Giovanni Spinosa 28 Marzo 2025
La mattina del 5 gennaio 1991 due comunicati della Falange Armata interloquiscono per la prima volta sui delitti della Uno Bianca, rivendicando l’omicidio dei carabinieri Andrea Moneta, Mauro Mitilini e Otello Stefanini, uccisi la sera prima al quartiere Pilastro di Bologna. Quanto alle cause, dopo alcune incertezze iniziali, l’organizzazione si dice abbastanza forte e organizzata per ammettere che «è stato per errore, per casualità che sono stati colpiti tre carabinieri» (comunicato del 9 gennaio 1991), «l’uccisione di tre carabinieri di Bologna non era il nostro obiettivo politico» (10 gennaio 1991), «la nostra operazione contro i carabinieri di Bologna, avvenuta per casualità e non progettata politicamente» (11 gennaio 1991).
La casualità dell’eccidio è coerente con la ricostruzione dei periti di balistica dinamica e con le testimonianze di quanti avevano visto i carabinieri prima dei momenti fatali. Circa un quarto d’ora prima passano, senza alcuna fretta, davanti a un gruppo di ragazzi fermi dinanzi alla chiesa del quartiere; inoltre, un vigile del fuoco, rimasto a bordo del camion d’istituto mentre il resto della pattuglia interviene all’interno di un condominio, vede e descrive, pochi minuti prima dell’eccidio, il volto rilassato dell’autista e l’atteggiamento altrettanto rilassato del militare nel sedile posteriore.
La squadra dei vigili, prima di posizionarsi nel luogo dell’intervento, aveva visto, in un incrocio sito al centro del quartiere, alcune persone ferme vicino a una utilitaria di colore chiaro che aveva le luci di cortesia accese e altre due persone al suo interno. I carabinieri erano placidamente e casualmente diretti verso quel maledetto crocicchio; ci arrivano e … «ripetiamo operazione dei tre carabinieri di Bologna è stata casualità data contingenza e sicurezza di tutta organizzazione, così doveva essere» (comunicato del 12 gennaio 1991, ore 18.15).
Ci sono due modi diversi per avvolgere i fatti nella nebbia e nella confusione.
I fratelli Savi interpretano la modalità “terrapiattista” secondo cui avrebbero fatto tutto loro e tutto da soli; snocciolano un racconto indecente in cui non torna proprio nulla e, quanto al movente, ne indicano tre diversi, … lasciando all’interprete la libertà di scegliere quello che più gli aggrada!
Poi, ci sono le ricostruzioni piene di allusioni, luoghi comuni e entità mai definite, che chi ha sete di verità ascolta attentamente e, spesso, accredita come verità indimostrabili. Nel caso di specie, i carabinieri avrebbero dovuto stazionare dinanzi alle scuole Romagnoli, un luogo adibito a ricovero per cittadini extracomunitari che, il 20 settembre 1990, era stato assaltato con delle molotov da ragazzi del quartiere Pilastro. I carabinieri sarebbero stati distolti dalla vigilanza, attirati in un agguato da una chiamata e, quindi, barbaramente uccisi.
Anche a prescindere dal fatto che i carabinieri pattugliavano le strade del quartiere ben prima dell’eccidio, la chiamata non esiste. All’epoca i telefoni cellulari erano rarissimi e, certamente, non li avevano i carabinieri che vigilavano sulla sicurezza del quartiere. Né si può pensare a una chiamata radio della centrale operativa dell’Arma di cui non c’è alcuna traccia e, se ci fosse stata sarebbe stata ascoltata da tutti i carabinieri in servizio sulle tante autoradio operanti nella provincia di Bologna. L’avrebbero ascoltata anche altre forze di polizia, attente a eventuali situazioni di difficoltà dei “cugini”; l’avrebbero sentita, inoltre, i malviventi con i “baracchini” sintonizzati sulle frequenze dei carabinieri e, forse, anche qualche giornalista attento alla “notizia”.
Torniamo alla realtà. Una sentenza del Tribunale di Bologna ricorda come, dopo l’assalto alle scuole Romagnoli del 20 settembre 1990, fra gli extracomunitari «e i ragazzi del Pilastro […] era in atto una sorta di guerra con provocazioni reciproche». In questo clima s’inseriscono il ruolo politico di Franco Freda e quello operativo della Sezione Veneto della Falange Armata.
Nel settembre 1990, Freda non aveva ancora costituito il Fronte Nazionale, ma il giorno 13 di quel mese aveva scritto a Guy Amaudruz, «uno dei capi del Nouvel Ordre Européen che fu il primo organismo neofascista sovranazionale», per comunicare che, dall’inizio dell’anno, si stava attivando in diverse zone d’Italia per costituire un movimento politico «esplicitamente razzista». A tal proposito chiede al camerata un incontro esprimendosi con un sussiego e un rispetto anomali per la sua postura aristocratica, che la dicono lunga sull’importanza dell’interlocutore.
Il Fronte Nazionale viene costituito informalmente il 21 dicembre 1990, ma il sigillo del notaio che ufficializza la costituzione della nuova formazione politica arriva il 12 gennaio 1991. Alle ore 18.15 di quello stesso giorno c’è il comunicato che conclude le rivendicazioni dell’eccidio del Pilastro di cui abbiamo già detto. La parte iniziale è veramente curiosa; si disserta sulla differenza fra la nostra formazione e i Legionari della Guardia di Ferro di Codreanu, un leader ultranazionalista rumeno che aveva fondato una organizzazione antigiudaica e antibolscevica, tradizionalista e spiritualmente legata alla chiesa rumena-ortodossa.
Dopo aver preso le distanze dall’organizzazione fondata da Codreanu, il comunicato parla della «FALANGE che divenne vero partito politico, come noi (riferito alla nostra formazione) oggi proponiamo insurrezione militare nazionale». Lo spigoloso passato remoto (divenne) allude, presumibilmente, al comunicato del 27 ottobre 1990, atto con cui la Falange esce apertamente allo scoperto. Il come noi oggi, in contrapposizione al “divenne”, sembra, viceversa, un richiamo all’atto notarile che, nella stessa giornata, aveva formalizzato la nascita del Fronte Nazionale, trasformando l’organizzazione, costituita informalmente 22 giorni prima, in un vero partito politico.
Freda ha parlato più volte del quartiere Pilastro, conteso fra autoctoni e allogeni che sono i termini usati dal Fronte Nazionale e dalla Falange Armata per riferirsi agli abitanti tradizionali di una località (autoctoni) e agli immigrati (allogeni). Freda sostiene che «il fatto di minacciare l’identità futura della nostra razza e della nostra stirpe è un problema che riguarda tutti: al di là di ‘destra’ e ‘sinistra’. Non casualmente, infatti, noi ricevemmo delle manifestazioni di consenso da parte di ex partigiani o di ex comunisti residenti a Bologna (dove al ‘Pilastro’ il conflitto razziale assumeva connotati intensi e incisivi)». Non sfuggirà a nessuno che il conflitto razziale di cui parla Freda somiglia molto a quella sorta di guerra con provocazioni reciproche fra pilastrini ed extracomunitari di cui parla la sentenza bolognese.
È plausibile che il Fronte Nazionale abbia reagito alle manifestazioni di consenso di ex partigiani ed ex comunisti con pochi manifesti, perché era una organizzazione composta da poco più di quaranta persone dislocate in tutta Italia, da Catania e Lamezia a Varese o Padova. Infatti, un documento dell’organizzazione cita il Mein Kampf di A. Hitler per dire che: «il movimento politico deve essere composto soltanto da quelle persone che sono necessarie per occupare i posti di maggiore responsabilità dello stato futuro … non è necessario che il numero dei membri aumenti all’infinito». In realtà, a leggere i documenti del Fronte Nazionale, si capisce che al centro della sua attenzione non ci sono gli intellettuali, ma, piuttosto, i «ragazzi di strada», di cui l’organizzazione esalta lo spirito facinoroso; un pensiero che echeggia quello della Falange Armata, quando pone al centro della sua attenzione le periferie delle grandi città, le borgate.
Chi, viceversa, sembra avere nel proprio DNA una sensibilità operativa è la Falange Armata – Sezione Veneto, una meteora che appare all’improvviso nelle rivendicazioni dell’eccidio del Pilastro.
(Continua)