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Roberto Mancini e la Terra dei Fuochi

Roberto Mancini e la Terra dei Fuochi

di Monika Dobrowolska Mancini e Alessia Mancini

Roberto Mancini nasce a Roma il 27 luglio 1960. Frequenta il liceo ginnasio Augusto dove da subito diventa un membro attivo del collettivo studentesco di estrema sinistra, inseguendo l’ideale della giustizia sociale; una volta terminati gli studi, fa quello che nessuno si sarebbe aspettato, soprattutto in un clima di lotta aperta tra la realtà studentesca e quella delle forze dell’ordine negli anni 70′: si arruola nella polizia di Stato. “Guardia” e comunista, con “Il Manifesto” sempre sottobraccio. Roberto Mancini, più attento alla sostanza che alle apparenze. A metà degli anni 80 inizia a collaborare con la Criminalpol di Roma, con cui indaga sui traffici di rifiuti.

All’inizio degli anni ‘90 parte una denuncia da un imprenditore di Cassino: non riuscendo a restituire un prestito, al posto del pagamento gli viene chiesto di fare da prestanome per una banca che sarebbe stata aperta nel suo paese, la Banca Industriale del Lazio di Cassino. L’imprenditore preoccupato chiede aiuto ad un amico che gli consiglia di rivolgersi a Roberto. Mancini inizia quindi ad indagare sulla banca e scopre che la maggior parte dei soci del neo istituto di credito sono imprenditori in difficoltà economiche. Tra i maggiori investitori della banca, trova il nome di Cipriano Chianese, avvocato di Parete ed imprenditore dei rifiuti proprietario della discarica Resit di Giugliano, già arrestato (e poi assolto) nel 1992 all’interno dell’inchiesta Adelphi sul traffico dei rifiuti tossici. Scavando più a fondo Mancini arriva a scoprire il flusso imponente di denaro che dalla Campania arriva nella banca di Cassino, in cui vengono riciclati i soldi che la Camorra guadagna con il traffico di rifiuti. L’apertura della banca viene quindi bloccata dalla Criminalpol e dalla Gico (il Gruppo di investigazione sulla criminalità organizzata) ancora prima dell’inaugurazione e il consiglio di amministrazione viene indagato dalla Dda di Roma per associazione mafiosa e riciclaggio. Roberto comincia quindi a delineare i legami tra Cipriano Chianese e altri imprenditori come Gaetano Cerci, vicino agli ambienti massonici di Licio Gelli e nipote di Francesco Bidognetti detto “Cicciotto ‘e Mezzanotte”, boss dei Casalesi. Mancini ascolta le dichiarazioni dell’ex boss e primo pentito del clan dei Casalesi Carmine Schiavone, il quale racconta del prestigio di cui Chianese gode presso gli ambienti mafiosi, e pian piano arriva a tessere il quadro di relazioni tra Chianese, i Bidognetti, Cerci, politici e uomini dello stato, arrivando ad individuare Chianese come il vero e proprio fondatore di quella che oggi chiameremmo ecomafia. Secondo Mancini infatti è Chianese ad insegnare il “know-how” del traffico dei rifiuti alla Camorra stessa, la quale procederà poi a sotterrare migliaia di tonnellate di rifiuti pericolosi provenienti dal Nord nelle campagne tra Caserta e Napoli, in quella che sarebbe divenuta nota come “Terra dei Fuochi”. Nel 1996 il sistema “Chianese” come delineato da Mancini viene descritto accuratamente in un’informativa, consegnata nel 1996, all’interno della quale identifica le connessioni e i traffici tra gli stessi personaggi i cui nomi sarebbero poi ricomparsi quasi quindici anni dopo, investiti dalle indagini e dal processo per la Terra dei Fuochi. L’informativa di Roberto viene accolta con entusiasmo dal pubblico ministero di Napoli, il quale si dice pronto a procedere. Dopo pochi giorni però quest’ultimo viene trasferito, senza spiegazioni; irraggiungibile, non risponde alle chiamate di Roberto. Riceve delle informazioni da parte di una persona che lavora a contatto con il pubblico ministero, che gli fa sapere che il motivo per cui non si era dato seguito all’indagine era che Roberto nella sua informativa aveva fatto nomi troppo potenti, contro cui nessuno voleva procedere. L’informativa rimane quindi chiusa a chiave nel cassetto di una scrivania.

Quelli sono anche gli anni in cui Roberto conosce la donna che diventerà sua moglie, Monika. Per proteggerla, la tiene all’oscuro delle sue indagini, per quanto lei riesca a dare occasionalmente un’occhiata alle carte sul tavolo su cui Roberto lavora a casa. Monika ricorda che furono costretti a cambiare numero di casa per tre volte a causa delle strane telefonate ricevute. E racconta del cuscino da morto lasciato sulla loro macchina e delle raccomandazioni di Roberto di controllare sempre sotto la vettura prima di metterla in moto e di fare attenzione a chiunque la seguisse.

Il 27 gennaio del 1996 si sposano in comune a Roma; il 27 luglio dello stesso anno, il giorno del compleanno di Roberto, si sposano una seconda volta, nella chiesa di Wieliczka, in una miniera di sale, nel paese d’origine di Monika, la Polonia. Persino un comunista convinto come Roberto Mancini aveva ceduto, colpito dal fascino di quel luogo e dall’amore per Monika.

Tra il 1997 e il 2001 Mancini collabora con la Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, facendo numerosi sopralluoghi nella Terra dei Fuochi ed è lì che lo colpisce il male: linfoma non-Hodgkin, riconosciutogli come dovuto alla continuativa esposizione ai materiali tossici pericolosi disseminati nelle campagne. Anche durante quel periodo continua a proteggere sua moglie, dicendole poco di quanto accade; ma Monika ricorda con precisione quando un giorno disse a lei e alla madre di lui: “Non potete capire quanti soldi si fanno con la monnezza, si guadagna più che con la cocaina ed è anche più sicuro perché non ci sono le leggi che lo proibiscono”.

Lo stesso anno in cui scopre di essere malato, nasce anche la loro figlia, Alessia.

L’esperienza della Commissione d’inchiesta termina e Roberto viene trasferito alla Polfer, la polizia ferroviaria della stazione Termini, in quello che lui stesso definisce “il confino”, lasciandolo fortemente depresso per la malattia ed amareggiato per il trattamento riservatogli dopo il lavoro come sostituto commissario alla Criminalpol. Roberto comincia quindi a rilasciare interviste, nonostante non ne abbia l’autorizzazione, per far conoscere la sua storia e l’ingiustizia inflittagli. Non riceve neppure richiami, intorno a lui ha solo silenzio.

Un giorno dal nulla trova 5.000 euro sul conto, senza nessuna spiegazione; Roberto allora si reca in banca e gli viene detto che che quei soldi arrivano dal Ministero dell’Interno e costituiscono l’ indennitá per la malattia contratta nella Terra dei Fuochi. Il tutto senza una comunicazione né un riconoscimento, un gesto che al tempo Monika e Roberto videro come un modo per “liquidarli”, forse perchè Roberto stava facendo troppo rumore. Quei 5.000 euro, comunque insufficienti a coprire i costi dei trattamenti, si accompagnarono alla totale assenza di risposte in merito alla richiesta di un’indennitá fatta da Mancini alla Camera dei Deputati (una situazione rettificata molti anni dopo grazie ad una raccolta di firme portata avanti da Monika e Change.org, che portò al riconoscimento di Roberto come vittima del dovere). In cura da uno psicologo, abbattuto e depresso, Roberto non abbandona comunque il suo carattere scherzoso e la sua tendenza ad avere la battuta pronta; Monika ricorda infatti come lui ironizzasse sulla malattia dicendo di appartenere al “Club dei tumorati” e la prendesse in giro ogni volta che la vedeva vestita di nero, chiedendole se si stava preparando a fare la vedova. Quando poi dalla Polfer fu finalmente trasferito al commissariato di San Lorenzo, a Verano, diceva spesso che lo stavano preventivamente avvicinando al cimitero. Nel 2005 il male viene trattato e sembra scomparire. Il tempo passa e Roberto vede sua figlia compiere 13 anni.

Un giorno la scrivania in cui era chiusa l’informativa di Roberto viene assegnata al pubblico ministero Alessandro Milita, il quale apre il cassetto, la trova e la legge. A mezzanotte e mezza dello stesso giorno, chiama Roberto e lo convoca a Napoli per l’indomani: il processo sul traffico dei rifiuti in Campania può finalmente essere aperto. Siamo nel 2011. Sono passati quindici anni dal 1996 e finalmente il lavoro di Mancini viene recuperato; lui intanto sta nuovamente lottando contro la malattia, purtroppo ricomparsa. Roberto controlla ancora una volta i suoi appunti e rivede le indagini, desideroso di aiutare a fare giustizia anche dal letto d’ospedale. Chianese verrà condannato in primo grado a 20 anni, sentenza che nel 2019 è ridotta in appello a 18 anni per disastro ambientale per i fatti della Resit di Giugliano, nella cui immensa buca vennero gettate oltre 340 mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi non trattati. Insieme a lui, anche Gaetano Cerci viene condannato a 15 anni.

Roberto Mancini purtroppo non riuscirà a vedere né l’una né l’altra condanna: si spegne infatti il 30 aprile 2014, lottando per la giustizia fino alla fine.

La famiglia, pensando a come Roberto avrebbe considerato la sentenza, immagina che “sicuramente non sarebbe stato molto soddisfatto, troppo poco, però sarebbe stato contento perché grazie alla sua indagine abbiamo avuto il primo caso di condanna per traffico dei rifiuti e una bozza di legge che, anche se non completa, comunque persegue questo reato”. Monika racconta di come il caso di Roberto abbia fatto scuola, permettendo il riconoscimento dell’indennità ad altri suoi colleghi, affetti da malattie derivanti dall’esposizione a sostanze pericolose in servizio. Alessia ricorda le conversazioni con il padre nel periodo in cui avevano recuperato la sua informativa e lo ricorda come “stanco ma felice, perché era il suo lavoro, un lavoro per cui ha gettato vita e sangue”; immagina che suo padre “sarebbe stato da una parte fiero del fatto che qualcosa del suo lavoro gli fosse finalmente riconosciuto e che una giustizia seppur risicata sia stata fatta”. Alessia, una volta terminato il liceo, ha intenzione di entrare in polizia, seguendo il cammino di suo padre.

Vorrei quindi lasciare alle sue parole l’ultima, importante riflessione sul valore del lavoro di Roberto Mancini: “Albert Pine ha detto: “Quello che facciamo per noi stessi muore con noi, quello che facciamo per gli altri e per il mondo rimane ed è immortale.” Era questo pensiero che animava mio padre ed è lo stesso che dovrebbe spingere tutti noi a lottare per ciò che sì, è nostro, ma è anche di tutti i nostri parenti, dei nostri vicini, degli sconosciuti che incontriamo alla fermata dell’autobus: la nostra terra.

Davvero saremmo capaci di girare la testa di fronte alla sua distruzione? Perché l’Italia è nostra ed è nostro dovere proteggerla da chi per meri interessi personali è disposto a sacrificare la vita di ogni persona necessaria. E cosa ci garantisce di non essere tra quelle? Pensiamo sempre che tutto accada agli altri, che non ci toccherà mai nulla di ciò che vediamo ai telegiornali, ma non è così ed io l’ho vissuto in prima persona. Mio padre è stato tra quelle persone sacrificate ma che sono andate incontro al proprio destino volontariamente. Mio padre sarebbe morto altre mille volte nel tentativo di salvare quelle persone innocenti che inconsapevolmente entravano ed entrano a far parte di quella scia di morte che non accenna a fermarsi. Adesso l’unica cosa che mi sento di chiedervi è di prendere consapevolezza dei vostri doveri nei confronti della vostra terra e di alzare la testa di fronte ai soprusi di chi guardandovi non vi considera degni di vivere una vita che vi spetta di diritto”.

(a cura di Elisa Boni)

21 Marzo 2020

fonte:https://mafie.blogautore.repubblica.it/