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Dell’Utri: Mangano mafioso? Non aveva il distintivo

Per i giudici di Palermo il senatore Pdl era anello di congiunzione tra i boss e Berlusconi. Nessuna prova certa di accordo alla nascita di Forza Italia

Palermo, 20 nov. (Apcom) – Marcello Dell’Utri non sapeva che Vittorio Mangano era un mafioso, “non aveva mica un distintivo”, ha dichiarato intervenendo all’indomani della pubblicazione delle motivazioni della sentenza di secondo grado, emessa lo scorso 29 giugno, che ha condannato il senatore Pdl a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa.

Secondo i giudici della Corte d’Appello di Palermo Dell’Utri era anello di congiunzione tra i boss mafiosi e Silvio Berlusconi. Nelle motivazioni si fa riferimento anche alla figura del boss palermitano Vittorio Mangano, chiamato da Dell’Utri a ricoprire ufficialmente il ruolo di stalliere nella villa di Arcore del premier, ma in realtà assunto per tutelare la figura dell’imprenditore e della sua famiglia in cambio di “ingenti somme di denaro”. Circostanze negate dal senatore: “Quando è stato assunto – ha precisato in un’invervista al Tg1 – non si sapeva la sua vita precedente, non abbiamo chiesto informazioni”.

Per i magistrati il politico sarebbe stato un vero e proprio anello di congiunzione tra la mafia e il presidente del Consiglio Berlusconi quando questi era ancora soltanto un imprenditore del settore delle costruzioni. Anche se, si legge ancora nelle motivazioni della sentenza depositata venerdì, non risultano prove che confermino in maniera certa un presunto accordo tra mafia e politica durante la fase embrionale del partito Forza Italia, tra il ’93 e il ’94. E Dell’Utri ha precisato nell’intervista che “sono incontri mai provati, frutto di fantasie di pentiti”, inoltre “è tutto frutto di illazioni, è una favola che si è continuamente sviluppata fino a questa sentenza”. Per fortuna, ha concluso il senatore Pdl, la stessa sentenza “non è definitiva e con tutta serenità mi aspetto che ci sia una sentenza definitiva diversa”.

Per i giudici l’impegno di Dell’Utri avrebbe agevolato il rafforzamento di Cosa nostra negli ambienti imprenditoriali ed economici milanesi. Sono state ritenute attendibili le rivelazioni del pentito Francesco Di Carlo il quale raccontò di un incontro, avvenuto nel 1975 negli uffici di Berlusconi, e al quale presero parte alcuni esponenti di spicco di Cosa nostra tra cui anche Stefano Bontade, il principe di Villagrazia, considerato uno dei principali capimafia dell’epoca.

Per la corte, invece, è di “palese genericità” la tesi sostenuta dall’accusa che si avvaleva delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, di un presunto accordo tra mafia e politica durante la fase embrionale del partito Forza Italia. Il sostegno fornito a Forza Italia, secondo i giudici, non potrebbe essere inteso come il segno dell’esistenza di un patto, e dunque priva il giudizio di quegli elementi che indurrebbero, in questo specifico caso, alla configurazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

(Tratto da Virgilio Notizie)