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Villalba, l’agguato contro Girolamo Li Causi

Villalba, l’agguato contro Girolamo Li Causi

di Dino Paternostro

Quando, il 10 agosto 1944, Girolamo Li Causi arrivò a Palermo, era già un autorevole dirigente del Partito Comunista Italiano. L’autorevolezza se l’era conquistata sul campo, contribuendo alla fondazione del partito e svolgendo un’intensa attività antifascista, “certificata” dal Tribunale speciale del regime, che l’aveva condannato a venti anni di carcere. Liberato dopo la caduta del fascismo, divenne uno dei più importanti capi partigiani.

Il suo “sbarco” a Palermo era stato deciso dalla direzione nazionale del Pci per rafforzare il partito siciliano, dandogli una guida forte ed autorevole, che gli consentisse di affrontare al meglio quel difficilissimo dopoguerra. Li Causi, infatti, era siciliano, originario di Termini Imerese, e conosceva bene i drammatici problemi dell’isola, molti dei quali legati ad una questione agraria, che da secoli determinava fortissimi squilibri politico-sociali. E la seconda guerra mondiale, con i suoi morti e le sue macerie, li aveva aggravati ancora di più, provocando forti malesseri tra i ceti popolari sia nelle città sia nelle campagne. Il compito che gli aveva affidato la Direzione del suo partito non era, dunque, facile. E i fatti di Villalba, in provincia di Caltanissetta, l’avrebbero presto confermato.

Li Causi volle andare in questo paese della Sicilia interna il 16 settembre 1944 per tenervi un comizio. Villalba, però, non era un Comune come gli altri, ma “la patria” del potente capomafia don Calogero Vizzini. Arrivato in piazza Duomo, dove avrebbe dovuto parlare ai contadini, la trovò quasi vuota e presidiata da mafiosi appoggiati ai muri o raggruppati davanti la sezione della Democrazia Cristiana, il cui segretario era Beniamino Farina, sindaco del paese e nipote di “don” Calò. L’anziano capomafia fece sapere che Li Causi poteva benissimo tenere il suo comizio, «purché non si toccassero gli argomenti della terra, del feudo e della mafia, purché, soprattutto, nessuno dei contadini venisse in piazza ad ascoltarlo». E, per verificare che il leader comunista rispettasse “i patti”, don Calò si fece trovare «in mezzo alla piazza, con un bastone in mano», mentre i contadini, intimoriti, «restavano fuori, lontani, nelle loro strade, dietro le finestre o sulle porte». Ovviamente, era impensabile che Li Causi accettasse simili imposizioni.

Ed infatti, egli sottolineò subito «la funzione parassitaria del gabelloto, sfruttatore dei contadini, con un linguaggio che sembrava scaturito dalla bocca stessa della famiglia contadina […]». E la reazione dei mafiosi non si fece attendere. Cominciarono in modo continuo e provocatorio ad interrompere il comizio. Ma, intanto, il linguaggio semplice di Li Causi e i contenuti coraggiosi del suo discorso, che tanti ascoltavano da dietro le finestre, suscitarono un crescente consenso tra i contadini, tanto da convincerli ad entrare nella “piazza proibita”.

Contemporaneamente, alcune anziane donne cominciarono a spalancare le finestre e i balconi delle loro case, dicendo «Vangelo è!». «Così essi rompevano il senso di una servitù antica, disubbidivano, più che a un ordine, all’ordine, alla legge del potere, distruggevano l’autorità, disprezzavano e offendevano il prestigio».

A quel punto, «un comunista di Caltanissetta invitò don Calò al contraddittorio, ma ricevette come risposta una bastonata, che segnò l’inizio dell’aggressione armata». Infatti, «fu proprio allora che si scatenò il terrorismo mafioso: contro il palco e la folla che aveva circondato [il dirigente comunista] furono lanciate cinque bombe a mano (una delle quali fu sicuramente lanciata dal sindaco) ed esplosi numerosi colpi di pistola. I feriti furono quattordici: fra questi Girolamo Li Causi, colpito ad un ginocchio. I carabinieri di Villalba, chiusi nella loro caserma, non intervennero». Poteva essere la strage di Villalba. Fortunatamente, fu solo una tentata strage, il “battesimo di fuoco” di Girolamo Li Causi in terra di Sicilia. Quel giorno, il leader comunista poté constatare direttamente con quale feroce determinazione gli agrari e la mafia erano disposti a difendere i loro privilegi.

Per la verità, dei segnali inquietanti erano già arrivati nei mesi precedenti con l’uccisione del segretario della Federazione comunista di Enna, Santi Milisenna. E, pochi giorni prima del suo ritorno in Sicilia, il 6 agosto 1944, con l’assassinio di Andrea Raia a Casteldaccia. Ma l’aggressione mafiosa a Girolamo Li Causi, a differenza dei delitti precedenti, suscitò molto scalpore a Roma, dove i comunisti facevano parte dei governi di unità nazionale. In Sicilia, invece, il maggiore quotidiano dell’isola vi dedicò appena un trafiletto, travisando per giunta i fatti (per il “Giornale di Sicilia”, a provocare furono i socialisti e i comunisti). E, non a caso, contro i colpevoli le autorità competenti (forze di polizia, Alto Commissario, prefetto di Caltanissetta e magistratura) procedettero con molta “calma”. «Il Vizzini ed il Farina furono rinviati a giudizio, ma non ne fu disposto l’arresto (nonostante il codice, per reati del genere, lo prevedesse).

Così, quando nel novembre del 1949 il processo si concluse con la condanna di entrambi a cinque anni di reclusione, don Calò era già latitante da qualche anno ed aveva potuto dedicarsi alla sua attività politica in favore del separatismo e della Democrazia Cristiana.

Nel 1954, egli morì nel suo letto. Nel maggio del 1958, i partecipanti alla strage ottennero la grazia del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi». Eppure, nella drammatica vicenda di Villalba si possono già individuare le tradizionali caratteristiche dell’esercizio del potere mafioso, indicate con grande precisione dalla Federazione comunista di Caltanissetta.

Quella di Villalba, denunciarono i comunisti, fu un’«azione violenta della mafia in difesa delle strutture agrarie esistenti, e un’aperta intimidazione rivolta ai partiti politici, alle organizzazioni sindacali ed ai lavoratori della terra, che ponevano l’esigenza della concessione della terra ai contadini». E misero in rilievo non solo la «debolezza – in qualche caso connivenza – dei pubblici poteri», ma anche la «notevole capacità di intrigo e la forza di pressione della mafia, al punto di consentire ai responsabili della strage di non scontare nemmeno un solo anno di carcere e di riuscire ad ottenere persino la grazia del presidente della Repubblica, per intercessione di forze politiche democristiane».

16 Dicembre 2020

Fonte:https://mafie.blogautore.repubblica.it/