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Mafie a Nettuno. Da “Il Manifesto”, un servizio di Andrea Palladino

Nettuno D’ITALIA

RAZZISMO, MAFIA E COCAINA

C’è una vasta area che va da Cisterna di Latina fino al litorale, alle città di Anzio e Nettuno. È una piana fatta di serre, campi di kiwi, piccole industrie, fattorie, casali malmessi, strade uguali che tagliano i campi. All’alba, quando ancora le luci dei bar mokambo di questa sterminata periferia laziale si accendono, centinaia di bici senza fanali si affidano alla buona sorte, evitano i camion, zigzagano in silenzio. Sikh si chiamano. Sono indiani, tutti con lo stesso nome. Partono verso le cinque del mattino per entrare nelle serre, per lavorare la terra dell’agroalimentare italiano, per accudire le bufale delle mozzarelle rinomate, per sostenere aziende che vendono in tutto il mondo. Sono la spina dorsale dell’economia da queste parti.
Dalle cinque del mattino fino al tramonto. Trenta euro, meno di tre euro all’ora. Anzi, molto, ma molto meno, perché i tanti Sikh della pianura che va da Cisterna al mare spesso quei soldi neanche li vedono. Si sa, c’è la crisi e il padrone a qualcuno la dovrà pur far pagare.
Per una sera, però, gli indiani che abitano tra Nettuno, Anzio, Cisterna e Aprilia le biciclette le hanno usate per andare nel centro della città, al comune, dove i consiglieri che non possono eleggere discutono di uno di loro. Al comune di Nettuno si parla di Singh Navtej Sidhu, che all’ospedale del Sant’Eugenio lotta per sopravvivere, dopo essere stato bruciato da tre ragazzi. Per noia, gli hanno spiegato, o per troppa droga e troppo alcol. Ma mentre entrano i consiglieri, i politici, un senatore, il sindaco loro raccontano sussurrando dei soldi che non ricevono, delle tante ore passate sui campi, delle condizioni di lavoro, di come rischiano la vita girando in bicicletta la notte per andare al lavoro, con la pioggia, il vento, stanchi e con il capo chino. «Lui non lavorava, ora è tutto fermo e di lavoro ce n’è poco», ricordano. «Ma dovete dirlo che non ci pagano, che rischiamo la vita per 30 euro che poi non riceviamo», aggiungono subito dopo.
Nettuno, Anzio, Cisterna, Aprilia. Città stratificate, che contengono storie invisibili, percorsi che si incrociano quasi per caso. Singh Navtej Sidhu non pensava di incontrare Samuele, Gianluca e Francesco alle 4 di notte, mentre dormiva su una panchina della stazione di Nettuno. Chissà quante volte li aveva incrociati mentre pedalava verso i campi e le serre. E chissà quante volte i tre ragazzi avevano sfiorato uno dei tanti Singh con la macchina, sulle strade della periferia immensa che scende verso il mare.
Sono famiglie “normali”, raccontano. Nel quartiere di San Giacomo dove Gianluca e Francesco vivono nessuno li vuole associare ai gruppetti che si vedono davanti al benzinaio o nei sette bar del quartiere, «perditempo, che hanno lasciato la scuola». Loro sono ragazzi come altri, lavorano in call center, si divertono la sera. Banali, talmente normali da risultare invisibili. Salvo la notte dell’ultimo sabato di gennaio, quando hanno chiuso la serata passata girando in auto a Nettuno, un po’ bevuti e un po’ fumati, tentando di uccidere il primo indiano che hanno trovato.
Dare la colpa alla droga è stata la scusa che Nettuno ha subito sbandierato. Gioventù bruciata, raccontavano i politici del posto. Questione di valori, spiegava il sindaco, e il razzismo – dicevano in coro – non c’entra nulla. Semmai la noia. A Nettuno, d’altra parte, non è la droga che manca. E non è il solito spaccio balneare, lo spinello per rallegrare le serate estive.
Il quartiere di San Giacomo apre la strada verso la periferia estrema della città. Dalle case popolari Gescal si entra nelle vie di campagna, verso parchi abbandonati. Dal borgo medioevale dei pub meno di un paio di chilometri e il paesaggio cambia. Da queste parti i turisti e i bagnanti romani non arriveranno mai. E’ l’altra Nettuno che appare, che vive accanto a quella dei “ragazzi normali” e dei Sikh che sgobbano nei campi. È la seconda patria dei Gallace-Novella.
Era la fine degli anni ’70. Dal piccolo paesino calabrese di Guardavalle, in provincia di Catanzaro, arrivano sulla costa laziale due famiglie che contano. Una guidata da Vincenzo Gallace e l’altra da Carmelo Novella. Uomini di ‘ndrangheta, capibastone del locale che controlla buona parte della costa ionica. Sono gli anni dell’espansione silenziosa della ‘ndrangheta, della ricerca di nuove piazze. A Nettuno ed a Anzio la cosca mette radici salde, prende in mano il traffico della cocaina, che gestisce accanto a tanti altri affari più o meno leciti, come la truffa alle assicurazioni, con falsi incidenti simulati per accumulare il capitale da investire nella droga.
È la Direzione antimafia di Roma che con due inchieste – Appia e Mithos – ricostruisce il mondo sommerso di Nettuno. Una città silenziosa, invisibile, ma che conta, che gestisce affari di milioni di euro, un pezzo della politica locale – il comune negli anni passati venne sciolto per mafia – e le teste piene di cocaina di tanti ragazzi del posto. La loro presenza la puoi solo intuire, forse, osservando le macchine potenti che le notti dei fine settimana fanno la spola tra il borgo e il lungo mare, che è il vero struscio locale.
I Gallace ci tengono a distinguersi dai “ragazzi normali”. Si mischiano raramente con i piccoli boss del posto, hanno regole precise che vanno rispettate. Non sapevano di essere ascoltati dai carabinieri del Ros quando raccontavano per telefono o nei viaggi verso il nord a cercare macchine da usare nelle simulazioni d’incidenti il loro mondo, la loro Nettuno parallela. Hanno un certo disprezzo per i nettunensi, che comprano la roba a credito. Loro pagano in contanti, fanno venire la cocaina dal Venezuela, dalla Colombia, dall’Olanda e la vogliono pura. Sono essenziali nel linguaggio e diretti nelle minacce. Sanno usare le armi e l’esplosivo che i carabinieri troveranno durante l’inchiesta, durata anni, che ha permesso di disegnare per la prima volta un locale di ‘ndrangheta con i suoi riti e il comando autonomo rispetto al locale originale calabrese.
Nelle migliaia di pagine del processo Appia – che in questi giorni è in corso a Velletri, nel silenzio più assoluto – scorrono almeno due generazioni dei Gallace. Nell’aula delle udienze arrivano sempre insieme e vedi, anche lì, città differenti che si incontrano. Vincenzo, il capo famiglia, è dimesso, scarpe da pochi euro, sempre lo stesso maglione, fa la spola tra gli avvocati dando suggerimenti, portando foglietti, ricordando pezzi d’inchiesta. I più giovani, la generazione che a Nettuno è cresciuta, assomigliano sempre di più ai ragazzi come Francesco e Gianluca, vestono griffato, usano il gel. Ma sono Gallace, e sanno che certi principi devono essere rispettati. Sanno che devono risultare invisibili, più normali di quei ragazzi normali, non devono sfoggiare le ricchezze, essere discreti. È così che si comanda.
Chissà se hanno mai pensato a gemellare Nettuno con Guardavalle, il paesino ionico da dove vengono i Gallace- Novella. Due comuni sciolti negli anni passati per rapporti troppo stretti tra i politici locali e i capo bastone. A Nettuno nel 2005 lo scioglimento fu un vero terremoto politico, che mise di fronte ad una realtà dura ma inconfutabile la città. Non è una città mafiosa, si gridò allora, ed ovviamente per molti era solo una manovra politica. Oggi la nuova giunta di centrosinistra sta cercando di ricostruire una politica uscita massacrata dalla gestione troppo vicina ai criminali mafiosi. Un sindaco giovane, coetaneo del più grande del gruppetto che ha cercato di uccidere Singh, sta guidando la riscossa.
«Dopo la storia della mafia, ora il razzismo…», commentavano nel palazzo comunale durante il consiglio straordinario due giorni fa. Niente mafia allora, niente razzismo oggi. È la verità più comoda quella che deve uscire: è una città normale, di gente normale. È l’Italia, e come in tutto il paese è la droga che distrugge i giovani e smembra le famiglie. Ma a Nettuno, come in tante città in quella zona del sud del Lazio che scende fino alla pianura pontina, si cerca di non vedere quello che sta avvenendo. Accanto ai teatri e ai centri culturali che chiudono, ai progetti sociali che nessuno finanzia, al vuoto pneumatico costruito attorno ai più giovani, ai centri commerciali e agli outlet si nascondono le città invisibili dell’Italia futura. Una terra dove vivono i nuovi schiavi, come Singh, che appaiono solo quando tre ragazzi cercano di bruciare vivi; dove comandano capi cosca che tirano i fili di una economia che conta più del fatturato delle grandi aziende; dove la mafia non è mafia e il razzismo non esiste.