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Un contributo di Antonio Di Fazio alla ricostruzione storica del ruolo della mafia in Italia

UN CONTRIBUTO DI ANTONIO DI FAZIO ALLA RICOSTRUZIONE STORICA DEL RUOLO DELLA MAFIA NEL NOSTRO PAESE CHE CONDIVIDIAMO IN PARTE.

NOI, COMUNQUE, SOSTENIAMO DA ANNI CHE, PIU’ CHE DI “STORICI DELLA MAFIA” (CHE CE SONO FIN TROPPI!), ABBIAMO BISOGNO IN ITALIA DI “GUERRIERI” CHE SCENDONO IN TRINCEA PER COMBATTERE LE TANTE MAFIE CHE VI PROLIFERANO PURTROPPO INCONTRASTATE EFFICACEMENTE, FATTE ALCUNE DOVEROSE ECCEZIONI.

E’ IL SOLITO DISCORSO DELL’“ANTIMAFIA DEL GIORNO PRIMA” E DI QUELLA “DEL GIORNO DOPO”.

NOI SIAMO PER LA PRIMA!

FARE “ANTIMAFIA DEL GIORNO PRIMA” SIGNIFICA PASSARE DALLE RICOSTRUZIONI STORICHE, DALLE ANALISI, DALLE ENUNCIAZIONI E DAI PROCLAMI ALLA DENUNCIA QUOTIDIANA DI “FATTI” SPECIFICI, DI ATTI CRIMINALI CONTINUI COMPIUTI O DELIBERATI PER FAVORIRE LE MAFIE, DI OMISSIONI, CARENZE SPECIFICHE DA PARTE DI UOMINI DELLO STATO E DELLA “POLITICA” A FAVORE DELLE MAFIE.

COMUNQUE, GRAZIE!

Anche la Storia…

di Antonio Di Fazio

Purtroppo mafia, corruzione, nepotismo, affarismo, clientelismo sono mali che affliggono lo stato italiano da sempre, direi che ne costituiscono quasi il dna. Non è un’esagerazione, né una provocazione. E peraltro questa constatazione non può di certo offuscare certe virtù e capacità che il popolo italiano ha pur sempre saputo mostrare, in tutti i campi, in termini di stile, di laboriosità, di ingegno e creatività.

Ma dicevo del dna, in riferimento alla vita pubblica italiana. Per limitare il discorso e partendo dalla nascita ufficiale dello Stato italiano, di cui si stanno preparando i festeggiamenti del 150. mo anniversario (cadrà nel 2011) possiamo scomodare già l’eroe più popolare dell’avventura risorgimentale, cioè Garibaldi. A parte le tante oscurità sull’avvio e sulle complicità anche sabaude dell’avventura dei Mille, oscurità che la storiografia ufficiale ben si guarda dal rischiarare (nemmeno lo si farà in questi anni di rievocazione e ‘celebrazione’ dei 150 anni… ), ma già acclarati appaiono tanti altri comportamenti decisivi quanto però immorali e banditeschi posti in essere dall’ ‘eroe dei due mondi’ in quell’occasione: già sbarco a Marsala poté avvenire all’ombra di sotterfugi diplomatici e protezioni mafiose, ma poi l’ avanzata veloce e vittoriosa per tutta l’isola fu resa possibile dall’attività di noti ‘baroni’ e capi mafiosi quali Stefano Triolo di Sant’Anna, o Giuseppe Coppola, Santo Mele, Salvatore Miceli, ormai noti anche agli storici ‘ufficiali’. Essi rinfoltirono le esigue fila garibaldine con circa 20.000 ‘picciotti’. Storici di dubbia onestà hanno assunto la cosa come prova della popolarità dell’azione di Garibaldi, ed anche vasti ceti contadini ci credettero. Ma quelli – dico i ‘picciotti’- costituivano solo l’esercito della mafia, cioè dei signori grandi proprietari terrieri ed affaristi che gattopardescamente seppero cavalcare il nuovo per conservare gli antichi privilegi che una società chiusa e retriva assicurava loro da sempre, privilegi che semmai da qualche tempo erano loro contesi proprio dai Borbone, che vollero applicare anche alla Sicilia le leggi antifeudali varate dal Murat.

Rifulsero allora l’ambiguità e l’ipocrisia dello stesso ‘dittatore’ (tale si proclamò subito Garibaldi), il quale subito abolì l’invisa tassa sul macinato e fece tante altre promesse di redistribuzione delle terre demaniali, ma quando i contadini pretesero di realizzare la vittoria ‘popolare’ e riprendersi, con atti certamente violenti visto che le promesse rimanevano tali, ciò che era il frutto delle loro fatiche, cioè la terra che i ‘galantuomini’ avevano usurpato, allora su loro si abbatté la mano pesante dell’ esercito garibaldino, come tutti sanno, avendo il dittatore nel frattempo stretto patti con borghesi, baroni ed aristocratici. E furono le note stragi e repressioni anticontadine di Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto e tante altre località-feudo della Sicilia orientale.

Non finiva qui l’’epopea’ garibaldina. A Napoli, dicono le storie più o meno ‘ufficiali’, e dicono i testi scolastici indirizzati alla formazione dei giovani, Garibaldi venne accolto (il 7 settembre 1860) dalla popolazione in tripudio. Non è così. Anche qui l’ eroe più popolare del nostro Risorgimento non fondò la sua azione sulla forza degli ideali e dei programmi che pure si sprecavano (libertà, rivoluzione, democrazia… ), ma solo sull’accordo preventivamente (tentato inizialmente nientemeno che da Cavour) allacciato con le cosche camorristiche, allora ‘borbonicamente’ egemonizzate e guidate dal ministro agli interni di Francesco II, tal Liborio Romano, che alla bisogna si avvaleva della collaborazione del ‘capintesta’ camorristico Salvatore De Crescenzo (Tore ‘e Criscienz). Anche qui le cosche prepararono il terreno per un ingresso indolore, dopo la fuga del re, e il buon Liborio Romano fu subito insignito di poteri importanti nel governo provvisorio dei territori occupati da Garibaldi, il quale si apprestava a consegnare il ‘malloppo’ a re Vittorio Emanuele. E così Liborio, buono il giorno prima per il Borbone, divenne il giorno dopo – utilizzando sempre gli stessi metodi – un altro eroe del nostro strano Risorgimento.

Mi sono dilungato su questi eventi, perché a mio vedere rappresentano quasi un imprinting del nuovo stato sabaudo (il Regno d’Italia). Il quale continuò anche in seguito, visto che il metodo della truffa e della falsità funzionava, visto che un popolo italiano non esisteva, a comportarsi – nell’azione politica come in quella amministrativa – in tal modo. Sarebbe lungo, magari sarebbe un riscrivere l’intera storia del Risorgimento e della successiva vita italiana, toccare anche i tanti altri momenti nei quali si rese evidente una marcata propensione alla truffa, all’ipocrisia, all’illegalità.

Voglio solo elencare, a pro di chi vorrà meglio informarsi o approfondire, la vicenda della rivolta del sud contrabbandata come ‘brigantaggio’; il proditorio assalto a Roma e la conquista dei vasti territori dello stato Pontificio, stato con ogni pecca e dominato dai preti, ma pur sempre stato libero ed indipendente; le rapine perpetrate contro i poveri e in specie contro le masse contadine del Sud a partire dalla nuove tariffe doganali favorevoli al solo Nord e dalla famigerata tassa sul macinato (1869); le vaste compromissioni e malversazioni che a livello centrale e locale si concretizzavano, con la pratica indecente del trasformismo parlamentare o i brogli e le violenze che nella importante tornata elettorale del 1909 spinsero Gaetano Salvemini a bollare il presidente Giolitti, per altri versi meritorio, come ‘ministro della malavita’; e ancora i tanti scandali finanziari ed affaristici perpetrati a fine ‘800 all’ombra della mafia e della camorra che così ingrassavano e ricevevano nuova legittimazione dallo stato etc. , fino allo squadrismo e al malaffare di cui ampiamente si macchieranno nel ‘900 il fascismo prima e il regime democristiano dopo.

Per il resto, arriviamo ai giorni nostri, ma le cose sono forse peggiorate: le esposizioni dei trofei della lotta alla malavita organizzata, le esibizioni degli ‘eroi’ della lotta antimafia (Falcone, Borsellino, Caponnetto, La Torre, i ribelli al ‘pizzo’, etc. ) paiono seguire lo stesso ritmo del progressivo ramificarsi di quella nel tessuto civile ed economico dello stato intero, da Milano a Palermo. Questo – a mio vedere – può indicare una sola cosa: che ormai ‘mafia’ e ‘mafiosi’ non designano più unicamente certe ‘famiglie’, una certa ‘onorata sociatà’ allignante solo in certe zone del Sud. Oggi dobbiamo registrare invece l’ espansione a macchia d’olio del fenomeno malavitoso, che non ha più altro territorio che l’intero territorio nazionale, da Milano a Palermo, non più altro ‘codice d’onore’ che la diffusione incontrollata nell’intero tessuto della vita civile ed economica dei comportamenti illegali e della corruzione (dal commercio alla droga, dall’usura al controllo dei mercati e alla gestione dei servizi per conto delle amministrazioni locali, etc. ). Il discorso da semplicemente ‘criminale’ tende a diventare politico-criminale. I metodi truffaldini, furbeschi e violenti di Casa Savoia all’origine dell’Unità del nostro paese hanno fatto scuola, e sono oggi nel dna della casta che ci governa ed amministra, a tutti i livelli.


Indicazioni bibliografiche minime:

A. Lepre, Storia del Mezzogiorno nel Risorgimento, Roma 1977; G. Di Fiore, Controstoria dell’Unità d’Italia, Milano 2007; M. Petrusewicz, Come il Meridione divenne una Questione, Soveria Mannelli (CZ) 1998; M. Costa Cardol, Venga a Napoli, signor conte, Milano 1996;

A. Di Fazio, Aspetti del Risorgimento fondano: i libelli di G. Sotis e G. Amante, in “Annali del Lazio meridionale”, anno VIII, n.2, pp.7-44.