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Il Lazio nelle mani delle mafia e c’è ancora qualche colluso che dice il contrario

Il Lazio nelle mani della mafia… e la mafia non esiste
di Barbara D’Amico
04/12/2008

Sono tra noi, sono come noi. Lo spettro della criminalità organizzata di stampo mafioso è ormai una realtà radicata anche nel Lazio. Molto più di quanto le cronache riportino, almeno secondo i dati di un dossier stilato dall’associazione anti-mafia Libera Informazione e intitolato ironicamente “Mafia&Cicoria”. Quali sono le zone in cui le cosche sono penetrate di più? E quali i settori dell’imprenditoria che più di altri sono sotto il controllo di ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra? Alessio Magro, autore dell’inchiesta, prova a fare il punto: “cemento, alberghi, centri commerciali, appalti, ristorazione, rifiuti, ortofrutta e trasporti, usura e partecipazioni mafiose nelle imprese”, insomma il quadro che ne emerge è inquietante. Sempre in base a quanto si legge nel dossier, secondo Antonio Turri, investigatore e coordinatore di Libera Latina, “se è vero che le mafie sono delle holding finanziarie, infiltrate nelle amministrazioni e nella politica ai più alti livelli, se ciò è vero allora va da sé che puntino con forza su Roma e dintorni”. Ma a differenza di regioni come la Campania, la Basilicata, la Puglia, la Calabria e la Sicilia, nel Lazio “si ricicla molto di più, ci si fa notare molto meno”. Eppure c’è chi, denunciando un eccessivo allarmismo, ritiene il fenomeno non così dilagante. Negare che il centro Italia sia nelle mani della criminalità organizzata è un modo per sminuire la gravità delle incursioni mafiose e sperare che la fiducia nelle istituzioni non cali. “Nel Lazio”, scrive Magro, “la parola mafia troppo spesso non si può usare, come ai tempi dell’onorata società”. E i fatti smentiscono l’eccessivo riduzionismo.

Le infiltrazioni criminali iniziano copiose negli anni Ottanta, quando l’inasprimento dei processi contro le associazioni mafiose consente di applicare in modo massiccio la misura detentiva del “soggiorno coatto” – già adottata contro la mafia a partire dal 1965 – anche agli affiliati delle cosche. La deportazione dei condannati sulla base dell’articolo 416-bis del codice penale in comuni diversi da quelli di nascita o residenza significa spostare, sradicare, un affiliato dal suo contesto – il Sud – per confinarlo al centro-nord. Ma il risultato perverso è quello di consentire alla mafia di tessere rapporti anche nei nuovi luoghi di detenzione. Un cancro che si estende a macchia d’olio, nello spazio e nel tempo. Secondo Magro, “nel 2005 i procedimenti avviati dalla Dda (direzione distrettuale antimafia nrd) di Roma sono stati 204 (droga, tratta e associazione mafiosa), più che a Reggio Calabria (189). Il Lazio è secondo solo alla Sicilia. Le cifre della Direzione nazionale antimafia (relazione annuale luglio 2006/giugno 2007) confermano la tendenza: a Roma sono 143 i fascicoli aperti dall’antimafia, inferiori alle sole procure del Sud e alla Dda di Milano”. Ma non è tutto. E’ il Basso Lazio (Latina e dintorni) a registrare il radicamento più importante da parte di cosche mafiose affiliate a clan dell’ndrangheta napoletana. Da questi luoghi è scomparso un sorvegliato speciale, Rosario Cunto, il quale, accusato dell’omicidio di un membro della famiglia Mendico nel 1978, svanisce nel nulla nel 1990. La pista della scomparsa porta ad Ettore Mendico, nipote della vittima di Cunto, ritenuto dagli inquirenti responsabile della volatilizzazione del sorvegliato speciale. Una vera e propria faida che ha come epilogo lo sconcertante rifiuto da parte della famiglia Cunto di denunciare la scomparsa di Rosario.

Per Magro la ragione di un simile comportamento risiederebbe nelle pressioni e nelle minacce perpetrate dal Gruppo Mendico, gruppo affiliato al temibile clan dei Casalesi, nei confronti della famiglia Cunto. Segno di un potere sempre maggiore dell’organizzazione criminale nella zona. Risalendo la costa laziale nemmeno le porte di Roma sembrano salvarsi dalle incursioni malavitose. Nell’aprile 2006 il Comune di Nettuno, a 60 chilometri dalla capitale, veniva sciolto dal Parlamento per presunte infiltrazioni mafiose. Le indagini relative al commissariamento sono ancora in corso, ma gli elementi fin’ora emersi hanno costituito indizi idonei per il rinvio a giudizio di alcuni indagati in processi paralleli – stando a quanto dichiarato dai legali difensori dello Studio Legale D’Amico degli imputati in tali giudizi. Il commissariamento ha funto da vero e proprio vaso di pandora. E se ancora non consente di chiarire se vi siano state effettive infiltrazioni mafiose, getta dubbio sull’impermeabilità delle istituzioni locali del Lazio. Gli elementi indiziari più gravi sono quelli relativi ai contatti, emersi tramite intercettazione, di un (forse) esponente della ex banda della Magliana con gli allora vertici politici del comune nettunese. Indizi che avrebbero portato alla scoperta di un ufficio tecnico interno all’ente pubblico con compiti di smistamento e assegnazione di appalti a fronte di tangenti. Insomma, una vera e propria infiltrazione ad hoc per colpire il settore delle gare d’appalto, uno dei più ricchi e vulnerabili. Si dovrà attendere l’esito delle indagini e quello dei processi di primo grado già iniziati per poter avere in mano dati concreti, ma l’atmosfera è tutt’altro che serena.