Le associazioni che ingrassano i professionisti dell’antimafia La denuncia del pm di Reggio Calabria Gratteri: «Non tutte utili, basta soldi». In sei anni bruciati 330 milioni della Ue Reggio Calabria Chi sceglie l’antimafia come professione ci guadagna. Leonardo Sciascia l’aveva previsto: per fare carriera e soldi, sosteneva lo scrittore siciliano, basta «usare l’antimafia come strumento di potere». Perché «ieri c’erano vantaggi a ignorare che la mafia esistesse. Oggi ci sono vantaggi a proclamare che esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi». Aveva ragione lui. Agli italiani appena rientrati dalle ferie lo ha ricordato dalle pagine del Qn Nicola Gratteri, procuratore aggiunto a Reggio Calabria: «Non si può fare dell’antimafia un mestiere. Invito politici ed enti locali a non erogare più denaro pubblico ad associazioni che nascono dal nulla». E non tanto per ragioni di spending review , quanto per spezzare il circolo vizioso che fa della lotta alle cosche un affare per «gente furba che si fa vedere vicino a magistrati e vittime di mafia ma che non ha mai prodotto nulla. Persone che ottengono legittimazione tenendo incontri nelle scuole». In Italia le associazioni antimafia iscritte nei registri di Comuni, Province e Regioni sono circa 2.000, cui si aggiungono – in numero minore – fondazioni e associazioni di promozione sociale. Le si riconosce dai nomi, che richiamano magistrati e servitori dello Stato uccisi col piombo. Tutte sono onlus, non tutte hanno le mani in pasta. Ma è innegabile che tra esse in molte – sempre di più – siano mosse dalla corsa al potere. E al soldo: solo col programma operativo nazionale «Sicurezza», finanziato dall’Unione Europea, tra il 2007 ed il 2013 Calabria, Campania, Sicilia e Puglia per favorire «la diffusione della legalità» hanno ricevuto 330 milioni di euro. In gran parte investiti nel settore dell’antimafia, per cose serie ma pure – anzi, soprattutto – per convegni, pubblicazioni, dibattiti. Ancora: nel primo semestre del 2015, attingendo al fondo istituito dal ministero dell’Interno in favore delle vittime dei reati di tipo mafioso, già più di 32 milioni sono andati ai privati cittadini (317 richieste) ed alle associazioni (ben 238 domande) costituitisi parte civile nei processi di mafia. Un fiume di denaro nel quale confluiscono mille altri rivoli ugualmente danarosi, che stimolano appetiti paradossalmente criminali. A Reggio, ha confermato Gratteri, «ci sono indagini in corso». Ma esistono già precedenti, anche clamorosi. Ad agosto, in riva allo Stretto, la Procura reggina ha indagato l’ex presidente del Museo della ‘ndrangheta, Claudio La Camera, accusato di aver speso i finanziamenti ricevuti dal museo (tra il 2007 ed il 2012 secondo la Guardia di finanza ha beneficiato da Regione e Provincia di 800.000 euro di contributi «per spese non attinenti») per acquistare un ipad, pinze per il bucato ed un pollo di gomma per il cane. Rosy Canale, per una breve stagione eroina anti ‘ndrangheta a San Luca, coi soldi della prefettura avrebbe acquistato una Fiat 500 ed una Smart. Adesso è sotto processo per peculato e truffa. E se nel 2014 aveva fatto scalpore la notizia degli accertamenti avviati a Napoli dalla Corte dei conti su 13 milioni attinti ai Pon e destinati solo ad alcune associazioni antiracket, lo scorso febbraio la Commissione parlamentare antimafia ha preso nota della presenza ad Ostia (il cui Municipio è stato sciolto per infiltrazioni mafiose) di «sedicenti associazioni antimafia con modalità operative simili, nei modi e nei comportamenti, a quelli di famiglie mafiose». E giù nomi, fatti e circostanze che poco aggiungono all’ormai svelato grande imbroglio dei professionisti dell’antimafia. È la cifra spesa nel 2015 per la costituzione di parte civile delle associazioni antimafia nei processi Sono le associazioni antimafia censite. Ben 1.600 aderiscono a Libera di don Luigi Ciotti
Nessuno ha aiutato Anatolij l’eroe: l’ucraino aveva disarmato il rapinatore ma è stato lasciato solo
dal nostro inviato CONCHITA SANNINO
1 settembre 2015
Le indagini sull’assassinio dell’immigrato nel supermarket del napoletano. Un video accusa
NOLA . Ritorno a Kolodiyvka. È lì che sarà sepolto, Anatolij. Lontano dalla ricompensa “al valor civile”, la cui pratica è stata subito istruita dai carabinieri, in mezzo alle mille attività di una gigantesca caccia all’indizio, ai sospettati, alle ricerche sui passaggi dello scooter rubato e usato per il colpo, una ricerca che si placherà solo nel giorno delle catture.
È in corso anche il tentativo di conferirgli la cittadinanza italiana, una strada più difficile come estremo riconoscimento al suo atto di eroismo. Ma Anatolij riposerà lontano, come aveva subito lasciato intendere questa famiglia rude di costituzione e piegata da un immenso dolore. Dall’inferno di quel market dell’entroterra vesuviano, dove ha combattuto da solo a mani nude contro due rapinatori nascosti dietro la viltà di una pistola e una maschera nera da Pulcinella, alla quiete del suo villaggio di collina, Livov, Ucraina. Clima freddo, terra di casa.
«E pensare che per due volte l’operaio ucraino ha provato a fermarli, ma sempre da solo», ragionano a voce alta gli inquirenti. Per due volte, sì. In due momenti diversi, quell’uomo straniero aveva provato a difendere la comunità che non era la sua patria. E anche quando è stato vicinissimo a disarmarli, i clienti presenti non hanno mosso un dito. Osservavano, forse impietriti. Basta scorrere fugacemente quelle immagini che Repubblica è in grado di raccontare, sequenza dopo sequenza.
Esterno sera, via Selva a Castello di Ci- sterna, ingresso del “market Piccolo”, decine di clienti. Anatolij sta uscendo con la sua spesa e la sua bimba di 17 mesi, e scorge subito quei due tipi con la maschera, quindi con pessime intenzioni, che invece puntano all’ingresso.
L’operaio si volta, incrocia non il primo bandito che entra armato, ma il secondo che ha una sacca sulle spalle. Non ci pensa due volte: lo afferra per la cinghia dello zainetto, lo tira via, ma quello svicola ed entrano. Anatolij a questo punto, com’è noto, lascia la sua piccola fuori, nel carrello, ed entra di nuovo.
E qui, individuato il balordo armato che già ha terrorizzato la prima cassiera, punta subito a lui. Gli va addosso, cerca con il gomito di bloccargli la mano, tutti e due finiscono a terra. È la colluttazione, attimi lunghissimi. Il complice, a questo punto, afferra una penna, una di quelle biro distrattamente lasciate accanto ai pos per ricevute, e comincia a picchiare sulla testa di Anatolij. Vuole fermarlo, ma gli provoca escoriazioni, gocce di sangue.
A questo punto, il bandito armato sta avendo la peggio e il complice sembra andarsene, sta per voltare le spalle, la rapina sembra fallita. Ed è questo il frammento dell’angosciante “film” a suscitare rabbia. E indignazione. Intorno ad Anatolij, vari testimoni: ma non intervengono, non fanno quel gesto che magari avrebbe messo in fuga i criminali.
Il bandito armato a quel punto forse urla. Forse è proprio lui a ordinare la feroce vendetta. Così il secondo torna sui suoi passi, afferra la pistola che Anatolij ha reso impotente, la impugna, e spara.
Due colpi. Uno alle gambe, l’altro alla milza. Poi si portano via il denaro che intanto le cassiere hanno messo fuori, volano alcune banconote, l’uomo che era armato si scrolla letteralmente di dosso Anatolij. Scappano sullo stesso scooter Sh che avevano parcheggiato fuori, e che daranno alle fiamme, poi trovato poi dai carabinieri nelle campagne di Brusciano. Intorno, da quel momento, è ancora caccia agli assassini. Senza sosta.
Centinaia tra nomi, volti e indirizzi passati al setaccio dai carabinieri guidati dal colonnello Luca Corbellotti e dal maggiore Michele D’Agosto. In campo le più avanzate tecnologie per elaborare al pc i pochissimi frammenti che, nel filmato dell’omicidio, sono visibili dei volti criminali. Una gigantesca macchina che serve (solo) alla comunità difesa da Anatolij. Per lui, per gli amici che lo aspettano in collina, ora c’è solo il ritorno a Kolodiyvka.