Cerca

Camalli bianchi: portuali corrotti e fiumi di coca a Gioia Tauro

di Francesco Altomonte

Coordinamento editoriale: De Girolamo, Rende, Serra

Video editing: Vallone

Il carrello si muove nel grande piazzale portuale illuminato a chiazze dai lampioni, passa tra gli alti corridoi formati dai box e si ferma al centro. Il portellone del container si apre e dall’interno scendono alcuni uomini che si muovono in maniera frenetica. Un lungo piano sequenza, nel quale gli attori sono camalli, un manipolo di portuali infedeli immortalati mentre predispongono il campo per l’estrazione dell’ennesimo carico di cocaina arrivato al porto di Gioia Tauro.

Dietro alle videocamere installate nel grande scalo portuale calabrese ci sono gli uomini della guardia di finanza che stanno conducendo una delle inchieste sul narcotraffico internazionale più importanti degli ultimi anni. Il centro nevralgico dell’inchiesta è proprio il porto di Gioia Tauro e il filo conduttore sono i numerosi sequestri di cocaina che si sono susseguiti nei mesi precedenti: 4 tonnellate intercettate nel corso dell’inchiesta.

Secondo quanto ricostruito nel corso delle investigazioni, la droga arrivava nel grande porto calabrese sulle navi cargo dall’America latina.

L’organizzazione, secondo gli investigatori delle Fiamme gialle e gli inquirenti della Dda di Reggio Calabria, si rapportava «con la squadra di portuali addetti alla materiale esfiltrazione della sostanza, informandola dell’arrivo del narcotico al porto di Gioia Tauro, indicando i container sui quali veniva trasportato lo stupefacente, individuando i container sui quali trasportarlo fuori dall’area portuale, coordinando le attività per organizzare al meglio l’esfiltrazione e la fuoriuscita del narcotico e provvedendo alla successiva redistribuzione dei soggetti che avevano operato l’attività».

Un’accusa, quella formulata dalla procura antimafia di Reggio Calabria che è aggravata dall’agevolazione alle cosche di ‘ndrangheta, registe delle operazioni.

Operazioni che sono state monitorate per lungo tempo dagli uomini della Gdf che da una parte hanno continuato ad assicurare un costante lavoro di monitoraggio e contrasto all’interno del porto, dall’altro hanno controllato gli indagati fino alla conclusione dell’inchiesta.

È ancora buio quando il 6 ottobre 2022 le sirene delle auto delle Fiamme gialle illuminano la notte nella Piana di Gioia Tauro. Scatta l’operazione e 36 presunti narcotrafficanti vengono arrestati.

Il narcotraffico è il business più ricco e al contempo più letale del pianeta. Solo la ‘ndrangheta, attraverso il la cocaina, introita fino a 50 miliardi di euro all’anno. L’oro bianco è, di fatto, la principale fonte di ricchezza dei clan, i cui proventi vengono quindi riciclati alimentando i tesori di un impero criminale che ha raggiunto 57 paesi nel mondo e tutti e cinque i continenti.

Made in ‘Ndrangheta: dalla jungla sudamericana ai nasi europei

Ma come funziona il narcotraffico? Dove e come si produce la cocaina, come arriva in Europa, come funzionano le trattative tra i signori della droga i broker calabresi e, infine, come finisce nelle piazze dello spaccio? La cocaina importata dai broker e dalle grandi famiglie della ‘ndrangheta, ormai principale interlocutrice dei Signori della droga Sud Americani, dove e, soprattutto, come viene prodotta?

Bisogna andare dall’altra parte del mondo, nella parte più inaccessibile della selva colombiana, per esempio, dove sorgono i laboratori clandestini raggiungibili solo in barca e gestiti dai “cocineros”. Qui si produce la pasta base della cocaina, il primo anello della catena del narcotraffico: 125 chili di foglie per un chilo di cocaina grezza. Vengono triturate le foglie, poi si aggiunge cemento e soda caustica. Si aggiungono benzina e acido solforico.

La mistura viene poi filtrata, la cocaina grezza passerà quindi a un altro laboratorio gestito dai narcos prima di arrivare nelle narici di milioni di persone.

Un chilo di cocaina pura al 90-95%, costa tra i 40.000 ed i 50.000 euro. Ma quella cocaina andrà tagliata, ovvero, semplificando, mescolata e così diluita con altre sostanze. Può essere tagliata con ad esempio con la Lidocaina, ovvero un anestetico per uso medico; il Levamisolo, un antiparassitario per cani; la Pectina, un gelificante alimentare; ma in alcuni casi vengono perfino usati calce e gesso.

Da un chilo di cocaina pura se ne ricavano quattro chili e mezzo di cocaina tagliata, che sarà divisa in dosi da un grammo che all’assuntore finale costeranno 50 euro ciascuna.
In pratica da quattro chili e mezzo di cocaina tagliata, le famiglie della ‘ndrangheta arrivano a ricavare fino a 225.000 euro. Ma per questo panetto da un chilo era costato, si fa per dire, 50.000 euro. I clan della ‘ndrangheta, però, non si scomodano certo per un chilo, ma dal Sud America importano tonnellate.

Da una conversazione telefonica intercettata dagli investigatori, su un grosso carico di droga che sembra sparito nel nulla, si può cogliere appieno che immenso giro di denaro ci sia dietro il narcotraffico e che personaggi lo alimentino. Ottomila chili spariti. Che fine hanno fatto?

I cartelli colombiani hanno teso un tranello oppure quella partita è stata sequestrata dalla Guardia di finanza che ha tenuto la notizia riservata scatenando così il panico tra i narcos e i partner calabresi. Ottomila chili di cocaina pura: roba da 400.000.000 di euro, che tagliata e immessa sul mercato dello spaccio quadruplicherebbe il suo valore. Questo è l’impero del narcotraffico.

Il cacciatore di narcotrafficanti

Salvatore Curcio, procuratore capo di Lamezia Terme, è uno dei più importanti conoscitori del narcotraffico in ambito internazionale. Anzi, quando era sostituto procuratore antimafia di Catanzaro è stato tra i più importanti cacciatori di narcotrafficanti al mondo: al suo ingegno si deve una delle operazioni antidroga di tutti i tempi, Decollo, nella quale per la prima volta fu utilizzato un infiltrato civile per scompaginare una rete criminale transnazionale, Bruno Fuduli.

I broker a cui dava la caccia: Natale Scali o Vincenzo Barbieri, nell’epoca di Bebé Pannunzi o Rocco Morabito detto il Tamunga, oggi di fatto hanno ceduto il passo ai nuovi broker. Gente, per esempio, come i fratelli Costantino, in affari con gli eredi del più potente e pericoloso signore della droga nella storia: Pablo Escobar Gaviria.

Da spia a narcos: la storia di Bruno Fuduli

Quando, nel 2018, Bruno Fuduli prova a riavvicinarsi ai carabinieri del Ros per raccontare le trasformazioni nel mercato della cocaina a livello globale, la sua vita assomiglia già a quella del protagonista di un romanzo.

Primo infiltrato civile della storia della lotta ai narcos, Fuduli ha aiutato gli inquirenti italiani a portare a termine una delle operazioni di polizia – l’indagine Decollo coordinata dalla distrettuale antimafia di Catanzaro – più importanti della storia. Sua l’azienda di marmi che veniva utilizzata dai clan calabresi per trasportare nel porto di Gioia Tauro tonnellate di cocaina nascoste all’interno delle pietre, ma in realtà era il Cavallo di Troia usato dai carabinieri per porre fine al fiume di cocaina che attraverso lo scalo calabrese inondava l’Europa.

Fuduli prese sul serio il personaggio che stava interpretando, tanto che qualche anno più tardi passerà tra le file dei cattivi. Arrestato nel 2010 e condannato in primo grado per traffico di droga nell’ambito dell’operazione Overloading, nel 2018 riallacciò i contatti con gli inquirenti a cui raccontò le trasformazioni e le evoluzioni del mercato della cocaina. Al centro del discorso ci sono i broker dei clan, che raccolgono il denaro necessario alle operazioni, e i percorsi che si devono seguire per portare la polvere bianca dai tre paesi produttori (Colombia, Bolivia e Perù) ai mercati di vendita in Usa, Europa e Australia. 

La cocaina non conosce lockdown: i 500 chili sequestrati in piena pandemia

I controlli negli scali portuali sono importanti, ma lo sono anche le indagini sul territorio da parte delle forze di polizia. Negli ultimi anni diverse inchieste hanno dimostrato, anche grazie a sequestri record, che il lavoro di repressione è fondamentale nel contrasto al narcotraffico. Emblematico, in questo senso, è il maxisequestro di più di 500 chili di cocaina effettuato a Gioia Tauro in piena pandemia, che portò all’arresto del giovanissimo Rocco Molè. Operazione che era parte di una delle inchieste più importanti della procura antimafia in territorio Reggino negli ultimi anni.

La prima volta che Rocco Molè finì nei radar dell’antimafia era ancora minorenne, mentre suo fratello Antonio, di pochi anni più grande, già si trovava in già carcere. Entrambi sono figli del mammasantissima Mommo Molè, ergastolano e capo indiscusso del potente clan della città del porto.

Quando la mattina del 25 marzo 2020 gli uomini della polizia fecero irruzione nella masseria di famiglia in contrada Sovereto a Gioia Tauro, nessuno tra gli inquirenti si era meravigliato di trovare in un buco sottoterra più di 500 chili di cocaina.

L’operazione fu denominata Nuova Narcos europea e cristallizzò i nuovi metodi usati dai narcotrafficanti legati alla ‘ndrangheta per riuscire a importare dal Sud America quantità sempre più grandi cocaina con il minor rischio possibile. Palombari furono assoldati per recuperare la droga in alto mare, mentre alcuni chimici erano stati fatti arrivare direttamente da Perù per lavorare la polvere bianca a Gioia Tauro. Uno dei registi di quell’operazione sarebbe stato proprio Rocco Molè.

A Gioia Tauro aveva creato un laboratorio chimico con l’obiettivo di tagliare la cocaina grazie a mani esperte, dopo che i palombari avevano recuperato il carico in mare.
La cocaina sequestrata nella sua masseria, però, era arrivata in Calabria con il metodo tradizionale: lo stupefacente, secondo quanto emerso dalle indagini, era giunto qualche giorno prima al porto di Gioia Tauro dentro un container e poi fatto uscire dallo scalo da operatori infedeli. 

Fonte:https://www.lacnews24.it/longform/narcotraffico-longform-cocaina-porto-gioia-tauro-finanza_169846/