Davanti ai pm della Dda, l’ex killer della ‘ndrina di Sant’Onofrio parla di Giovanni Barone
Pubblicato il: 10/02/2025 – 6:46
di Giorgio Curcio
VIBO VALENTIA «Ho iniziato a lavorare per Giovanni Barone per il tramite di Gaetano Lo Schiavo, il quale era perfettamente a conoscenza della mia appartenenza alla cosca Bonavota, come ne era a conoscenza anche il suocero di questo, mi riferisco appunto a Giovanni Barone». Il collaboratore di giustizia Francesco Fortuna (cl. ’80) davanti ai pm della Dda di Catanzaro chiama in causa anche il commercialista rinviato a giudizio nel processo “Rinascita 3 – Assocompari” della Distrettuale catanzarese, con l’accusa di essere «affiliato alla cosca Bonavota di Sant’Onofrio» e dei reati quali «associazione di tipo mafioso, riciclaggio internazionale, trasferimento fraudolento di valori, truffa internazionale e altri reati». Il suo nome, peraltro, spunta in alcune vicende avvenute in Lombardia, Veneto, oltre ad essere accusato di aver agevolato «l’infiltrazione dei Bonavota all’interno di lavori edili svolti a Genova e nella provincia ligure».
Il ragioniere “protetto” dalla ‘ndrangheta
Accuse che, davanti ai pm, il pentito conferma. «Domenico Bonavota sapeva che mi recavo a Milano e cosa facevo una volta lì e cioè che mi incontravo proprio con Giovanni Barone ma, in questo caso, Bonavota non c’entrava nulla negli affari illeciti che portavo avanti con lui». E ancora: «Anche Nicola Bonavota non c’entrava con quello che faceva con Barone» ma, racconta, «è vero che in un’occasione è venuto con me a Milano da quest’ultimo, ma è stata una cosa casuale, doveva recarsi da un dentista, posso assicurarvi che, almeno fino al 2015/2016, non hanno avuto nulla a che fare direttamente». Le accuse nei confronti di Giovanni Barone da parte del pentito continuano: «Era solito avvalersi della copertura della criminalità organizzata per lavorare più facilmente, me l’ha confidato lui stesso, ed è questo che intendo quando dico che lui non faceva parte della ‘ndrangheta, non era appartenente a questo o a quest’altro gruppo, ma si avvicinava a me quale esponente dei Bonavota come anche ad altri, in quanto utilizzava la nostra copertura per sua utilità».
I progetti edilizi a Genova
L’utilità, però, sarebbe stata reciproca. «Quando ho iniziato i miei rapporti con Barone» racconta proprio il pentito, «avevo l’intenzione di guadagnare qualcosa anche io inserendomi nelle truffe che organizzata Barone ai danni di vari imprese e società». E ancora: «Tramite Davide Garcea ho conosciuto degli imprenditori genovesi che stavano portando avanti un interessante progetto per dei lavori edili in quella zona, ed io pensai che fosse una buona occasione di guadagno e che in tali lavori potesse entrare Francesco Mandaradoni. Sapevo che i fratelli Bonavota avevano intenzione di investire in cantieri nel Nord Italia e ne parlammo anche con Domenico una volta che lo incontrai a Roma».
La tattica di Fortuna
Nel suo racconto, il pentito illustra ai pm l’evoluzione della vicenda. «Quando parlai con gli imprenditori di Genova presentati da Garcea, diedi loro l’indirizzo di posta elettronica dell’ISEA con un duplice scopo: da un lato, l’afflusso di progetti verso ISEA consentiva a Barone di gettare fumo negli occhi degli altri soci per le sue condotte truffaldine di cui beneficiavo anche io, dall’altro ottenevo la documentazione del progetto da far visionare a Francesco Mandaradoni in vista del futuro investimento dei Bonavota nell’affare». E spiega ancora il pentito: «La mia intenzione era di far lavorare sul cantiere di Genova Mandaradoni, quindi il fatto di presentarmi ai genovesi come espressione dell’ISEA ed utilizzare l’indirizzo di posta elettronica, oltre ad essere funzionale allo spolpamento della società e di consentire al Barone di avere il tempo necessario di portarlo a termine, mi serviva anche per dare agli imprenditori genovesi un punto di riferimento formale di cui potessero fidarsi e che potevano conoscere». (g.curcio@