Giorgio Bongiovanni 11 Settembre 2024
Questo articolo, che riproponiamo ai nostri lettori, è stato scritto in data 28-08-2024.
Come può un testimone di giustizia ricominciare una vita se lo Stato lo lascia solo e non interviene in prima persona per garantire, oltre alla protezione, anche il futuro?
La domanda sorge spontanea di fronte alle gravissime criticità che sono emerse in questi anni. La scorsa Commissione antimafia aveva diffuso una relazione in cui, senza mezzi termini, si parlava di “inadeguatezza del Servizio centrale di protezione”. Un documento in cui si descriveva un “deficit informativo circa i diritti e doveri connessi con l’assunzione dello status di collaboratore o testimone di giustizia; sistemazioni logistiche carenti e utilizzo di immobili già destinati a famiglie di soggetti sottoposti a misure di protezione con conseguenti pericoli per la sicurezza; inadeguatezza delle misure poste a tutela dell’incolumità sia in località protetta che in quella di origine; condizione di isolamento e mancanza di punti di riferimento; insufficienza e più in generale inadeguatezza del sistema delle misure adottate per il sostegno economico e il reinserimento lavorativo; lungaggini burocratiche e talvolta assenza totale di risposta da parte dell’apparato tutorio per risolvere le più svariate esigenze; difficoltà connesse all’utilizzo dei documenti di copertura e all’accesso alla misura del cambio di generalità”.
Oggi ci occupiamo dell’ennesima vergogna dello Stato contro il testimone di giustizia palermitano Angelo Niceta, che da molti anni – da quando ha deciso di collaborare con la giustizia e la Procura di Palermo ha chiesto per lui ed i suoi familiari la protezione – denuncia anomalie e gravi fatti accaduti a lui e alla sua famiglia.
Appena un mese fa aveva denunciato le minacce ricevute dal figlio a pochi giorni dall’udienza prevista davanti al Giudice di Pace di Termini Imerese.
Adesso una nuova vicenda legata ai continui rallentamenti e rimpalli burocratici che la Commissione Centrale di Protezione sta portando avanti rispetto all’istanza di richiesta di acquisizione, a prezzo di mercato, di un’abitazione appartenente al figlio (anch’egli testimone di giustizia), sita in Sicilia, a Casteldaccia.
La legge n° 6 dell’11/01/2018 (06/02/2018) che all’ art. 6, comma h, prevede infatti “l’acquisizione al patrimonio dello Stato, dietro corresponsione dell’equivalente in denaro secondo il valore di mercato, dei beni immobili di proprietà del testimone di giustizia e degli altri protetti, se le speciali misure di tutela prevedono il loro definitivo trasferimento in un’altra località e se la vendita nel libero mercato non è risultata possibile”.
E’ dal 2023 che si attende una risposta e solo qualche settimana fa, nonostante da tempo vi sia l’indicazione di dare seguito all’istanza, è stata consegnata una nota del servizio Centrale di Protezione in cui si chiede di “produrre atti comprovanti l’incarico conferito sul territorio e la risalente dello stesso a un congruo periodo, per comprovare l’impossibilità di libera vendita riscontrata sul mercato”.
“Perché è dovuto passare più di un anno? – si chiede lo stesso Niceta da noi raggiunto – Perché queste lungaggini, nonostante vi sia un’indicazione precisa da parte del sottosegretario all’Interno Nicola Molteni? Vogliono portarci allo sfinimento. Anche la richiesta del risarcimento del danno per le mancate opportunità, mie e dei miei familiari, per gli anni trascorsi in località segreta, sono ‘in attesa’”.
Lo scorso marzo il figlio di Niceta ha prodotto un atto di “avviso diffida e messa in mora”, inviato a più Procure, oltre che alla stessa Commissione centrale, in cui si mette in evidenza come “non è stato comunicato o notificato alcun seguito e conseguentemente nessuna competente agenzia del Demanio è mai intervenuta, nessuna ulteriore informazione è stata mai fornita (…) né dal Servizio Centrale né dalla Commissione Centrale nonostante gli innumerevoli solleciti richiesti tramite il personale del Nop”.
Il punto è che la famiglia Niceta si trova a dover affrontare una situazione economica difficile, senza redditi. E in queste condizioni “risulta difficile, se non impossibile, proseguire gli studi e provvedere nell’immediato anche alle spese quotidiane o potere costituire una propria attività lavorativa o svolgere attività lavorative consone al proprio titolo di studio”. Ecco perché, “in conseguenza dei suddetti ritardi e omissioni e inadempimenti, lo scrivente continua a subire danni ulteriori oltre a quelli già patiti”.
Una vicenda che si aggiunge a ciò che è avvenuto mesi fa quando alla moglie del Testimone di Giustizia, Rosalba, è stato notificato dall’Agenzia delle Entrate-Riscossione un “preavviso di iscrizione ipotecaria” sull’abitazione in cui attualmente vive la famiglia di Angelo Niceta, per dei tributi asseritamente non pagati. Tributi neppure regolarmente notificati, fattualmente inesistenti o non dovuti – come del resto prevede la normativa vigente sui Testimone di Giustizia – perché riferiti al periodo in cui Angelo Niceta ed i suoi familiari si trovavano sotto protezione in località riservata su richiesta della Procura di Palermo, impossibilitati pertanto a svolgere attività lavorativa ed a risiedere nei luoghi d’origine.
Contestualmente competeva al Servizio Centrale di Protezione mettere in atto gli opportuni adempimenti perché fosse sospeso il pagamento di alcune imposte e dei contributi.
Una cartella che diviene paradossale nel momento i cui, potenzialmente, il Testimone di Giustizia e la sua famiglia, si troverebbero a rischiare di perdere l’abitazione in cui vivono.
A nostro avviso non è affatto normale che tutto ciò accada ad un Testimone di Giustizia, considerato sempre attendibilissimo dalla magistratura, le cui deposizioni sono ancora in essere in procedimenti penali.
Se ciò avviene, è chiaro, è perché la sua è una testimonianza scomoda.
Come ha spiegato l’avvocato Luigi Li Gotti (legale storico di pentiti come Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno, Giovanni Brusca, Francesco Marino Mannoia e Gaspare Mutolo), nell’intervista che ci ha rilasciato, contro i collaboratori di giustizia è in corso un attacco senza precedenti.
Tenuto conto dell’apporto fondamentale che i collaboratori di giustizia hanno dato per svelare fatti e misfatti del potere mafioso criminale, ma anche su quei rapporti con ambienti della politica, dell’imprenditoria, dell’economia, della finanza, delle massonerie deviate e con apparati deviati dello Stato, è evidente il perché si voglia “svilire” questo straordinario strumento di lotta al sistema criminale, fortemente voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
I sistemi di potere criminale ai quali aderiscono istituzioni deviate dello Stato (o meglio dovremmo dire dello Stato-mafia) sanno perfettamente che una delle armi più importanti per abbattere la mafia sono proprio i collaboratori di giustizia.
Senza di loro non avremmo mai saputo dell’esistenza di Cosa nostra o di tutte le altre organizzazioni criminali. Ma soprattutto non avremmo saputo nulla sui collegamenti con gli apparati del potere, né la verità su delitti eccellenti, stragi e mandanti esterni.
Oggi è in atto l’ultimo attacco alla lotta alla mafia, che nessun governo ha mai voluto inserire ai primi posti del proprio programma politico.
Un gioco al ribasso che nei fatti ricalca proprio i desiderata dei boss scritti nel famigerato “papello” di Totò Riina.
Il Capo dei capi aveva compreso che i magistrati avevano trovato un’arma risolutiva e aveva indicato nell’elenco delle richieste per interrompere l’attacco allo Stato, proprio l’abolizione della legislazione sui collaboratori.
Una promessa che ad anni di distanza viene mantenuta in maniera inquietante e drammatica nel silenzio più totale.
Così facendo vengono messi ulteriori ostacoli nella ricerca di quei mandanti e concorrenti esterni che hanno chiesto, voluto ed eseguito le stragi.
Impedendo, di fatto, anche future collaborazioni con la giustizia.
Un ridimensionamento passa anche attraverso delegittimazioni e vessazioni.
Un Governo serio agirebbe immediatamente seguendo alla lettera quei provvedimenti che il Procuratore capo di Prato Luca Tescaroli, nel libro “Pentiti. Storia, importanza e insidie del fenomeno dei collaboratori di giustizia” (ed. Rubbettino), indica come necessari per favorire nuove collaborazioni con la giustizia.
La speranza è che lo Stato si assuma le proprie responsabilità ponendo fine a questo che è divenuto uno stillicidio.
Se così non sarà, spetterà al popolo chiedere conto.
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