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CASO MARRAZZO – TRANS, CLAN E ROS

Anche nel caso Marrazzo, proprio come era avvenuto nei mesi precedenti per il Noemi-gate, al di la’ del clamore gossipparo si nasconderebbe ben altro, con la storia dei quattro carabinieri pronti a vendersi per pochi soldi che comincia a fare acqua da tutte le parti. Ricostruiamo per la prima volta il dietro le quinte piu’ inquietante. Che potrebbe condurre fino a Servizi e Casalesi.

La domanda, in fondo, e’ semplice. Eppure nessuno, finora, se l’era posta: perche’ mai quattro carabinieri, almeno due dei quali con un curriculum di tutto rispetto all’interno dell’Arma, dovevano cacciarsi in un affare sporco da piccoli e maldestri ricattatori, con tanto di confessioni platealmente rilasciate e poi ritrattate, ricostruzioni pasticciate e, soprattutto, senza avere mai effettivamente incassato nemmeno un euro dal presunto ricatto?
Il caso e’ lo scandalo dell’ex governatore del Lazio Piero Marrazzo, habitue’ di numerosi transessuali e pusher nella zona di via Gradoli, nonche’ cocainomane confesso. I quattro carabinieri sono il maresciallo capo Nicola Testini di Adelfia (Bari), il brindisino Carlo Tagliente, Luciano Simeone di Napoli ed Antonio Tamburrino di Parete (Caserta).
«Per chiunque abbia un minimo di conoscenza degli ambienti investigativi – taglia subito corto un esperto di intelligence – la questione dei quattro carabinieri, definiti “mele marce” (anche dal loro superiore, il generale Vittorio Tomasone, ndr) appare quanto meno incredibile. Ma basta anche il semplice buon senso: a che scopo rischiare la galera e la fine della carriera per una somma come quella emersa dalle indagini, al massimo di 50 mila euro, che divisa in quattro non avrebbe consentito neppure di acquistare un’utilitaria a testa?».
Ma le stranezze, su quei militari in servizio alla stazione Trionfale di Roma, non finiscono qui. Passato l’effetto shock dei primi giorni, a distanza di un mese dallo scoppio della vicenda qualcuno comincia a domandarsi perche’ siamo stati fin qui subissati di immagini dei trans in tutte le pose, di Marrazzo in mutande e degli avvocati, ma mai neppure una foto e’ trapelata dei quattro, contrariamente a quanto avviene in qualsiasi servizio di cronaca giudiziaria, con gli inquirenti che rilasciano immagini segnaletiche delle persone finite in manette, anche se sono finanzieri, poliziotti o carabinieri in servizio. Accadde, per esempio, quando finirono sotto accusa i carabinieri che causarono la morte di Carlo Giuliani. Il primo ad essere sbattuto sotto i riflettori fu proprio lui, il giovanissimo Mario Placanica, che verra’ poi riconosciuto – e scagionato – come autore materiale del delitto. Un fantasma, quello di Genova, forse non poi cosi’ lontano da questa storia. E vedremo perche’.
Torniamo ai quattro militari di Roma. Cosa giustifica tanta riservatezza sui loro volti? Viene in qualche modo riconosciuta ai quattro una sorta di “protezione” magari perche’ qualcuno, dall’alto, si e’ servito di loro?
A questi interrogativi si aggiunge l’appello accorato di Maria Rosa Valletti. Di professione e’ avvocato, la moglie del maresciallo Testini, impegnata anche in politica come consigliere comunale del Pd ad Adelfia e componente del Nucleo di valutazione dell’Asl di Bari. Una reputazione specchiata, la sua, non meno di quella del marito, famiglia di carabinieri, a cominciare dal padre. Mai una macchia. «Ci sara’ un giorno in cui potro’ gridare l’innocenza di mio marito – dichiara fin dal primo momento – e quel giorno arrivera’, perche’ mio marito e’ innocente». «Di piu’ – aggiunge il 28 ottobre – non voglio e non posso dire, perche’ ho una vita e una famiglia da proteggere in questo momento».
Sara’ l’unico ad essere rimesso in liberta’ dal Riesame, il maresciallo Testini, lo scorso 11 novembre. Resta a Regina Coeli Tagliente, a Rebibbia Simeone; va ai domiciliari nella casa di famiglia a Parete, in provincia di Caserta, Antonio Tamburrino. Due settimane dopo, Maria Rosa Valletti risponde al telefono con voce cortese, come sempre, ma ferma: «abbiamo scelto di non rilasciare dichiarazioni per non turbare il corso delle indagini – dice – ma mi fa piacere che si comincino a ricostruire con maggiore chiarezza i contorni di questa vicenda. Scrivetelo: mio marito ed anche i suoi colleghi arrestati hanno una storia limpida. Mi dispiace per i due che sono rimasti in carcere, non c’e’ giorno che io non pensi a loro».
Le incongruenze si fanno sempre piu’ macroscopiche. E dalla cappa di fumo – anche quello che ha avvolto per sempre il corpo di Brenda, il trans “che sapeva troppo” – cominciano ad emergere i contorni di una gigantesca macchinazione, di cui i quattro esponenti dell’Arma potrebbero risultare solo le pedine mandate in avanscoperta, loro malgrado, per obbedire ad ordini superiori.
Bruno Von Arx ha la fama di essere – a Napoli, ma non solo – fra i penalisti piu’ stimati. I suoi clienti non sono quasi mai persone qualsiasi. Attualmente nell’intricato caso giudiziario Global Service che ha travolto Alfredo Romeo e una ventina di altri indagati, Von Arx segue personalmente la difesa dell’imprenditore partenopeo. E nel non meno clamoroso ciclone che coinvolge Clemente e Sandra Mastella, e’ sempre Bruno Von Arx ad aver assunto la difesa di un protagonista, il numero uno Arpac Luciano Capobianco.
«Ma quali “mele marce” – esordisce il penalista dal suo studio di Santa Lucia – qui sono state fatte ricostruzioni del tutto inverosimili. Per le accuse che sostengono a tutt’oggi la custodia cautelare del mio assistito Luciano Simeone, vale a dire i reati che sarebbero stati commessi durante l’irruzione in via Gradoli, c’e’ solo la parola di Marrazzo contro la sua, manca qualsiasi altro riscontro oggettivo». Ad avvalorare il ragionamento di Von Arx c’e’ almeno una circostanza: il giovane carabiniere Simeone si era finora distinto per una carriera lineare, in cui brillava per giunta il solenne encomio ricevuto per i soccorsi prestati durante il terremoto di San Giuliano di Puglia. Una famiglia della Napoli piccolo borghese, la sua: lavoratori, mai problemi con la giustizia e, anzi, oltre al figlio carabiniere, un altro nella polizia di Stato.
Perche’, allora, andarsi a cacciare in una brutta storia di droga, trans, filmini hard e ricatti, che anche agli occhi di un pivello sarebbe apparsa subito per quello che era, una trappola mortale? E perche’ farlo per i quattro soldi che si potevano ricavare piazzando il filmino dopo le lunghe e defatiganti (oltre che ancor piu’ rischiose, come si evince dalla ricostruzione della vicenda) ricerche dell’acquirente? Lo stesso fatto che tardi ad arrivare – e che, anzi, non arrivi per nulla – quell’acquirente, e’ un particolare eloquente per chi conosce l’ambiente dei paparazzi. «Quel filmato, che normalmente sarebbe andato a ruba – prova ad azzardare la spiegazione un anziano fotografo, con lunga esperienza negli scatti segreti ai vip – doveva in realta’ servire a far scoppiare il caso giudiziario. E non certo a finire sui giornali. Tanto e’ vero che nessuno lo ha comprato».
Uno scenario che va guardato, insomma, dietro le quinte. E ricorda in qualche modo la regia occulta tante volte evocata per i fatti di Genova (benche’ la morte di un ragazzo colpito da un proiettile d’ordinanza alla fronte e schiacciato sotto un defender dei carabinieri, non abbia mai meritato neppure l’approfondimento di un processo). A distanza di otto anni e passa, sembra che a pagare sia stato – oltre a Carlo – solo lui, il “Placanica di turno”, che di tanto in tanto torna alle cronache, come nei giorni scorsi, per i brutti scherzi (ora e’ accusato di molestie ad una bambina) che gli fa la sua mente. E tutto da quel maledetto giorno quando – stando ai riscontri fotografici – al giovanissimo in divisa qualcuno, molto in alto, ordino’ di confessare che si’, a sparare era stato proprio lui. E non quel suo superiore di elevato grado che si intravede nella sequenza di quei tragici momenti.

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Torniamo a Roma. A quella colossale “macchina da guerra” della quale, pur con qualche cautela, parla anche Von Arx alla Voce: «Si continua a fare una distinzione semplicistica, in questo caso, fra “buoni” e “cattivi”. Ma le cose sono ben piu’ complesse…». Complesse magari al punto da lasciar ipotizzare, con una buona sequenza di riscontri, una macchinazione ordita forse all’interno della stessa Arma, coi quattro carabinieri costretti in qualche modo ad obbedire? «La nostra professione – risponde Von Arx – ci obbliga a stare alle carte. Dalle quali, ovviamente, uno scenario simile non emerge. Ma se c’e’ stata una macchinazione, guardi, mio parere e’ partita da ambienti ben piu’ in alto dell’Arma dei Carabinieri…».
Ci siamo arrivati. Eccoci a un passo da quei servizi segreti che, in casi giudiziari come questo, aleggiano dietro ogni particolare della vicenda. Dalle trattative Stato-Mafia che emergono oggi sulla cattura di Toto’ Riina (con i magistrati di Palermo che solo ora si presentano dinanzi a Gianni De Gennaro chiedendo di “aprire gli archivi” del Sisde) fino a vicende come il rapimento di Abu Omar (su cui si comincia a far chiarezza), vengono alla luce manovre sempre piu’ torbide e pervasive, spesso ordite con lo scopo di coprire altre vicende o depistare le indagini e l’opinione pubblica.
Ma chi aveva interesse a tendere quella trama di finti ricatti – e ancor piu’ risibili tentativi di ricettazione – che si addebitano ai carabinieri della Trionfale? Quali sono, in questa vicenda, le vere poste in gioco?
Proviamo a guardare il contesto istituzionale dentro cui maturano i fatti. E partiamo dall’ex comandante del Ros e generale del Sisde Mario Mori, da oltre un anno al fianco del sindaco Gianni Alemanno in qualita’ di consulente per la sicurezza urbana. Alemanno aveva voluto accanto a se’, nel giugno 2008, proprio Mori che in quel periodo, insieme al colonnello Mauro Obinu, era stato rinviato a giudizio con l’accusa di favoreggiamento nei confronti del capo di Cosa Nostra Bernando Provenzano (di mezzo c’e’ il mancato blitz nel casale di Mezzojuso, che fin dal ‘95 avrebbe potuto portare all’arresto del super latitante).
Chi insomma, meglio del generale, per occuparsi di “sicurezza urbana” nella capitale? Tra mille polemiche interne alla maggioranza – e fra un’udienza e l’altra del processo, che e’ in pieno svolgimento – nel corso degli ultimi mesi Mori si doveva occupare, come prevede il suo mandato da circa 100 mila euro l’anno, di questioni quali il “censimento di case e casali abbandonati” nel perimetro urbano. Vale a dire proprio i classici luoghi di spaccio, abitualmente frequentati da pusher e trans. Addirittura avrebbe potuto monitorare, attraverso la “Sala Sistema Roma”, in diretta video dalle telecamere sparse lungo la citta’, ogni movimento del torbido sottobosco venuto alla ribalta col caso Marrazzo. Al punto che il Capitano Ultimo, al secolo Sergio Di Caprio, prontamente chiamato da Mori accanto a se’ nel nuovo incarico romano, aveva dichiarato: «a lui mi lega una lunga storia umana e professionale di lotta al crimine». «Stavolta pero’ – commentava la cronista di Repubblica – niente piu’ boss: solo rom e prostitute».
Ha scoperto qualcosa, il generale Mori, sul turbinoso giro di transessuali e coca nel quale e’ stato per anni coinvolto Marrazzo? E il generale Giampaolo Ganzer? Ne vogliamo parlare? Ci dice nulla il fatto che ai vertici del Ros, come successore di Mori, resista Ganzer, l’ufficiale anhe lui sotto processo, a Milano, per reati degni di un boss come riciclaggio di denaro, commercio di stupefacenti, oltre al mancato arresto di pericolosi latitanti? Secondo il gip milanese Andrea Pellegrino, che ne aveva disposto il rinvio a giudizio, Ganzer ed altri “fidati” uomini del Ros (un capitano, sette sottufficiali e un appuntato), «prendevano in carico lo stupefacente anche per lunghi periodi, talvolta lasciandolo nella disponibilita’ dei trafficanti»; tra il ‘96 e il ‘97 provvedevano «all’installazione di laboratori per la raffinazione e alla ricerca degli acquirenti, istigandoli all’acquisto». Autentiche messinscena, sporche macchinazioni che, qualora le accuse risultassero provate, potrebbero gettare oggi una luce sinistra anche sulla ricostruzione ufficiale del caso Marrazzo.
Se Ganzer, Mori, il Ros o i Servizi abbiano avuto un ruolo in questa vicenda, o se, al contrario, pur essendo in vetta a cotanti apparati investigativi, nulla sapessero dei traffici di cocaina nel giro dei trans della capitale, sono al momento solo ipotesi.
Fatto sta che, secondo quanto emerge oggi dalle indagini di Palermo, personalita’ di spicco del Ros non esitarono negli anni ‘90 a trattare con Cosa Nostra. Mentre finora i rapporti con le cosche campane erano si erano limitati – da quel che e’ dato sapere – a frange isolate di carabinieri infedeli. Finora. Perche’ non si puo’ escludere – anche alla luce della vicenda Marrazzo – che nel frattempo, grazie alle coperture politiche giuste, i Casalesi abbiano fatto, nei rapporti col apparati deviati del Ros, l’ennesimo, l’ultimo, salto di qualita’.
E allora, a chi poteva servire che divampasse questo caso giudiziario nei modi in cui e’ avvenuto, con preparativi intrapresi gia’ in primavera e ben due morti (oltre al trans Brenda, anche il confidente dei carabinieri Gianguarino Cafasso) lasciati sul campo con la bocca tappata per sempre?

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Degli oltre settemila milioni di euro che rappresentano il giro d’affari della camorra sui soli traffici di stupefacenti, buona parte provengono dal Lazio e soprattutto dalla capitale, epicentro di smercio della cocaina grazie alla massicci concentrazione di facoltosi clienti. Il giro d’affari della sola polvere bianca sfiora nella capitale i 250 milioni di euro l’anno. E a contendersi il “favoloso” mercato – del quale il mondo trans rappresenta l’ideale piazza di smercio – sono le diverse mafie operanti ormai stabilmente nella citta’ eterna. Con le compagini di Casal di Principe a fare, sin qui, la parte del leone. Come dimostrano, da ultime, inchieste giudiziarie che hanno portato alla richiesta di scioglimento del comune di Fondi per infiltrazioni della malavita organizzata campana.
Magari qualcuno stava provando a sfidare i clan sul loro stesso terreno. Magari i Casalesi dall’avamposto dell’area pontina – dove e’ “latitante” da oltre quindici anni Antonio Iovine, nipote di quel Mario che proprio in Brasile ammazzo’ nel 1988 il boss rivale Antonio Bardellino – rischiavano di perdere quel ruolo di monopolisti che ha contribuito a trasformare il loro potere economico in una holding capace di orientare perfino taluni assetti della politica e del governo del Paese.
Di sicuro, ora quel “qualcuno” stara’ piu’ attento. I trans brasiliani sono avvertiti: cambiare “fornitori” di coca o diventare confidenti della polizia costa caro. In primis perche’ qualcuno squarcia l’alone di riservatezza che deve circondare i clienti vip, i piu’ facoltosi. E poi perche’ si rischia di fare una brutta fine. Come e’ accaduto a Brenda e a Gianguarino. Ma questa, forse, e’ ancora un’altra storia.

(Tratto da La Voce delle Voci)