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Trattativa: le agende di Ciampi, Scalfaro, Conso e il 41 bis

Trattativa: le agende di Ciampi, Scalfaro, Conso e il 41 bis

Dalla sostituzione dei vertici del Dap alle mancate proroghe 

 

21 Luglio 2018


di Aaron Pettinari

Dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, nonostante l’arresto di Riina, spinta da quel dialogo aperto tra i carabinieri ed i mafiosi che portò alla convinzione che le stragi effettivamente “pagassero”, anche nel 1993 l’attacco allo Stato da parte di Cosa nostra proseguì in tutta la sua efferatezza. Via Fauro a Roma, via dei Georgofili a Firenze via Palestro a Milano e le basiliche romane di San Giovanni e San Giorgio al Velabro, sono i messaggi che la mafia inviava all’esterno per ottenere dei benefici, in particolare in materia di carcerario e contro quel 41 bis, applicato ai boss immediatamente dopo la morte di Borsellino.
Nelle motivazioni della sentenza depositate nei giorni scorsi i giudici della Corte d’assise mettono in fila i vari passaggi che dapprima hanno portato alla sostituzione dei vertici del Dap, quindi, nel novembre 1993, alla mancata proroga di 334 decreti “41 bis” ad altrettanti boss mafiosi, da parte del ministro della giustizia Conso (che in precedenza aveva sostituito Martelli). Una decisione, quest’ultima, che come disse lo stesso ex Guardasigilli (e i giudici in merito non hanno dubbi) fu decisa “in piena autonomia” per alleggerire la pressione per sollecitare un atteggiamento “meno esageratamente ostile” di Cosa nostra.
Ma come si arrivò a quella conclusione?
La storia parte da lontano, proprio dall’avvicendamento al vertice del Dap tra Nicolò Amato e Adalberto Capriotti e dalla nomina di Francesco Di Maggio come vice. Una vicenda complessa che viene ricostruita in ogni suo segmento fino a giungere alla conclusione che quella sostituzione “fu voluta – e, di fatto, imposta al Ministro Conso ed al Presidente del Consiglio Ciampi – dall’allora Presidente della Repubblica Scalfaro”.
Quando fu sentito dai pm, il Capo dello Stato aveva dichiarato di non saper nulla né della trattativa né rispetto all’avvicendamento di Amato ha dichiarato (“Non ho alcun ricordo di Amato. Nessuno mi ha mai messo al corrente su presunte trattative o mancata proroga del 41 bis’”). Tuttavia nel corso del dibattimento è emerso in particolare un documento che, scrive la Corte, “smentisce inequivocabilmente ed incontestabilmente la negazione del Presidente Scalfaro”: l’annotazione del 6 giugno 1993, rinvenuta sull’agenda dell’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi. In questo appunto è scritto: “rappresenta di preoccupazioni per il seguito della successione di N. Amato alla Dir. Carceri; Conso avrebbe nominato anche un vice, troppo duro (Giuseppe Falcone, ndr). Suggerisce che gli venga affiancato Giudice Di Maggio: fa capire che è stato interessato da Parisi. Chiamo quest’ultimo, che conferma quanto sopra. Chiamo allora Conso che, al contrario, mi riferisce che tutto procede nel miglior modo; gli suggerisco di mandare messaggio che politica carceraria non cambia. E’ d’accordo. Domani verrà da me. Riferisco a Scalfaro (il tutto fra 22 e 22,30)”.
E’ la “conferma che il presidente Scalfaro, contrariamente a quanto aveva dichiarato al pm nel 2010, ebbe un ruolo attivo nella fase di sostituzione del direttore del Dap”. Una considerazione pesante, tenuto conto del ruolo di Scalfaro.
I giudici scrivono che “ove si volesse escludere la consapevole reticenza del teste, può trovare una qualche giustificazione soltanto il lungo tempo trascorso o di patologie dovute all’età avanzata”. Ma aggiungono anche: “In ogni caso, quali che siano le ragioni che hanno indotto Scalfaro a negare di avere conoscenze in ordine all’avvicendamento di Amato, non v’è dubbio che alla stregua delle chiare testimonianze sopra ricordate (Fabbri, Amato e Gifuni, riscontrate, peraltro, ampiamente, quanto meno sul contesto, da quelle dei numerosi magistrati e funzionari del D.A.P. pure esaminati come testi nel corso del dibattimento) deve, con certezza, ricondursi alla volontà del Presidente Scalfaro la sostituzione dell’allora Direttore del D.A.P. Amato”.

Le reazioni contro il 41 bis
Nelle motivazioni viene ricostruito il momento storico in cui maturò la decisione con il regime 41 bis al tempo al centro del dibattito “sia all’interno del D.A.P. sia all’esterno tra le altre Istituzioni, i politici e il mondo dei media, era la problematica dei cosiddetto regime del 41 bis, che aveva determinato forti reazioni, talvolta anche violente, all’interno delle carceri e, per l’effetto, un clima anche di intimidazione (v. lettera dei sedicenti familiari dei detenuti di Pianosa che sarà più dettagliatamente esaminata più avanti), che faceva temere disordini, ovvero, ancor peggio, la ripresa di una strategia stragista da parte delle organizzazioni mafiose, tanto che, poi, come pure si dirà meglio più avanti, molti nelle Istituzioni ebbero a collegare, senza manifestare dubbi di sorta, le stragi di Firenze e, poi, di Roma e Milano proprio all’intendimento delle dette organizzazioni mafiose, e tra queste, soprattutto, quella denominata ‘cosa nostra’ di incidere sulla linea del rigore carcerario sino ad allora portata avanti dalla Stato”.

Il ruolo del Capo della polizia Parisi
Leggendo le carte emerge come nella vicenda della sostituzione ai vertici del Dap abbia avuto un ruolo anche l’allora Capo della Polizia Parisi, che non solo avrebbe suggerito la nomina di Di Maggio come vice di Capriotti ma avrebbe anche “catechizzato” l’ex magistrato “sulla necessità di attenuare in quel momento storico la durezza del regime carcerario”. “Una cosa che – scrivono i giudici – in concreto è effettivamente avvenuta con l’apporto – o, quanto meno, la non opposizione – del Dott. Di Maggio, che soltanto tardivamente si sarebbe reso conto della scelleratezza di quella linea fondamentalmente contraria alle sue idee”.

Le dichiarazioni di Loris D’Ambrosio
Per ricostruire la vicenda la Corte analizza anche alcune delle intercettazioni tra Nicola Mancino, nel processo imputato e assolto per falsa testimonianza, e il Consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio.
Le “sollecitazioni” dell’ex ministro degli Interni a quest’ultimo, vengono definite dalla Corte come“un’iniziativa certamente censurabile”, inammissibile e inopportuna. In una di queste conversazioni D’Ambrosio si interrogava sulla nomina di Di Maggio: “allora chi ha avuto la bella pensata di farlo Vice Capo del Dipartimento? Oui è il busillis. diciamo così. lasciando perdere il… la finalità. che io ancora non ci voglio andare a capire. ma… a chi è venuto in mente!?” (…) queste secondo me sono… sono delle cose strane che sono accadute in quel periodo. (…) ma io non credo che lui rosse tanto favorevole all’alleggerimento. lo credo che lui fosse di un’altra idea, no? Non so se…? Ci fossero due scuole di pensiero per intendersi; una era l’alleggerimento del 41? (…) l’altra era, contestualmente: il colloquio investigativo e consentire più agevole accesso nelle carceri agli amici di Ciccio Di Maggio (…) non ha saputo niente mai, perché questo era un discorso che riguardava; per la parte 41 bis, alleggerimento 41 bis, Mori, Poliz… Parisi, Scalfaro e compagnia: per la parte invece di..di… di colloqui investigativi un pò, diciamo… euhm.. chiamiamoli così… ehm… non so come dire, un po’ sconsiderati oppure almeno… almeno, almeno un po’ tacili, ecco, così. Eh. eh… da parte Di Maggio Mori e compagnia.”.
E la Corte evidenza come nell’intercettazione “si evince come il Dott. Loris D’Ambrosio avesse ben compreso la centralità della nomina al D.A.P. del Dott. Di Maggio nell’interesse del Capo della Polizia Parisi e del Col. Mori ai quali era particolarmente legato, ancorché il medesimo Dott. D’Ambrosio ritenesse più plausibile, conoscendo il Dott. Di Maggio, che quell’interesse fosse diretto più che ad ottenere un alleggerimento del 41 bis, piuttosto a consentire l’accesso nelle carceri dei suoi (di Di Maggio) ‘amici’ per avere, evidentemente senza vincoli, colloqui investigativi con i detenuti” ed emerge come “riguardo alla nomina di Di Maggio, fosse a conoscenza di ben più di ciò che avrebbe poi riferito al P.M. il 20 marzo 2012”.

L’appunto del Dap, e le note della Dia e di Manganelli
I giudici nelle motivazioni passano in rassegna anche alcuni documenti fondamentali come l’appunto che il “rinnovato” Dap di Capriotti e Di Maggio, datato 26 giugno 1993 e firmato dal primo, in cui si “delinea e sottopone al Ministro un nuovo indirizzo di politica carceraria certamente meno rigoroso”. I giudici parlando di un “mutamento dell’ottica”. Non più “quella della tutela delle esigenze primarie di sicurezza necessarie per interrompere i collegamenti tra i detenuti e l’organizzazione criminale di appartenenza responsabile di efferati delitti e, nel contempo, della necessità per le Istituzioni di dare una forte risposta che potesse far comprendere alle organizzazioni mafiose l’improduttività dell’attacco sferrato contro lo Stato, facendone derivare soltanto conseguenze negative che potessero dissuaderle dalla prosecuzione dell’attacco medesimo” ma al contrario di una “‘mano tesa’ delle Istituzioni, che, a fronte di quell’escalation di violenza senza precedenti … proponeva ora di ridurre, quanto meno nel numero dei soggetti destinatari, il regime di rigore carcerario con il solo fine di lanciare ‘segnali di distensione’ e di ‘non inasprire il clima’”.
Capitoli sono dedicati alla nota della Dia dell’agosto 1993, firmata da De Gennaro, in cui per si parla anche di “trattativa”, e quella dello Sco, firmata da Manganelli, ma anche da alcuni appunti del Presidente del Senato Spadolini. Scrive la Corte che da questi documenti, ed anche dalla deposizione dell’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano, “deve pervenirsi alla conclusione che nelle Istituzioni fossero ormai ben chiari, dopo le ulteriori bombe del 27-28 luglio 1993, sia la finalità di ‘Cosa nostra’ di (ri)attivare una ‘trattativa’ per attenuare il rigore carcerario e, più in generale, ottenere benefici per i propri associati detenuti, sia, nel contempo, la corrispondente necessità di mantenere la linea della fermezza, intrapresa dopo la strage di Capaci e sino ad allora non più abbandonata, e ciò ad iniziare dal regime del 41 bis perché qualsiasi passo indietro nella sua applicazione sarebbe stato letto come un segnale di cedimento dello Stato al ricatto di ‘cosa nostra’”. Tuttavia, anche se “nulla lasciava presagire che un tale cedimento potesse esservi” lo stesso si manifesterà in un secondo momento.

Il Guardasigilli Conso condizionato
Nella stesura del documento la Corte evidenzierà alcuni aspetti cruciali come la “tardiva” richiesta di informazioni in vista della scadenza del novembre 1993 di oltre trecento 41 bis, ed anche lo “spessore criminale-mafioso” dei detenuti che beneficiarono della mancata proroga. Tra questi vi erano “storici” capi-mafia come Antonino (“Nenè”) Geraci e Giuseppe Farinella, rispettivamente a capo dei “mandamenti” di Partinico e San Mauro Castelverde che estendevano la propria “competenza” su gran parte del territorio della Provincia di Palermo, nonché Giovanni Prestifilippo, importante esponente della “famiglia” mafiosa di Ciaculli. Ma la Corte, ha voluto evidenziare come “indipendentemente dal ‘nome’ dei detenuti beneficiati” già la decisione di non prorogare il regime del 41 bis costituiva in quel momento un “fatto obiettivo idoneo” a far percepire ai vertici di Cosa nostra “una inversione di tendenza” e “quel primo pur parziale segnale di cedimento consentiva di far sperare loro (agli altri detenuti al 41 bis, ndr) che la minaccia e ancor più l’attuazione di ulteriori stragi avrebbe potuto condurre alla già richiesta definitiva abolizione del medesimo regime del 41 bis per tutti i detenuti”.
Secondo la Corte, dunque, quella decisione di Conso lanciava un messaggio. I giudici ricordano le parole di Conso che con quell’operato coltivava “una speranziella sottesa, senza proclamarla” e cioè la speranza di vedere se dall’attenuazione del rigore carcerario fosse potuta derivare la cessazione delle stragi.
Seppure la Corte ritiene che non vi sia “ragione di dubitare” delle parole di Conso il quale ha sottolineato più “l’autonomia della sua decisione, di cui si è assunto la piena responsabilità, e l’assenza di qualsiasi collegamento della stessa con “trattative” e contatti di qualsiasi tipo con la mafia (compresi quelli intrapresi da Mori e De Donno con Vito Ciancimino) di cui egli non venne mai a conoscenza” i giudici mettono in evidenza come la spiegazione data sui motivi che lo portarono ad intraprendere quell’iniziativa non siano convincenti.
In un primo momento, infatti, Conso aveva dichiarato che in quel periodo la mafia “taceva” ma questa è una spiegazione che “non trova alcun riscontro nella realtà” anche perché ad ottobre 1993 erano appena trascorsi due mesi dalle ultime stragi. “Non si comprende, dunque, – si legge nella sentenza – come tale breve lasso di tempo potesse essere interpretato, da chiunque, come una resipiscenza da parte della mafia e, quindi, posto dal Ministro ad origine della sua autonoma decisione di mutare l’indirizzo rigoroso ancora appena attuato nel precedente mese di luglio”.
“E’ evidente – aggiungono i giudici – che qualcuno deve avere portato alla cognizione del Ministro ulteriori elementi di conoscenza che egli, poi, ha valutato, facendone derivare quella sua autonoma decisione finale. Tali elementi, in realtà, sono stati indicati dallo stesso Conso e sono costituiti dalle notizie che egli ebbe riguardo ad una differenziazione di posizioni all’interno di ‘cosa nostra’ tra, da un lato, il sanguinario Riina e, dall’altro, Provenzano, invece, più interessato agli affari e, quindi, ‘meno esageratamente ostile’ (così come disse lo stesso Conso, ndr) allo Stato”.

Suggerimento Di Maggio-Mori
Secondo i giudici i soggetti che lo informarono di quell’evenienza (la spaccatura Riina-Provenzano, ndr), fino a quel momento mai emersa neanche nelle informative degli organi inquirenti, “deve individuarsi nei vertici del D.A.P. Capriotti e Di Maggio con i quali egli si incontrava regolarmente”. Di Maggio, a sua volta, avrebbe appreso queste informazioni “grazie alle sue frequentazioni con l Carabinieri – e con il Col. Mori”. Del resto “soltanto i Carabinieri del R.O.S. e, specificamente, il Col. Mori disponevano, a loro volta, di quelle notizie in forza delle quali il Ministro Conso ha dichiarato di essere addivenuto all’autonoma decisione di non prorogare i decreti del 41 bis. I Carabinieri del R.O.S., invero, riguardo a Provenzano, disponevano sia delle informazioni, mai comunicate alle altre Forze dell’Ordine, ricavate da Vito Ciancimino, sia, da ultimo, delle propalazioni di Salvatore Cancemi, che si era costituito nel luglio del 1993 proprio ai Carabinieri e veniva “gestito” dal R.O.S. e che aveva, peraltro, per la prima volta tolto ogni dubbio sulla esistenza in vita dello stesso Provenzano dopo che i familiari di quest’ultimo avevano fatto rientro a Corleone”.
Altro elemento è offerto persino dalle agende dello stesso Mori in cui alla pagina del giorno 27 luglio 1993, compare l’annotazione “Dal dr. Di Maggio (problema detenuti mafiosi)”. Ed è noto che il Ros non aveva alcuna competenza sulla gestione dell’ordine pubblico nelle carceri, né tanto meno con riferimento specifico ai “detenuti mafiosi”. Dunque per la Corte “non è dato comprendere, allora, quale fosse la ragione di quell’incontro”.
Secondo la Corte, dunque, dietro quella mancata proroga dei 41 bis vi sarebbe anche Mori, attraverso la mediazione forse inconsapevole (giacché non è provata la sua “consapevolezza della trattativa”) del vice-capo dell’amministrazione penitenziaria Francesco Di Maggio.
La minaccia di “ulteriori gravi conseguenze” (nuove stragi dopo luglio, ndr) dunque, “condizionò la decisione del ministro, che si determinò a lanciare un segnale percepibile da Cosa nostra, nella dichiarata “speranziella” (espressione di Conso, ndr) che servisse a mutare la frontale contrapposizione dell’organizzazione mafiosa”. E’ così che si spiega perché si è giunti alla condanna dei carabinieri per il reato di “attentato a corpo politico dello Stato”, fino al 1993.

fonte:http://www.antimafiaduemila.com/