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La vergogna di uno Stato ingrato.Il “caso” del Testimone di Giustizia Salvatore Barbagallo:” Oggi combatto contro la fame ed il Tribunale di Vibo Valentia”.Ed il Prefetto di Vibo Valentia se ne frega.VERGOGNA,VERGOGNA,VERGOGNA,MILLE VOLTE VERGOGNA.

L’ODISSEA BUROCRATICA
Milano, 24 giugno 2015 – 07:26

L’imprenditore ridotto in povertà
per aver denunciato la ‘ndrangheta

Vibo Valentia, Salvatore Barbagallo denunciò i clan che gli chiedevano il pizzo all’anti-racket. Dopo 8 anni il processo non è ancora iniziato e lui vive con gli aiuti della Caritas

di Federico Fubini

Una foto di Salvatore Barbagallo, 65 anni, ex imprenditore

gio Salvatore Barbagallo, un ex imprenditore di 65 anni, si è steso sul selciato nel centro di Limbadi. Limbadi è un comune di 3.400 abitanti in provincia di Vibo Valentia, dove quel giorno era in visita la commissione parlamentare antimafia. Lì ha le sue basi uno dei clan più pericolosi d’Italia: i Mancuso. Le polizie di tutto il mondo li conoscono per i traffici di cocaina, e di recente il loro nome è emerso negli atti di Mafia Capitale.

Barbagallo è rimasto a terra pochi minuti, impedendo all’auto di Rosy Bindi di andarsene. Poi la presidente dell’antimafia è scesa, gli ha parlato un po’, gli ha lasciato il numero del suo ufficio, lo ha aiutato a rialzarsi. Ed è partita per l’aeroporto.

Non è la prima volta che Barbagallo agisce in modo imprevedibile. Il 3 marzo del 2007, quando era ancora titolare di un’impresa di trivellazioni, era entrato nella Questura di Vibo sapendo che da quel giorno la sua vita sarebbe cambiata. Ciò che non aveva previsto è che quel gesto si sarebbe trasformato in una lezione ben assimilata da quasi tutti gli altri imprenditori della provincia: in un sistema burocratico e giudiziario in crisi, denunciare il racket è come buttarsi da un aereo senza sapere se il paracadute che vi hanno dato si aprirà.

«Ero alla disperazione», dice oggi Barbagallo. Si riferisce a quando fece i nomi di una decina di esponenti dei Mancuso per una serie di reati ai suoi danni. Per anni lo avevano obbligato a scavare pozzi gratis sulle loro terre, quindi si sono impadroniti delle sue trivelle, infine avrebbero approfittato della bancarotta a cui l’aveva ridotto per sottrargli la casa in un’asta giudiziaria truccata.
Barbagallo è stato uno dei pochi imprenditori in questa parte d’Italia a parlare dell’oppressione che devasta l’economia, e lo ha fatto solo perché non sapeva più come conviverci. Da allora è in terra di nessuno. Non ha più l’azienda, lavora come badante, ma la sua richiesta di accedere all’indennizzo riservato agli imprenditori che denunciano il racket resta senza risposta. Dopo otto anni non ha né un sì, né un no. Ha scritto a uffici di ogni tipo e la procura antimafia lo convoca regolarmente a testimoniare contro la ‘ndrangheta. Lui va, ma per una serie di vizi di forma e rinvii, i processi per i reati ai suoi danni restano bloccati. La prescrizione incombe. «Oggi combatto contro la fame e contro il tribunale di Vibo Valentia», ha riassunto in una memoria al viceministro dell’Interno Filippo Bubbico.

L’ex imprenditore vive delle donazioni del Banco alimentare, di una parrocchia e della Caritas. Era così anche un anno fa ma, nota, l’aiuto si sarebbe intensificato dopo che al clero locale sarebbe arrivata un’email dagli uffici in risposta a una sua lettera a papa Francesco.
Non aveva previsto di arrivare a questo punto, perché il governo prevede da anni un sostegno per chi denuncia. Quando una dichiarazione fa scattare un’ipotesi di reato per estorsione, l’imprenditore ha diritto a un indennizzo dal Fondo del ministero dell’Interno per le vittime del racket e dell’usura, la cui contabilità mostra tuttavia che qualcosa non funziona: è una delle poche voci nel bilancio dello Stato in cui la disponibilità supera la spesa. Nel 2014 il fondo aveva 81,5 milioni di euro, ma ne ha impiegati 60,8 e di questi appena 10,9 per le vittime del racket. Ci sarebbe spazio per triplicare le denunce, e sarebbe logico: secondo il Censis, l’80% degli imprenditori in Italia trova che negli ultimi due anni l’estorsione sia aumentata.

I testimoni sottoposti a protezione sono 88, secondo le stime di questa primavera del ministero dell’Interno. Ma ormai sul lastrico, a volte scoprono che il ministero chiede loro di anticipare le spese del trasferimento verso una località sicura. Per gli indennizzi poi il percorso è anche più arduo: l’anno scorso le domande pendenti erano 692 (su decine di migliaia di casi di estorsione), quelle accolte 128. È giusto che lo Stato cerchi di prevenire le truffe, ma per farsi aiutare dal fondo anti-racket oggi un imprenditore deve attraversare un vero e proprio labirinto: la denuncia in Procura, la domanda in Prefettura, l’istruzione della pratica, la convocazione dei comitati per quantificare i danni, l’inoltro al commissariato anti-racket di Roma, la valutazione dell’istruttoria, la conferma delle somme, il rinvio alla società pubblica che gestisce i pagamenti (Consap), che a sua volta fa una nuova istruttoria sulla posizione finanziaria del denunciante. Per ogni nuova firma può servire un mese, e ne servono almeno nove. Anche senza intoppi, l’intera procedura dura più di un anno durante il quale l’imprenditore vive chiuso in casa, minacciato, senza reddito. Pochi osano.

A otto anni dalla denuncia di Barbagallo, i testimoni da lui indicati non sono ancora stati sentiti, i processi sono fermi, il reato di estorsione che innesca la domanda di indennizzo non è neanche stato ipotizzato. Lo citò una volta un magistrato, ma all’udienza successiva era già stato sostituito: il tribunale di Vibo è così cronicamente sotto organico che molti cercano di farsi trasferire al più presto e i rinvii d’ufficio si inseguono. I dati sul penale non sono disponibili, ma quelli sul civile parlano di un’emergenza: con una media di 1491 casi per magistrato, Vibo è fra i tribunali più intasati d’Italia e vi contribuisce la massa di piccole liti prodotte da una pletora di avvocati. L’Italia ha cinque volte più legali della Francia, Vibo il doppio della media nazionale per abitante.
Nella folla di 1.600 fra legali e praticanti, solo due si occupano di denunce degli imprenditori contro le mafie. «È una nicchia rimasta scoperta» dice Giacinto Inzillo, l’avvocato di 35 anni che assiste Barbagallo. Lui guadagna sugli indennizzi dei testimoni dunque, ammette, «soffro con loro». Dopo l’incontro di Limbadi Barbagallo ha scritto a Bindi, quindi l’antimafia avrebbe contattato il prefetto di Vibo. «Ma per ora – precisa Inzillo – non sappiamo altro».

24 giugno 2015 | 07:26
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