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Un’importante inchiesta di Andrea Palladino su “Diario” del 2 gennaio 2009 su un traffico di rifiuti in provincia di Latina, sul cui contenuto chiediamo a Guardia di Finanza e Carabinieri di indagare

UN’INCHIESTA DI ANDREA PALLADINO SU “DIARIO” DEL 2 GENNAIO 2009 SU UNA STRANA STORIA CHE RIGUARDA UN TRAFFICO DI RIFIUTI CHE VEDE COINVOLTA UNA PERSONA DI FONDI.

E’ il maggio del 2007. A Fondi, nel sud del Lazio, quasi al confine con la provincia di Caserta, già ci si prepara per i bagni su una costa una volta meravigliosa, invasa oggi da stabilimenti cresciuti tra abusivismi e macchia mediterranea. La piazza del paese ha l’aspetto estivo, i ragazzoni che passeggiano, gli anziani che bevono il caffè. L’attenzione però è tutta per un gruppetto di africani. Si vede subito che non hanno nulla a che vedere con i tanti migranti che faticano – spesso come schiavi – in quella che una volta si chiamava “Terra di lavoro”, che scendeva dalla piana di Fondi fino al casertano. Hanno vestiti eleganti, denti bianchi che sorridono e mani che stringono patti e alleanze. Vengono da Monrovia, capitale della Liberia da poco ritornata a una specie di democrazia.

Un immobiliarista del posto, Massimo Anastasio Di Fazio, fa da padrone di casa. E’ “l’ambasciatore”, una sorta di emissario commerciale della piccola repubblica africana. In paese lo chiamano proprio così, con quel titolo diplomatico che in Terra di lavoro fa il suo effetto. Sul sito dell’emittente locale “canale 7” si spiega la vicenda: c’è in ballo un accordo da 173 milioni di euro. Rifiuti, da impacchettare e spedire ai liberiani, che gentilmente accettano.

A sugellare il contratto arriva anche il sindaco della città Luigi Parisella, uomo di Forza Italia. E il vicesindaco, Giulio Di Manno. Tutti insieme appasionatamente, ritratti in una foto che farà storia: i liberiani, l’ambasciatore, sindaco e vice sindaco.

Luigi Parisella dopo qualche mese smentirà tutto. Ha molti grattacapi ultimamente, dopo la richiesta del Prefetto di Latina Frattasi di sciogliere il consiglio comunale per infiltrazione mafiosa, ancora pendente sul tavolo del ministro dell’interno. Non esiste l’accordo di 173 milioni – dice – e la foto l’hanno fatta come ricordo di quell’allegro gruppo africano incontrato quasi per caso nel passeggio estivo. Lui, il Sindaco, di rifiuti non ne sa nulla.

Di rifiuti è però un esperto l’uomo sconosciuto che appare nella foto di gruppo. E’ il rappresentante di una società di Aprilia, sempre in provincia di Latina, che si occupa – raccontano le cronache locali – di rifiuti da almeno vent’anni. Da queste parti in pochi lo conoscono, si dice solo che sia un pezzo importante del mondo imprenditoriale laziale che, sempre di più, guarda ai rifiuti come nuovo “bene rifiugio”, come contante da mettere da parte, da far girare, poi, per l’Italia e il mondo. Un imprenditore che può salvare il Lazio dalle montagne di spazzatura che l’emergenza potrebbe riversare nelle strade, pronto a far partire dal porto di Gaeta centinaia di migliaia di rifiuti.

Se vuoi sentire il profumo del denaro, segui la puzza dei rifiuti. E’ la storia del sud Italia degli ultimi decenni. La monnezza, la spazzatura, gli scarti delle case e delle industrie, tutto quello che il nostro paese butta e non ricicla. Insieme al cibo e al turismo, è il vero made in Italy. In certi momenti – quando scatta l’emergenza – può costare più dei pomodori raccolti dalle mani degli schiavi. E la vera arte sta nel farli muovere, spostarli, mascherarli, sversarli, aggiungendo, se serve, un po’ di calce. Hanno un codice, chiamato CER, che li classifica. E’ la tavola periodica dell’oro di tutte le mafie. I veri affari si basano sui quei numeri, che cambiando danno valore alla merce, trasformando un carico puzzolente in concime, destinato all’altra parte del made in Terra di lavoro, l’agroalimentare.

La storia dell’Asea – sulla quale indagano Guardia di finanza e Polizia di stato – è esemplare. Accordi tenuti riservati, le istituzioni regionali che sembrano cadere dalle nuvole e preferiscono non commentare, contatti con esponenti della malavita organizzata che oliano le porte degli affari. Una storia che passa per la piccola città di Fondi, oggi al centro di complesse indagini della Dda di Roma, che da tre anni sta indagando per ricostruire la mappa delle alleanze criminali del sud del Lazio.

Fondi, 35.000 abitanti, incastonata in una piana, con un lago, i monti Ausoni alle spalle e la più bella costa del basso Lazio. Se non fosse per il promontorio di Sperlonga che nasconde il Garigliano e l’inizio della Campania, da qui si poteva anche intravedere il golfo di Napoli. Quando a Fondi arrivano i temporali l’isola di Ventotene, stagliata dietro la linea del mare, viene illuminata quasi a giorno dai fulmini. E quando a Napoli e Caserta si parla di camorra, nella terra ricca e strafottente di Fondi si alzano le spalle, si sorride, si parla del club di calcio e della prossima partita. E che ne sanno, qui, di casalesi e cosche…

Fondi, provincia di Latina, piana che smista ortaggi e cemento, raccomandazioni e soldi a usura, sa come nascondere i suoi segreti. Non c’è bisogno di bunker, qui le case che contano sono visibili, spavalde, mostrate. Non serve spacciarsi per poveri pastori, come faceva il monacale Provenzano: le decine di banche sanno che i soldi si devono muovere.

Sulla via provinciale appena fuori città c’è la villa di Massimo Anastasio Di Fazio, “l’ambasciatore”, 38 anni e milioni di patrimonio bloccato dalla Questura, perché d’origine illecita. Otto milioni di valore catastale, almeno quattro o cinque volte di più il valore di mercato. La casa nella sua città l’ha voluta bella e vistosa, con le telecamere per guardare fuori in ogni momento. E poi una villa ai Parioli, terreni, villette, conti correnti, assegni e denaro contante.

Poche centinaia di metri ed ecco la palazzina dei Tripodo, che a Fondi hanno fatto fortuna. Chissà forse la loro storia di pastori e contadini calabresi li ha aiutati a entrare, decine di anni fa, nella piana. O forse contava la storia del padre, Mico Tripodo, pezzo di storia della ‘ndrangheta, ucciso dai cutoliani in una delle più feroci guerra di mafia. I due figli, Carmelo e Venanzio, portano con orgoglio quel nome che oggi qui conta. E come conta. Tutti sanno che nella casa a tre piani ci sono loro, che ora si occupano di pulizie, ma che con Massimo Anastasio Di Fazio – oggi detenuto per usura aggravata dalla modalità mafiosa – sono amici e compari.

Il sud del Lazio, la lunga provincia di Latina, è dove i tre pilastri dell’economia italiana si fondono. Agroalimentare, con le bufale e il mercato ortofrutticolo di Fondi; turismo, con la costa che scende da Anzio e Nettuno fino a Garigliano, ai confini con la costa Domizia. E i rifiuti, che da queste parti hanno una storia antica. E’ lo stesso business del casertano, che trasforma l’area tra il nord della Campania e il sud del Lazio in un’unica area, dove la gestione delle mafie è il vero perno dell’economia. Milioni di euro sono stati sequestrati nel solo 2008 nel sud pontino. Venti solo a un altro calabrese, Vincenzo Garruzzo, sospettato di usura, arrestato insieme a Massimo Anastasio Di Fazio, il mediatore tra i liberiani e l’Asea. I loro patrimoni messi insieme raggiungono quasi i trenta milioni di euro, buttati sulla piccola Fondi. Ci sono poi i patrimoni delle altre famiglie coinvolte nelle indagini dell’antimafia, i Tripodo, i Zizzo, i Mendico. Anche la stessa famiglia dei Bardellino ha una certa influenza da queste parti, visto che un consigliere comunale di Formia, di alleanza nazionale, si è vantato di averne ricevuto i voti.

La figura chiave dell’affare rifiuti si chiama Stakeholder. “I soggetti senza il cui supporto l’impresa non è in grado di sopravvivere”, li definiva l’economista Edward Freeman. Massimo Anastasio Di Fazio è uno di questi. Ufficialmente fa l’immobiliarista – e l’usuraio, secondo la Dda di Roma – si occupa di comprare e vendere case, ville, terreni. Con Vincenzo Garruzzo aveva messo su una vera e propria rete di controllo e gestione di ogni affare che passava per la città di Fondi, raccontano i rapporti dei Ros di Roma. “L’ambasciatore rimane a disposizione di tutti gli imprenditori locali e pontini”, commentava l’accordo con i liberiani Canale 7. Come è arrivato al business dei rifiuti?

Lo raccontano i proprietari della cava di Via Molelle a Fondi, la “Silver Cava”, già sequestrata più volte per aver ospitato illegalmente diversi tipi di rifiuti. Sono due fratelli, cugini del vice sindaco che – è solo un caso, ovviamente – appariva nella famosa foto di gruppo. Durante un interrogatorio gli investigatori gli mostrano un foglio dattiloscritto, un accordo sulla cava. C’è la società di Aprilia che si occupa di rifiuti e c’è una cava disponibile, con proprietari in difficoltà. Ecco che arriva lo stakeholder, il mediatore: si fa presentare i proprietari della società, la Asea e chiude almeno due affari. Un accordo con la cava per riempirla di fanghi dei depuratori e un contratto con i liberiani, per mandare in Africa un po’ di rifiuti. Alla fine “l’ambasciatore” si prende la sua parte, si fa dare una percentuale del contratto dai proprietari della cava, in cambio di assegni e cambiali andati insoluti. Un modo per arrotondare le provvigioni d’immobiliarista. Che tipo di rifiuti dovessero andare in Liberia non è ancora chiaro: “materiali speciali”, raccontano i proprietari della cava ai Carabinieri. Alla cava sarebbero stati inviati i fanghi di depurazione, il cui smaltimento ha costi elevatissimi. Così alti da giustificare, ad esempio, l’aumento delle tariffe delle bollette dell’acqua di Acea, che ha chiesto ed ottenuto dai sindaci della provincia di Roma un incremento delle bollette del 4, 59% per il 2009, proprio a causa del costo dello smaltimento dei residui dei depuratori. Sempre nel Lazio, presso la procura di Velletri, è poi in corso un processo con una ventina di imputati, accusati di aver smaltito illegalmente i fanghi degli impianti di Acqualatina, la società controllata dalla Veolia che gestisce il sistema idrico nel sud del Lazio.

L’affare della cava appare anche nell’ultimo bilancio dell’Asea. In maniera sostanzialmente differente, però. La società proprietaria della cava – la Silver Cava – non viene menzionata. Si fa riferimento a un accordo quadro tra due società con lo stesso nome: Asea e Gruppo Asea. Difficile, dunque, ricostruire i fili dell’accordo. E mentre a Fondi la procura indaga sul business della cava e dei rifiuti, gli amici dell’ambasciatore ottengono un preaccordo con il Comune di Lanuvio, in provincia di Roma, guidato dal Pd. Nell’ex cava di basalto della piccola città dei Castelli romani metteranno tanti rifiuti per il “recupero ambientale”. Rifiuti inerti – dicono dal comune – e fanghi di depurazione trattati. Un accordo fotocopia rispetto a quello che stavano cercando di concludere a Fondi.

La società è in realtà giovane, in tutti i sensi. Unica socia e amministratrice è una ventiduenne di Albano Laziale, anche se il vero padrone è Alessandro Botticelli, l’uomo della foto di Fondi. La sede operativa è oggi uno dei depositi di rifiuti più vistosi nel sud del Lazio, nella zona industriale di Aprilia, al confine con la provincia di Roma.

Tra Roma e Latina i gruppi che contano nella gestione dei rifiuti sono sostanzialmente due: l’avvocato Manlio Cerroni – quello che accompagna l’assessore Di Carlo nei pranzi a base di coda alla vaccinara – e i fratelli Colucci, originari di San Giorgio a Cremano ed oggi imprenditori della monnezza a livello internazionale. Sotto di loro c’è una piccola truppa di qualche decina di stakeholder, gente che sa dove far andare i camion pieni di rifiuti, che conosce a memoria i codici CER e le tecniche per trasformarli. Gaetano Vassallo, collaboratore di giustizia dall’inizio del 2008, ha raccontato le rotte che dal sud del Lazio (Velletri, Nettuno e Cisterna) finivano nelle discariche gestite dai clan dei casalesi, all’inizio degli anni ’90. Nel 1997 la commissione bicamerale sui rifiuti scopriva a Pontinia – città della bonifica, tra Latina e Fondi – un deposito di 11.600 fusti con sostanze altamente nocive, “il sequestro più rilevante del genere mai effettuato in Italia”.

L’emergenza per l’Asea, la società che avrebbe stretto accordi con la Liberia e con la cava di Fondi, grazie alla mediazione di Massimo Anastasio Di Fazio, è una vera manna. Nel febbraio del 2008 la psicosi del rifiuto aveva preso l’Italia. Rivolte nelle strade a Napoli, i fumi degli incendi che ofuscavano il cielo. Se la Campania si era svegliata in una specie di guerra civile della monnezza, a Roma in molti tremavano. L’Asea annunciava con un comunicato stampa diffuso dalla confindustria di Latina la soluzione: esporteremo 600.000 tonnellate annue di rifiuti dal Lazio verso la Romania. Dopo l’accordo con la Liberia, ecco spuntare quello con una società romena che gestisce inceneritori. La quantità annunciata è considerevole, più di quanto ogni anno viene mandato negli inceneritori del Lazio. Circa un quinto di quanto è prodotto in tutta la regione in un anno. Un’operazione da multinazionale.

Aprilia è una città nata dalla bonifica, oggi invasa da enormi condomini, che ne rivelano subito l’aspetto di dormitorio. La zona industriale è ancora attiva, divisa dalla città dalla Pontina, parte della futura autostrada Roma-Latina voluta da Berlusconi.

La maggior parte delle industrie sono allineate tra due vie. In fondo a via della Meccanica c’è anche un campetto di calcio, dove 130 ragazzi si sfidano ogni settimana nei tornei di calcio amatoriale. Dietro la porta c’è oggi la montagna di rifiuti, stoccati, pronti ad essere trasportati dell’Asea. Nel marzo scorso la Guardia di finanza stimò in 1.500 tonnellate i rifiuti depositati davanti al campetto di calcio in terra battuta. Intervennero i militari delle fiamme gialle, ma oggi l’attività è ripresa e il deposito è ancora lì.

I capannoni della Asea hanno una storia illuminante. Seguire la puzza dei rifiuti può portare lontano. I padroni dei locali sono dei sardi, esattamente la Enap di Carbonia. E’ un ente di formazione professionale, che nel 1972 ottenne un cospicuo finanziamento per la realizzazione dei capannoni, oggi in uso all’Asea. C’era un vincolo, confermato dalla Regione Lazio e dal comune di Aprilia: i locali non potevano cambiare destinazione d’uso, potevano ospitare solo corsi di avviamento professionale. Per molti anni un prete, don Angelo, ora anziano e ricoverato in ospizio, ha diretto i tanti corsi dove i giovani di Aprilia imparavano a lavorare nelle industrie. All’inizio degli anni ’90 l’Enap fallì. Per qualche anno gli edifici passarono alla Enfap della Uil, che a sua volta fallì dopo poco. Nessuna sa, però, come l’area sia diventata un centro per lo stoccaggio di rifiuti, destinati – secondo l’accordo annunciato dall’Asea – alla Romania. L’Enap non commenta, la regione Lazio tace, la Confindustria di Latina rimane muta. Di rifiuti e di società sotto inchiesta è meglio non parlarne.

Il silenzio. Assoluto, che avvolge e nasconde, è il vero motore del traffico dei rifiuti nel Lazio. Il governatore Marrazzo, che fino a pochi mesi fa era commissario straordinario all’emergenza rifiuti, decide di non commentare la vicenda Asea e l’annuncio dell’esportazione di una montagna di rifiuti all’estero. Sono fandonie? Nessuno smentisce, nessuno conferma.

Il campetto di calcio di Via della Meccanica ad Aprilia intanto ha dovuto chiudere. Niente partite per i 130 ragazzini del centro intitolato a Gianni Rodari. Gli scoli che scendono dal deposito dei rifiuti e dalle industrie vicine hanno invaso a fine anno il campo, rendendolo inutilizzabile. Benvenuti in Terra di lavoro, che ormai ha raggiunto i confini di Roma.

Andrea Palladino