggere la condanna più alta: 28 anni, più del doppio dell’altro boss (Antonino Cinà, 12 anni). Dopo i governi presieduti da Amato e Ciampi, dal marzo ’94 s’era insediato il governo di Silvio Berlusconi che solo due mesi prima aveva fondato Forza Italia, con l’aiuto determinante di Marcello Dell’Utri. Fu lui (secondo il dispositivo della sentenza che in questo unico caso cita espressamente il governo Berlusconi, una «anomalia» per imprecisati «addetti ai lavori») a fare da tramite con l’esecutivo, subentrando ai carabinieri. Di qui la condanna, sempre a 12 anni, nonostante il verdetto per cui ne sta già scontando 7 per concorso esterno escludesse che dopo il ’92 l’ex senatore abbia continuato a coltivare rapporti con i boss. È il motivo dello sconcerto del suo difensore, Giuseppe Di Peri: «C’è un evidente contrasto tra questa sentenza di primo grado e quella definitiva della corte d’appello. È ovvio che la impugneremo per ottenere l’assoluzione che ci spetta».

Nell’elenco degli imputati — ma con un reato che non c’entrava nulla con la trattativa — figurava anche l’ex ministro Mancino, per una presunta falsa testimonianza derivante dal contrasto con le dichiarazioni dell’ex Guardasigilli Claudio Martelli. «Il fatto non sussiste», ha dichiarato la corte assolvendolo. «Non occorrevano sei anni per rendersi conto di questa realtà, ma purtroppo la giustizia italiana ha tempi che esulano da un contesto civile», commenta l’avvocato Massimo Krogh che con la collega Nicoletta Piergentili ha difeso Mancino. Ma l’ex ministro è stato protagonista del processo soprattutto per le famose telefonate con l’allora consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio, da cui nacque il conflitto contro la Procura, sollevato e vinto davanti alla corte costituzionale dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il quale ha fornito una testimonianza sul «ricatto dell’ala corleonese di Cosa nostra», percepito nel 1992-1993, considerata importantissima dai pm. Le motivazioni della sentenza diranno se anche la corte le ha valutate allo stesso modo.