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L’Italia galleggia in un mare di contante sporco e ora i soldi in nero tornano dalla Svizzera

L’Espresso, Venerdì 07 Luglio 2017

L’Italia galleggia in un mare di contante sporco e ora i soldi in nero tornano dalla Svizzera
Nel nostro paese circola un’enorme quantità di cash frutto di corruzione ed evasione. 
E mentre l’ultima manovra per far emergere il sommerso si è rivelata un flop, i tesoretti nascosti in Canton Ticino rientrano in Lombardia per paura delle segnalazioni delle banche

di Vittorio Malagutti

Sporchi, maledetti e subito. Milioni di euro divisi in comode mazzette da cinquecento euro. Servizio pronta consegna ovunque in Italia. Pagamento in anticipo, ovviamente, perché affari di questo tipo non si sa mai come vanno a finire. Gente spiccia, gli spalloni. La Svizzera annuncia di voler chiudere le porte al denaro nero? Il fiume di contante con destinazione Lugano si è ormai quasi prosciugato? Non c’è problema, si cambia verso. I commessi viaggiatori dell’evasione hanno invertito la rotta. Adesso partono dal Canton Ticino e sbarcano in Lombardia. Un tempo portavano oltre frontiera i soldi degli italiani in fuga dalle tasse. Adesso accompagnano l’onda di ritorno.

I clienti potenziali sono migliaia. Gente che dispone di un tesoretto nascosto illegalmente dall’altra parte del confine e ora, per i più svariati motivi, ha bisogno che quei capitali rientrino al più presto in Italia. Questi evasori fiscali non possono permettersi di passare per i consueti canali bancari: una scelta che di fatto equivale a un’autodenuncia, con tutte le conseguenze del caso, anche di carattere penale. Ecco perché la new wave degli spalloni fa affari d’oro e fatica a soddisfare le richieste di un mercato in rapida espansione. Il gruzzolo bloccato in Svizzera spesso appartiene a professionisti, imprenditori e commercianti che a suo tempo dissero no al comodo salvacondotto dello scudo fiscale, quello inventato da Giulio Tremonti all’epoca dei governi di Silvio Berlusconi. Più recente, invece, è la voluntary disclosure promossa da Matteo Renzi per far rientrare liquidità, titoli e valori vari depositati all’estero.

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Anche in questo caso, però, migliaia italiani con i soldi in nero hanno preferito far finta di niente. E ora tutti cercano un varco per riportare in Italia i capitali di famiglia. Il viaggio di ritorno non sempre approda a destinazione. A metà giugno, per dire, si è chiusa un’inchiesta della procura di Genova che ha smantellato una rete di trafficanti di valuta. Secondo l’accusa, tra i clienti di questa organizzazione c’era anche Gabriele Volpi, un uomo d’affari, ben conosciuto a Genova come patron della squadra di pallanuoto del Recco, che in oltre quarant’anni di carriera ha accumulato una fortuna miliardaria grazie al petrolio nigeriano.

Volpi, che si è visto sequestrare oltre 500 mila euro, era in folta compagnia. Oltre a lui, la lista degli indagati comprende una mezza dozzina di affezionati clienti della premiata ditta di trasporto valori con base in canton Ticino. Trasporto fuorilegge, ovviamente. Nelle carte dell’inchiesta compare anche il nome di Libero Valsangiacomo, alto funzionario della Pkb, grande istituto di credito con sede a Lugano. Il sospetto, quindi, è che gli spalloni di nuova generazione, come del resto quelli che li hanno preceduti, dispongano di ottimi agganci ai piani alti delle banche.

Secondo la ricostruzione della Guardia di Finanza, Volpi e gli altri hanno cercato di farsi recapitare in Italia parte del denaro accumulato all’estero. Una volta passato il confine in direzione Sud, anche quelle somme non dichiarate al Fisco sarebbero andate ad aggiungersi all’immenso fiume di soldi in nero che scorre ovunque nella Penisola.

Lo dicono tutte le statistiche: l’Italia galleggia sul contante. E non potrebbe essere altrimenti. Dati alla mano, si scopre che solo lo 0,1 per cento dei contribuenti dichiara oltre 100 mila euro di reddito lordo annuo. E più di un terzo dei lavoratori autonomi (imprenditori, professionisti, commercianti) sostiene di non guadagnare nulla, mentre i nove decimi degli altri presentano un modello 730 inferiore ai 35 mila euro.


Solo una parte minima dei soldi che sfuggono alle tasse prende la via dei depositi offshore in Svizzera o altrove. Soprattutto da quando la rete dei trattati internazionali per contrastare le frodi fiscali ha di molto ridotto gli spazi di manovra per l’export illegale di valuta. Di conseguenza, gran parte dei proventi dell’evasione resta in circolo in Italia sotto forma di contante, nascosto nella cassette di sicurezza oppure nei forzieri casalinghi. Il resto viene invece trasformato in immobili o in oggetti di valore, come per esempio auto di lusso, gioielli, dipinti.

Ecco perché colpire il cash, quello nostrano, è diventato uno strumento essenziale nella lotta ai furboni delle tasse. Limitare al minimo indispensabile la circolazione di denaro liquido, quello sotto forma di banconote e quindi di per sé non tracciabile, avrebbe l’effetto, nel lungo termine, di prosciugare il lago in cui nuotano gli evasori.

Proprio questo era l’obbiettivo della seconda edizione della voluntary disclosure, varata dal governo nell’ottobre dell’anno scorso. La nuova legge avrebbe soprattutto dovuto agevolare quanti intendevano dichiarare il contante mai segnalato prima al Fisco. In cambio, l’Agenzia delle entrate chiedeva il pagamento delle imposte dovute, con l’aggiunta degli interessi e un forte sconto, di fatto l’azzeramento, delle sanzioni.

La proposta è caduta nel vuoto, o quasi. A un mese circa dalla scadenza di fine luglio, i risultati del nuovo concordato fiscale sono a dir poco deludenti rispetto alle attese. Il flop, ormai certo, avrà conseguenze di rilievo sui conti pubblici. Il governo infatti mirava a incassare dall’operazione almeno 1,6 miliardi, un traguardo che ormai sembra impossibile da raggiungere. Nel 2016, invece, le autodenunce dei contribuenti infedeli fruttarono all’Erario più di 4 miliardi e oltre 60 miliardi, per due terzi nascosti in Svizzera, vennero denunciati al Fisco da centinaia di migliaia di evasori. Un successo clamoroso, più volte rivendicato dal governo di Matteo Renzi.
Ben diversa è la musica in queste settimane. «Il numero di pratiche della nuova voluntary è almeno del 90 per cento inferiore a quello registrato nella prima edizione», tira le somme il tributarista milanese Fabio Ciani. E già a fine maggio un’indagine pubblicata da Il Sole 24 Ore segnalava che, in base a un sondaggio tra grandi studi di commercialisti, il grado di interesse dei contribuenti per l’operazione varata dal governo era «basso» oppure «molto basso»per la quasi totalità del campione interpellato.

Se davvero l’obiettivo era quello di far emergere gli oltre 150 miliardi di contante nascosti nelle casseforti degli italiani, allora la legge «avrebbe dovuto garantire incentivi ben maggiori per convincere gli evasori a mettersi in regola», argomentano Antonio Martino e Antonio Tomassini, avvocati dello studio legale internazionale Dla Piper. «Per esempio, spiegano Martino e Tomassini, «si sarebbe potuto premiare il deposito delle somme regolarizzate in appositi conti intestati a una fiduciaria per poi favorire il reinvestimento in azienda di parte di questo denaro oppure in opere di interesse pubblico». Niente da fare, quindi. Gli evasori nostrani restano seduti su una montagna di nero e ben pochi tra loro sembrano intenzionati ad autodenunciarsi. Anche perché, al momento, manca del tutto l’incentivo più efficace per uscire allo scoperto, cioè il timore di essere prima o poi scoperti.

Qualcuno tra gli addetti ai lavori di recente ha immaginato interventi d’emergenza per rendere più attraente l’offerta del Fisco. Sembra difficile, però, che la voluntary disclosure possa essere corretta in corso d’opera proprio quando ormai incombe la scadenza finale. E il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha fin qui escluso proroghe della manovra fiscale. Alla prova dei fatti, quindi, la versione reloaded della cosiddetta (in burocratese) “procedura di emersione dei capitali” sembra destinata a raccogliere ben magri risultati.
I buoni propositi del governo, che contava anche di dare un po’ di sollievo ai conti pubblici, sono andati a rimbalzare contro il muro dei contanti accumulati negli anni da milioni di italiani.

D’altra parte è lo stesso esecutivo a mandare nel tempo segnali contraddittori tra loro. Con la legge di Stabilità del 2016, con Renzi presidente del Consiglio, è stato innalzato a tremila euro il limite massimo per i pagamenti cash. Lo stesso limite che quattro anni prima, all’epoca di Mario Monti, era stato tagliato da 2.500 a mille euro proprio con l’obiettivo di combattere l’evasione. Va detto che fino a maggio del 2010 la soglia di legge era fissata a 12.500 euro. L’anno scorso, l’allora premier Renzi dichiarò che l’incremento da mille a tremila euro serviva a incentivare i consumi e quindi la ripresa in una fase di grave crisi economica. Può essere, anche se per il momento appare difficile misurare l’impatto reale di quella decisione sul modesto incremento delle spese delle famiglie negli ultimi due anni.

Di sicuro, l’Italia resta il più liquido tra i grandi Paesi europei, a notevole distanza, come confermano le statistiche della Bce, da Germania, Francia e Regno Unito, per non parlare dell’Olanda o delle nazioni scandinave. Secondo un rapporto dello Studio Ambrosetti basato su dati della Banca centrale europea, il peso del contante sul totale del Pil, il Prodotto interno lordo, nel caso italiano supera il 10 per cento. La media della zona euro non va oltre l’8,6 per cento, mentre in Francia si viaggia intorno al 9,7 per cento, nel Regno Unito siamo al 3,5 per cento e in Svezia si scende addirittura al 2 per cento. L’uso del cash, e quindi anche la propensione all’evasione, non è omogeneo neppure all’interno del nostro territorio nazionale. In diverse zone del Sud, per esempio in Calabria e in alcune province della Sicilia, la quota delle operazioni in contanti sul totale dei pagamenti supera anche di dieci volte il dato registrato in gran parte del Piemonte e della Lombardia. I dati raccolti dall’Uif, l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, indicano che a Mantova o a Cremona solo una transazione su cento di valore superiore ai 15 mila euro viene saldata cash. Queste operazioni vengono segnalate dagli intermediari finanziari (banche, fiduciarie, poste, assicurazioni e altri ancora) e inseriti in nell’anagrafe dell’antiriciclaggio.


Tutt’altra musica all’altro capo della Penisola. A Catanzaro e a Trapani, ma anche in gran parte della Sardegna, il ricorso alle banconote è molto più frequente e riguarda oltre il 10 per cento delle compravendite per importi di 15 mila euro e più. La situazione, segnala ancora l’Uif, è in lenta evoluzione. Nel 2015 le operazioni in contanti sono diminuite del 6 per cento rispetto ai dodici mesi precedenti. È un passo avanti, ma l’Italia resta ancora nelle posizioni di coda nella graduatoria europea che riguarda gli strumenti alternativi al denaro cash. L’uso dei bonifici bancari, per esempio, è molto ridotto rispetto a quanto accade in Germania o nel Regno Unito. Da noi si viaggia intorno alle 24 operazioni pro-capite all’anno, contro le 62 dei britannici e le 73 dei tedeschi. In cima alla graduatoria troviamo la Finlandia, con una media annua di 160 bonifici, mentre nelle retrovie Portogallo, Cipro e Spagna, con Malta, sono sugli stessi livelli dell’Italia.

Ancora una volta, quindi, i dati confermano la stretta relazione tra i pagamenti cash e l’evasione fiscale. Quest’ultima risulta più elevata dove è più frequente il ricorso al denaro liquido. È il caso del nostro Paese, ma anche degli Stati della penisola iberica e della Grecia. Aggirare l’Iva, per esempio, diventa un gioco da ragazzi se il pagamento viene regolato in contanti, come sa bene chiunque abbia avuto a che fare con alcune categorie professionali, dai medici ai meccanici d’auto. Non è un caso, infatti, che in Italia e in Grecia, dove il cash va alla grande, l’evasione divori almeno un terzo del gettito complessivo dell’Iva. Germania e Francia, invece, si fermano al 10-12 per cento. Questi dati sarebbero ben diversi, e il Fisco di Roma incasserebbe molto di più, se una quota maggiore delle compravendite venisse regolata in banca oppure con la carta di credito. Vane speranze, per il momento. Dei bonifici abbiamo detto, ma anche la moneta elettronica non gode di grande popolarità nella penisola.

Le statistiche parlano chiaro. Se in Europa almeno tre pagamenti su dieci vengono saldati mediante carte di credito, nel nostro Paese non si arriva a due. In Svezia o in Finlandia ogni cittadino adulto fa ricorso in media 400 volte l’anno a strumenti alternativi al contante, gli inglesi arrivano a 329 operazioni ogni dodici mesi, i francesi a 286 e i tedeschi si fermano a 216. In Italia invece, secondo le informazioni rese pubbliche dalla Banca centrale europea, lo stesso dato non supera quota 80, per la precisione 78,8, poco più della metà della Spagna (135) e cinque volte meno rispetto ai livelli scandinavi.


Le ultime ricerche spiegano che anche in questo campo la situazione appare in lenta evoluzione. Sul mercato tricolore, il valore delle transazioni con carte di credito aumenta di un 10 per cento l’anno a partire dal 2013. Su questo dato incide molto, ovviamente, anche la sempre maggiore diffusione del commercio on line, che si fonda sui pagamenti elettronici. Per tutto il resto ci sono le vecchie banconote. E gli italiani, immersi in un mare di nero, si tengono ben stretti il loro contante.