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Un attentato che cambia Cosa Nostra

Un attentato che cambia Cosa Nostra

Orbene, per comprendere appieno la fondatezza del superiore assunto, non può prescindersi da una sia pur rapida ricostruzione storica dell’evoluzione di “cosa nostra”, tanto più necessaria ove si consideri, da una parte, che ciò consentirà di individuare quei momenti in cui la precarietà degli equilibri interni e la sanguinosa situazione di conflitto tra opposte fazioni hanno fatto registrare significative deroghe alla regola della collegialità e di apprezzarne il carattere di eccezionalità, e dall’altra, che proprio dal momento storico di transizione tra vecchi assetti organizzativi e nuovi equilibri in cui è maturata la determinazione criminosa e la successiva esecuzione della strage potranno trarsi utile indicazioni in ordine all’operatività di quella regola.

Sul punto, fra i collaboratori esaminati nel presente dibattimento un significativo apporto probatorio è stato fornito da Di Carlo Francesco, Siino Angelo e Cucuzza Salvatore, il cui prezioso patrimonio conoscitivo appare adeguato al rispettivo livello di inserimento nell’organizzazione ed alla natura dei rapporti con esponenti di spicco della stessa.

Ed infatti, il primo per la lunga militanza in cosa nostra ne ha vissuto le fasi più conflittuali, inserito nel gruppo dei c.d. vincenti; il secondo, benchè non formalmente uomo d’onore, era stato molto vicino a Stefano Bontate; il terzo, infine, reggente della famiglia mafiosa di Borgo Vecchio, aveva fatto parte del gruppo di fuoco che partecipò attivamente alla sanguinosa guerra di mafia.

Tanto premesso, va rilevato che una ricostruzione della evoluzione storica di “cosa nostra” non può prescindere dal rilevante contributo probatorio fornito dal collaboratore di giustizia Buscetta Tommaso, la cui antica miltanza in Cosa Nostra e l’accertata attendibilità nell’ambito del c.d maxiprocesso, conferiscono al suo racconto una sicura affidabilità che deriva anche dal profondo radicamento del propalante nella realtà criminale mafiosa, dalla sua vicinanza ad esponenti di spicco e dal prestigio acquisito all’interno dell’organizzazione.

E peraltro, le dichiarazioni del Buscetta hanno trovato significativo riscontro anche nelle dichiarazioni rese da Contorno Salvatore, la cui attendibilità è stata altrettanto positivamente delibata nel citato maxiprocesso, e dallo stesso Di Carlo Francesco, esaminato all’udienza del 15/2/1999, il cui contributo probatorio appare adeguato alla consistenza del suo patrimonio conoscitivo in relazione al ruolo rivestito in seno a “cosa nostra”.

Uomo d’onore della famiglia di Altofonte, rientrante nel mandamento di S.Giuseppe Jato, diretto da Brusca Bernardo, poi sostituito dal figlio Giovanni, il Di Carlo ha dichiarato di essere stato affilato dalla metà degli anni 60 fino al 1996, ricoprendo la carica di consigliere, sottocapo ed anche rappresentante(dalla fine del 1975 fino agli inizi del 1978).

Dimessosi volontariamente da tale carica il Brusca ebbe a nominare tre reggenti: il fratello dello stesso collaboratore, Di Carlo Andrea, Ottavio Gioè, padre del più noto Antonino Gioè, e Di Matteo Giuseppe, inteso Piddu Mezzanasca, padre dell’attuale collaboratore Di Matteo Mario Santo. Ha inoltre dichiarato di essersi dimesso per divergenze circa i suoi metodi di gestione della famiglia in quanto non voleva che nel suo territorio si perpetrassero omicidi ed estorsioni.

Dopo le dimissioni fu messo alle dirette ed esclusive dipendenze di Brusca Bernardo e della commissione provinciale di Palermo, vale a dire fin dall’inizio della sua costituzione avvenuta nel 1974.

Il Di Carlo ha riferito degli ottimi rapporti con Brusca e Riina, intimamente legati tra loro tanto da essere “unica persona”, e di avere intensificato i rapporti con il Riina negli anni ‘71-72 allorchè ebbe ad ospitarlo insieme alla moglie e la primogenita di pochi mesi nella propria abitazione durante la latitanza.

[…] Il Di Carlo ha riferito di avere iniziato la collaborazione nel giugno 1996, data in cui aveva già scontato 12 anni della condanna inflittagli, pari ad anni 25, due dei quali condonati, e, quindi, maturato il periodo minimo trascorso il quale una convenzione internazionale consente di espiare in Italia la pena residua.

In particolare, sui motivi della collaborazione il Di Carlo ha dichiarato quanto segue:

P.M. – Sì. Senta, lei quindi ha scritto questa lettera al dottore Natoli e quando ha iniziato a collaborare. E ci vuole spiegare quali sono stati i motivi della sua collaborazione?

DI CARLO – Bè, i motivi, sa, sono tanti. A parte tutto il cambiamento che c’è stato in “Cosa Nostra”, perchè non riconoscevo più… a parte tutto non facevo più parte di “Cosa Nostra”, ma visto quello che c’era, c’era da vergognarsi, perchè poi i giornali inglesi parlavano di molte – andavano nel plurale – uccisione di bambini, di donne, dello Stato in ginocchio, di Giudici, di tutto questo. […] L’ho detto pure per telefono a qualcuno ci riferisse [a Giovanni Brusca ndr.] che lasciasse stare i bambini; i bambini e le donne in “Cosa Nostra” non si toccano; che un bambino che cosa può cambiare? Comunque, speravo che almeno ci avrebbe… mentre non ho fatto niente. Le cose sappiamo tutti come sono andate, ma mi è venuto uno sconcerto di dentro. A parte tutto quello che dicevano i giornali, ho voluto dare un taglio, che nella mia generazione non deve fare più parte di “Cosa Nostra”, perchè abbiamo vissuto sempre di “Cosa Nostra”, da nonni, avi e da zii e sempre. Nella mia generazione figli dei figli, nipoti con eh… non debbono esistere più. E solo in questo modo può essere di non esistere più “Cosa Nostra” nella mia generazione, perchè a me “Cosa Nostra” mi ha rovinato; potevo essere un imprenditore, i mie amicizie che avevo; ero nella Palermo bene. Mi ha rovinato famiglia, tutto, a parte… perchè il carcere non mi faceva impressione, perchè sono un uomo che so vivere dovunque, e così ho preso la decisione. Ma no per il carcere, perchè stavo finendo, poteva essere un anno più, un anno meno; altre imputazioni possono parlare di quello che vogliono, non c’è niente, perchè io sapevo che i reati si pagano in “Cosa Nostra” e allora ho saputo sempre gestire. Se era per me fino al ’78 i miei fratelli non avevano messo un dito nell’acqua, non avevano fatto niente, come tanti non i miei fratelli soli, ma come tanti di Altofonte. L’omicidi dopo hanno cominciato. Se era per me rimanevano puliti, perchè o si pagano in “Cosa Nostra” o si pagano con la Giustizia i reati. Allora meno ne fa, meglio è. Questa era la mia posizione.”””

Le dichiarazioni del Di Carlo, il cui patrimonio conoscitivo risulta connotato da indubbi profili di novità ed originalità, si sono rivelate probatoriamente rilevanti e per la loro precisione e genuinità meritano di essere adeguatamente valorizzati.

Il collaboratore, inoltre, è stato diretto protagonista di alcuni episodi narrati e con particolare riferimento al periodo antecedente al suo allontanamento dall’organizzazione particolare valore probatorio deve essere riconosciuto al suo contributo, perché frutto dell’esperienza diretta vissuta all’interno del sodalizio, connotata, anche per la posizione rivestita, da stretti e frequenti rapporti con esponenti di spicco dell’organizzazione.

Quanto al SIINO, […] Fin dall’infanzia aveva avuto frequentazioni con esponenti del mondo della mafia a causa della sua provenienza familiare, essendo il nonno un esponente mafioso di grossissimo rilievo. Uno zio, inoltre, Salvatore Celeste, fin da ragazzino lo portava sempre in giro anche nella provincia di Caltanissetta dove aveva avuto modo di conoscere tutti i più grossi esponenti del mondo mafioso, quali ad esempio Giuseppe Genco Russo, ed altri esponenti importanti dell’organizzazione mafiosa nissena e di altre province.

A specifica domanda ha riferito di avere conosciuto negli anni ‘50 il noto esponente mafioso Madonia Francesco di Vallelunga, in quanto era molto amico di suo zio Celeste Salvatore, nonché il di lui figlio Giuseppe Piddu Madonia, di cui era molto amico.

Quest’ultimo, di qualche anno più piccolo di lui, lo aveva conosciuto fin da giovanissimo e successivamente si erano nuovamente incontrati per questioni inerenti la distribuzione degli appalti nel nisseno e nell’ennese.

Ha inoltre dichiarato di avere avuto fin da giovane rapporti con tutti gli esponenti di vertice dell’associazione criminale mafiosa di tutte le provincie siciliane e di essere venuto parecchie volte nel nisseno per discutere di questioni inerenti grossissimi abigeati, che allora venivano consumati nei confronti di proprietari terrieri, per esempio per la restituzione degli animali.

Aveva conosciuto molto bene Stefano Bontate, esponente della triade mafiosa che reggeva negli anni ’70 “cosa nostra” ed essendo molto amici andavano spesso in giro non solo per la Sicilia ma anche per tutta la penisola sicchè aveva avuto modo di conoscere i rappresentanti di “cosa nostra” della cosiddetta ala corleonese.

Per gli stretti vincoli di amicizia con il Bontate aveva potuto raccoglierne gli sfoghi contro il Riina – “qualche giorno a questo Riina gli sparo in bocca e non se ne parla più”- il quale grazie agli infiltrati nella famiglia di S.Maria di Gesù, tra i quali il Pullarà, aveva potuto organizzare la sua vendetta.

Trasferitosi verso la fine degli anni ’70 a Catania aveva avuto l’opportunità di conoscere tutti i rappresentanti di vertice della famiglia mafiosa catanese.

Rientrato a Palermo nel 1984 si era occupato della gestione degli appalti, dapprima per conto della politica, e successivamente, dopo l’inserimento della organizzazione “Cosa Nostra” in quel settore, se ne era occupato fino al ’91 per conto dell’organizzazione.

Ha precisato che in particolare nel nisseno era stato “cooptato” da Giuseppe Madonia il quale gli diede l’incarico di supervisione a tutti gli appalti di Caltanissetta.

In ordine alle sue specifiche funzioni in seno all’organizzazione ha precisato che si trattava di un ruolo di collegamento tra imprenditori, mafiosi, politici, per la pianificazione della spartizione e gestione degli appalti “con i vari capiprovincia, capi di mandamento e capi dei paesi”, ciò che gli aveva consentito di avere una “conoscenza precisa degli organigramma mafiosi”, perchè aveva “questo ingratissimo compito di andare a distribuire questa massa di denaro”.

Tale “ruolo istituzionale” all’interno dell’organizzazione “Cosa Nostra” era stato assunto nel 1987 e ciò gli aveva consentito di avere contatti con tutti gli esponenti di “Cosa Nostra” palermitana, precisando di avere conosciuto in particolare il Provenzano, Bernardo Brusca, Di Maggio, Giovanni Brusca, Geraci, Farinella, vale a dire quelli che erano i rappresentanti di vertice della organizzazione.

[…] Quanto ai motivi della decisione di collaborare il Siino ha dichiarato:

SIINO – Ma io iniziai a collaborare immediatamente, perchè stanco di essere accusato dai cosiddetti uomini d’onore di cose effettivamente che io non avevo commesso, e poi era per me ormai doveroso chiarire qual era stato effettivamente il ruolo e il personaggio e i riferimenti che avevo avuto in tutte queste mie vicissitudini. Praticamente ero ridotto allo spasimo, ero ridotto allo stremo; non sapevo più che fare, perché continuavano a piovermi mandati di cattura addosso su istanza di personaggi che poi erano stati i veri ispiratori di questa situazione. Proprio c’era una specie di tiro al bersaglio, e allora ho cercato di chiarire e poi stava per essere … in un certo senso coinvolto mio figlio in tutta questa situazione, cosa che io non potevo assolutamente permettere. E poi per me era ormai imprescindibile chiarire qual era il mio vero ruolo . in questa situazione.”

[…] Dopo avere precisato che le richieste estorsive (“continuavano a subissarmi di richieste di denaro”) erano state rivolte dal Brusca e dal “suo accolito Vito Vitale”, anche nei confronti dei suoi familiari, ha dichiarato che per sottrarsi a questa situazione aveva deciso di lasciare la Sicilia, avendo intuito che la situazione si era fatta pericolosa anche per la sua incolumità, perché “sapeva troppe cose” ed avrebbe fatto “la stessa fine di Lima e dei Salvo”.

Sul punto ha ulteriormente precisato: “Sì, esattamente, già cominciarono nei confronti dei miei parenti nel 1994 e da lì io andai su tutte le furie. Perchè praticamente ho fatto questo tipo di discorso: signori miei, io sono in galera da quattro – cinque anni, mi hanno dato il 41 bis – e, mi creda, allora era 41 bis, Signor Presidente, non era quello di ora – e praticamente, e io avevo sofferto le pene dell’inferno, ero ammalato, mi ero ammalato, avevo fatto tutto quello che dicevano loro, gli avevo fatto guadagnare miliardi, avevo fatto quello che avevano voluto e malgrado ciò “mi fate le estorsioni”? Ma questa veramente è una porcheria. Per cui, evidentemente, cominciai a… il mio pensiero primo è stato quello come cercare di poterli fregare. […] Ha infine riferito che sulla decisione di collaborare aveva influito anche la preoccupazione che il figlio potesse coinvolto negli stessi affari illeciti, […].

Significativo si è rivelato anche il contributo probatorio afferto dal collaboratore di giustizia Cucuzza Salvatore.

Uomo d’onore della famiglia di Borgo Vecchio, facente parte del mandamento di Porta Nuova, il Cucuzza ha riferito di essere stato ritualmente combinato nel ’75 e di avere subito un periodo di detenzione dal ’75 al luglio ’79, con una breve parentesi di latitanza, a seguito di evasione dall’ospedale, trascorsa con Rosario Riccobono.

Dopo un lungo periodi di libertà dal 20 luglio 1979 al settembre del 1983, era stato nuovamente arrestato e scarcerato nel giugno ’94.

Ha riferito che la famiglia del Borgo Vecchio era capeggiata da Leopoldo Cancelliere e dopo la destituzione di questi egli ne aveva assuntola reggenza fin dagli inizi del 1980 mantenendola ininterrottamente (“Fino… Ma, diciamo sempre, perchè nessuno me l’ha… me l’ha mai tolta, quando le poche volte che sono uscito uscivo sempre con quella carica”).

Ha inoltre dichiarato che durante “la guerra di mafia”, nella primavera dell’81, quindi dopo la morte di Stefano Bontate, erano stati costituiti alcuni gruppi di fuoco ed egli aveva fatto parte di quello di Ciaculli, con Pino Greco, Lucchese Giuseppe, Prestifilippo ed i Marchese, precisando le aggregazioni in seno a tali gruppi prescindevano dal mandamento di appartenenza, tanto che pur facendo parte del mandamento di Porta Nuova era stato designato per “rinforzare quel gruppo con l’autorizzazione, naturalmente, di Pippo Calò”

Quale componente di quel gruppo di fuoco, fino al 1983, aveva commesso numerosi omicidi.

Ha precisato di essere stato colpito dal mandato di cattura scaturito dal c.d. rapporto dei 162, il cui procedimento, inizialmente istruito dal consigliere Chinnici, era poi confluito, a seguito delle dichiarazioni di Buscetta, nel c.d. maxiprocesso che era stato istruito dal dr.Falcone.

Sebbene imputato di circa “duecento capi di imputazione” ed in particolare di tutti gli omicidi commessi durante la guerra di mafia, ha riferito che quel criterio di attribuzione della responsabilità era stato poi disatteso sicchè, non rivestendo il ruolo di capomandamento (“ questa impostazione è caduta non ero capomandamento, per cui non rispondevo a livello decisionale”) era stato condannato per il tentato omicidio Contorno e per associazione a delinquere con l’aggravante di “capo” .

[…] Dalle concordi dichiarazioni dei predetti collaboratori – la cui attendibilità, ad avviso della corte, merita di essere positivamente valutata – nonché dalle sentenze acquisite agli atti, ed in particolare da quella n.80/92 della S.C. e di merito, divenute irrevocabili, che ne costituiscono il presupposto, risulta che la prima commissione provinciale venne costituita negli anni ’57-’58 per coordinare l’attività delle varie cosche, articolate in famiglie, ciascuna delle quali controllava

una parte del territorio della provincia.

I poteri di tale organo erano quelli strettamente necessari allo svolgimento di funzioni di coordinamento, la cui “delega” da parte delle famiglie, ciascuna delle quali sovrana nell’ambito del territorio di competenza, era scaturita dalla necessità di affidare ad un organismo sovraordinato il potere di prevenire l’insorgere di conflitti che sarebbero potuti derivare dal progressivo aumento dei traffici illeciti e dal connesso ampliamento del raggio di azione di ciascuna famiglia aldilà del proprio territorio.

A differenza dei poteri che avrebbe assunto negli anni successivi, quelli di cui la commissione era originariamente titolare erano limitati e strettamente correlati allo svolgimento di funzioni di coordinamento, peraltro adeguati alle scarse esigenze organizzative del tempo, con esclusione di poteri di disposizione implicanti significative limitazioni dell’autonomia decisionale delle famiglie, come, ad esempio, la facoltà di avvalersi dell’opera di un “soldato” senza ottenere il previo assenso del suo “capofamiglia”.

Univocamente sintomatico della sostanziale parità di ciascuno dei componenti di tale organo rappresentativo, composto da tredici membri in rappresentanza delle “famiglie” più cospicue di ciascun mandamento, appare la circostanza che al Greco Salvatore, della “famiglia” di Ciaculli, che la presiedeva, era stata attribuita la carica di segretario, il cui compito si limitava a diramare gli inviti per le riunioni, a richiesta dei vari membri.

La commissione, tuttavia, non riuscì a comporre i contrasti, rimasti a lungo latenti, da una parte, tra i fratelli Salvatore ed Antonio La Barbera – il primo capomandamento di Palermo Centro, che raggruppava, oltre all’omonima “famiglia”, anche quelle del Borgo e di Porta Nuova – e, dall’altro, Cavataio Michele, Matranga Antonio, Troia Mariano e Manno Salvatore, rispettivamente a capo dei mandamenti di Acquasanta, Resuttana, San Lorenzo e Boccadifalco.

Poiché i La Barbera, giovani ed ambiziosi, aspiravano ad assumere una posizione di maggior rilievo in seno alla commissione avevano chiesto il rispetto della regola, allora vigente ma di fatto disapplicata, che vietava il cumulo delle cariche di “capofamiglia” e di capomandamento, sperando in tal modo che la commissione fosse composta da soggetti meno anziani ed autorevoli di quelli che dirigevano le più importanti “famiglie”. Gli altri capimandamento sopra citati si erano quindi alleati tra loro per contrastare le mire dei La Barbera ed ispirati dal Cavataio decisero di uccidere altri componenti della commissione che si trovavano in posizione neutrale, per poi farne ricadere la colpa sugli avversari.

In attuazione di tale strategia si registrarono gli omicidi di Di Pisa Calcedonio (Natale 1962), capomandamento della Noce, che si stava apprestando ad abbandonare la carica di “capofamiglia” per poter mantenere il suo posto nella commissione e successivamente quelli di Manzella Cesare, che aveva già ceduto la sua carica di “capofamiglia” di Cinisi a Badalamenti Gaetano, e di Di Peri Giovanni, della “famiglia” di Villabate.

La responsabilità di tali omicidi venne fatta ricadere sui La Barbera e così la commissione, al cui interno, come si è detto, alcuni dei capimandamento si erano segretamente accordati tra loro, decise lo “scioglimento” delle “famiglie” di Porta Nuova e di Palermo Centro e di punire con la morte i La Barbera.

In occasione di uno degli attentati eseguiti, anche a mezzo di ordigni esplosivi, nel tentativo di uccidere Prestifilppo Salvatore, si era verificata la ben nota strage di Ciaculli in cui, a seguito della esplosione un’autovettura Alfa Romeo Giulietta imbottita di tritolo, erano rimasti uccisi sette militari.

L’immediata reazione degli organi dello stato seguita sull’onda emotiva dello sdegno dell’opinione pubblica determinò una crisi in cosa nostra, che venne temporaneamente sciolta.

Durante l’operatività della prima commissione, pertanto, si era registrata l’adozione di una strategia fondata su intese segrete tra alcuni componenti di quell’organismo a danno di una minoranza, sia pure agguerrita, strategia che sarebbe stata successivamente ripresa e perfezionata dai cortonesi e che aveva reso a quel tempo inevitabile l’esplodere della c.d. prima guerra di mafia tra il 1962 ed il 1963, conflitto questo che a differenza di quello successivo aveva visto contrapporsi in modo compatto una “famiglia” mafiosa alle altre.

Con il graduale attenuarsi dell’attività repressiva degli organi statali, soprattutto dopo il processo di Catanzaro, risoltosi in senso sostanzialmente favorevole agli interessi dell’organizzazione, cosa nostra aveva cominciato a ricostituire le sue strutture ed aveva avvertito subito l’esigenza di un organismo direttivo centralizzato che fosse in grado di evitare il ripetersi della conflittualità che ne aveva determinato la crisi.

In attesa che si pervenisse alla completa costituzione di tutte le “famiglie” mafiose e dei vari mandamenti, la direzione di Cosa nostra era stata assunta da un triumvirato, che aveva operato dal 1970 al 1975, formato da Bontate Stefano, della “famiglia” di Santa Maria del Gesù, Badalamenti Gaetano, della “famiglia” di Cinisi e Riina Salvatore, quest’ultimo in sostituzione di Leggio Luciano, rappresentante della “famiglia” di Corleone.

L’esigenza prioritaria avvertita dall’organizzazione era stata quella di chiudere i conti con il Cavataio, principale responsabile della prima guerra di mafia e della lunga catena di omicidi che aveva provocato la reazione dello Stato, la cui strategia era stata frattanto scoperta, atteso che la strage di Ciaculli si era verificata quando uno dei fratelli La Barbera era stato ucciso e l’altro era rimasto gravemente ferito in un attentato a Milano, sicché non era stato più possibile far ricadere su di loro le responsabilità di quel grave fatto di sangue.

Il progetto omicidiario in danno del Cavataio venne attuato con la c.d. strage di Viale Lazio a Palermo ad opera di un “gruppo di fuoco” di cui facevano parte un componente della “famiglia” del Bontate, uno della “famiglia” di Di Cristina Giuseppe di Riesi, che nutriva ambiziose pretese anche in relazione alle questioni che riguardavano le famiglie palermitane, ed uno della “famiglia” di Corleone, Bagarella Calogero, fratello di Leoluca, che rimase ucciso per la reazione della vittima designata.

Rimasto temporaneamente solo alla guida del triumvirato per l’arresto del Bontate e del Badalamenti, il Riina incominciò a manifestare il proprio temperamento e la sua ostilità nei confronti dei primi due, organizzando il sequestro a scopo di estorsione di Cassina Luciano, sequestro che rappresentava non solo una palese violazione della regola vigente in cosa nostra di non effettuare questo tipo di reati in Sicilia per evitare di attirare nell’Isola l’attenzione delle forze dell’ordine, ma anche una chiara manifestazione dell’incapacità di Bontate e Badalamenti, che avevano sempre curato i rapporti con la classe imprenditoriale palermitana più inserita nel settore dei pubblici appalti, da cui derivavano all’organizzazione cospicui guadagni, di mantenere la gestione di tali rapporti.

Questo episodio contribuì in modo decisivo ad alimentare quel clima di tensione tra il Riina e gli altri due esponenti dell’organismo di vertice, che sarebbe poi esploso nella seconda guerra di mafia, ma che venne temporaneamente sopito dall’intervento del Leggio, frattanto subentrato nel triumvirato al Riina.

Un altro grave episodio, verificatosi nel 1971 con l’omicidio del Procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione, ucciso dal Leggio, segnò una grave violazione della regola della collegialità delle decisioni, essendo il delitto maturato a causa delle iniziative giudiziarie intraprese dalla vittima nei confronti di quest’ultimo, senza che fosse stato acquisito il preventivo assenso degli altri due triumviri, che di ciò ebbero a dolersi.

È appena il caso di rilevare come in relazione a tale delitto, dati i rapporti esistenti tra il rappresentante corleonese e gli altri due componenti l’organo direttivo, sarebbe stato illogico attendersi che il Leggio avesse chiesto il loro assenso per un omicidio che rispondeva solo ad un suo specifico interesse e dal quale sarebbero potute derivare gravi conseguenze negative anche per gli altri.

Un altro omicidio ai danni di un funzionario dello Stato fu quello commesso nel gennaio del 1974 in danno del maresciallo della Polizia di Stato in pensione Angelo Sorino, ucciso nella zona di San Lorenzo all’insaputa del Bontate, che ne chiese conto al capofamiglia Giacalone Filippo, il quale, dopo aver svolto delle indagini, aveva riferito al Bontate che autore dell’omicidio era stato Leoluca Bagarella.

Poco tempo dopo il Giacalone era scomparso ed il Bontate aveva confidato al Buscetta di sospettare che i corleonesi fossero responsabili di tale scomparsa.

Altro grave episodio destinato ad alimentare la tensione tra i corleonesi ed il duo Bontate-Badalamenti fu il sequestro di Luigi Corleo, suocero dell’esattore Salvo Antonino, all’epoca vicino a questi ultimi, che non riuscirono ad ottenere neanche la restituzione del cadavere della vittima.

La commissione provinciale venne ricostituita nel 1975, affidando la presidenza al Badalamenti, ben presto sostituito in tale carica – con il pretesto che egli doveva essere punito perché si sarebbe vantato di essere il “capo” di cosa nostra – da Greco Michele, ben più gradito ai corleonesi, mentre il Badalamenti sarebbe stato poi espulso da cosa nostra nel 1978 per motivi mai ben chiariti.

Gli anni della direzione formale della commissione da parte del Greco furono anche quelli che fecero registrare vari “omicidi eccellenti” ed in cui si acuirono i contrasti tra lo schieramento in cui si delineava con sempre maggiore chiarezza l’egemonia dei corleonesi guidati dal Riina (subentrato al Leggio dopo l’arresto di quest’ultimo nel maggio del 1974) e quello contrapposto facente capo a Bontate ed a Salvatore Inzerillo, rappresentante della “famiglia” di Passo di Rigano.

Nell’agosto del 1977 venne ucciso a Ficuzza, nel territorio di Corleone, il tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo.

L’omicidio dell’ufficiale era già stato vanamente richiesto dai corleonesi nel 1975 a Bontate ed a Di Cristina, nel territorio del quale all’epoca il militare operava, essendo stato autore delle indagini che avevano determinato il rinvio a giudizio del Leggio dinanzi alla Corte d’Assise di Catanzaro, ma il mancato consenso era servito solo a ritardare la vendetta da parte dei corleonesi.

Dopo l’omicidio, alle richieste di spiegazione da parte del Bontate e del Di Cristina, il Greco aveva potuto solo far presente di essere stato tenuto all’oscuro di tale iniziativa omicidiaria, che pure aveva poi appreso essere stata eseguita da un componente della sua stessa “famiglia” e cioè quel Giuseppe Greco “scarpuzzedda”, che svolse il ruolo di spietato killer dei corleonesi sino a quando non venne a sua volta ucciso dagli stessi.

Il Di Cristina aveva chiesto spiegazioni a Greco Michele di tale omicidio e delle ragioni per cui non era stata consultata la commissione regionale e questi, dopo aver parlato con il Riina, gli aveva riferito che secondo quest’ultimo “per uccidere gli sbirri” non era necessaria alcuna autorizzazione.

Per tale risposta il Di Cristina e Calderone Giuseppe, rappresentante della “famiglia” di Catania, avevano significativamente rimproverato al Greco di essere un burattino nelle mani dei corleonesi.

Questi ultimi due sarebbero stati poi uccisi rispettivamente a Palermo il 30 maggio 1978 ed a Catania l’8 settembre 1978.

Alle vibrate proteste del Bontate e dello Inzerillo, che in seno alla commissione avevano lamentato che tale organo non era stato consultato per l’omicidio del Di Cristina, per di più consumato in un territorio controllato dallo stesso Inzerillo, il Greco aveva giustificato l’episodio facendo presente che la vittima aveva meritato la morte perché confidente dei Carabinieri e che comunque la vicenda era legata a contrasti interni alla “famiglia” di Caltanissetta.

In realtà il Di Cristina aveva iniziato ad avere degli incontri con il Cap. Pettinato, Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Gela, circa una settimana dopo l’omicidio del rivale Madonia Francesco di Vallelunga, commesso l’8 aprile 1978 e dopo che alcuni mesi prima, il 21/11/1977, i suoi amici Di Fede e Napolitano erano rimesti uccisi in un agguato chiaramente diretto contro di lui.

Il Di Cristina, resosi conto di essere ormai obiettivo di una determinazione omicidiaria assunta dai corleonesi, aveva compiuto l’ultimo disperato tentativo di sottrarsi alla morte riferendo all’ufficiale notizie circa i fatti criminosi commessi dallo schieramento a lui avverso sperando che i suoi nemici potessero essere tratti in arresto prima di dare esecuzione al progetto omicidiario in suo danno.

Come risulta dalle sentenze emesse nel corso del c.d. maxi processo (cfr.Cass.n.80/92), che hanno accertato la responsabilità del Riina, del Provenzano e degli altri componenti della commissione a questi più vicini, l’omicidio del Di Cristina era stato deciso dalla fazione egemonizzata dai corleonesi ai danni dello schieramento avversario, con il preventivo assenso solo dei componenti del primo schieramento e con la certezza di ottenere poi in sede di riunione della commissione una formale ratifica di tale operato che mettesse in minoranza le obiezioni dello schieramento opposto.

Appare, infatti, evidente che i corleonesi non avrebbero potuto commettere un così grave omicidio se non avessero saputo di poter contare sul consenso della maggioranza, consenso che ovviamente dovette essere ricercato prima dell’esecuzione dell’omicidio, per non rischiare di essere smentiti dal voto contrario della commissione.

In tale ipotesi, infatti, la sconfessione dell’operato dei responsabili dell’omicidio avrebbe avuto quale unica sanzione possibile la morte, data la gravità della violazione della citata regola.

Con il preventivo consenso della maggioranza della commissione, invece, avrebbe potuto essere addotta qualsiasi giustificazione – per esempio, quella, solo in parte vera, che faceva leva sul ruolo della vittima di confidente dei carabinieri – con la certezza che essa sarebbe stata accettata e che la fazione avversaria avrebbe dovuto inchinarsi alla volontà dell’organo di vertice espressa dalla sua maggioranza. Il 21/7/1979 era stato ucciso il Commissario Boris Giuliano, omicidio per il quale nel citato maxiprocesso è stata accertata la responsabilità dei componenti della commissione filocorleonesi.

Erano seguiti l’omicidio del Consigliere istruttore Cesare Terranova (25/9/1979) ed il 4/5/1980 quello del Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, comandante della compagnia di Monreale.

A questo punto appariva imminente lo scontro aperto tra le due fazioni e l’inizio della c.d. seconda guerra di mafia.

Per esigenze di completezza e chiarezza espositiva, appare opportuno rilevare, sia pur molto sinteticamente, che il tenace zelo investigativo dell’ufficiale dell’Arma si inseriva nel solco tracciato dal vice-questore Boris Giuliano e che le indagini di entrambi segnarono una svolta in un panorama investigativo che nel decennio precedente aveva fatto registrare una sostanziale stasi, senza alcuna significativa acquisizione probatoria, sicchè, pur ancora in assenza di quello che sarebbe stato il devastante apporto probatorio dei collaboratori di giustizia, le indagini avviate dal primo e proseguite dal secondo assunsero un valore innovativo e dirompente per gli equilibri delle cosche mafiose e per gli stessi vertici dell’organizzazione.

Ed infatti, proprio partendo dai risultati delle indagini avviate dal Dr.Giuliano – ed in particolare dalla scoperta di un covo in Corso dei Mille di Palermo, di altro covo in Via Pecori Giraldi e dal sequestro presso l’aeroporto di punta Raisi (18/6/1979) di due valigie provenienti dagli U.S.A. e contenenti circa 500.000 $, costituente il corrispettivo di una grossa fornitura di eroina spedita dal gruppo Badalamenti-Bontate – dopo l’uccisione del funzionario gli inquirenti redassero il rapporto giudiziario del 25/10/1979 nel quale vennero evidenziati i collegamenti operativi tra alcuni esponenti mafiosi tra i quali Marchese Vincenzo, Bagarella Leoluca, cognato di Riina Salvatore (“famiglia” di Corleone), Anzelmo Rosario, i fratelli Di Carlo della “famiglia” di Altofonte, Bentivegna Giacomo e Gioè Antonino della stessa cosca.

Le emergenze investigative evidenziate nel citato rapporto del 25/10/1979 avrebbero trovato significative conferme, dunque, nelle rivelazioni dei primi collaboratori in ordine agli stretti legami operativi tra le “famiglie” di Partitico, San Giuseppe Jato, Altofonte, Resuttana, San Lorenzo, Ciaculli e Corso dei Mille.

Nel quadro di queste nuove alleanze un ruolo centrale fu svolto dal Riina Salvatore, il quale, facendo leva sulla sua carismatica figura, aveva da tempo introdotto modalità operative con più spiccate connotazioni terroristiche, ripristinando tra l’altro il ricorso ai sequestri di persona per finanziare il traffico di stupefacenti e derogando alla regola della collegialità delle decisioni della commissione in occasione di taluni gravi delitti.

Anche l’omicidio del capitano Basile, secondo le concordi dichiarazioni dei collaboratori Buscetta, Contorno e Marino Mannoia costituì una deroga a quella regola, non essendo stato deliberato nel pieno rispetto della collegialità della commissione, tant’è che, come sopra ricordato, Bontate ed Inzerillo protestarono vivacemente con il Greco Michele – contestandogli la partecipazione di un esecutore materiale, il Puccio, affilato alla sua famiglia – il quale finì poi con l’ammettere che l’ufficiale andava eliminato per la sua tenacia investigativa.

E peraltro, che il Bontate e l’Inzerillo non fossero stati informati della decisione omicidiaria nei confronti dell’ufficiale può desumersi anche alla stregua di valutazioni di ordine logico, atteso che il capitano Basile aveva concentrato e orientato i propri sforzi investigativi nei confronti delle “famiglie” di Corleone, San Giuseppe Jato, Altofonte, Resuttana, San Lorenzo, Ciaculli e Corso dei Mille, notoriamente collegate tra loro ed avverse al gruppo Bontate-Inzerillo, i quali pertanto non avevano alcun interesse a distogliere le attenzioni investigative dell’Arma da quel gruppo.

D’altra parte il Riina, nel perseguire la strategia terroristica di cui era fautore, era portatore di un preciso interesse all’eliminazione di quel pericoloso investigatore nonchè alla stessa reazione repressiva delle istituzioni che avrebbero coinvolto inevitabilmente anche la fazione contrapposta: ciò che ebbe a verificarsi con l’arresto di 53 indiziati di associazione per delinquere affilati prevalentemente alla famiglia dell’Inzerillo, il quale, per dimostrare analoga capacità di determinarsi autonomamente senza informare la commissione, fece uccidere il procuratore della repubblica dell’epoca Dr.Gaetano Costa, che aveva convalidato i fermi.

L’imponente mole di indizi acquisiti nel corso del processo a carico degli imputati dell’omicidio del capitano Basile non poteva non condurre all’affermazione della responsabilità penale del Madonia Giuseppe, quale esecutore materiale, essendo frattanto deceduti il Puccio ed il Bonanno, nonchè del Riina e del Madonia Francesco ed altri………

Risulta sufficientemente provato, pertanto, alla stregua delle risultanze processuali acquisite, e segnatamente delle sentenze irrevocabili fra le quali merita di essere citata quella della S.C. sez. I del 30/1/1992, n.80 che ha definito irrevocabilmente gran parte delle posizioni processuali del procedimento a carico di Abate Giovanni ed altri noto come il c.d. maxiprocesso di Palermo, che fino all’anno 1981, epoca dell’omicidio di Stefano Bontate (23/4/1981), che segnò l’inizio della c.d. guerra di mafia, le ferree leggi dell’unanimismo delle deliberazioni della commissione avevano fatto registrare delle significative deroghe e violazioni riconducibili alle diversità di strategie criminali perseguite dalle due fazioni contrapposte formatesi all’interno dell’organismo direttivo : quella c.d. dei corleonesi ed i loro alleati e quella costituita da Bontate, Inzerillo (capomandamento di Uditore, ucciso nel 1981) e Badalamenti.

L’estromissione di quest’ultimo, ma non anche del Bontate per la sua tenace resistenza ad oltranza, determinò la nomina a capo della commissione di Greco Michele, concordemente definito dai collaboratori personaggio debole e poco autorevole, non in grado di ricostituire l’omogeneità dell’organizzazione e ristabilire il rispetto della regola della collegialità delle deliberazioni.

Ben presto i corleonesi riuscirono ad assicurasi il controllo egemonico dell’organizzazione attraverso l’eliminazione di tutti i componenti avversi, sostituendoli con uomini di fiducia.

I pur significativi episodi di deviazione dalla regola della collegialità delle decisioni appaiono comunque correlati a periodi storici connotati da una netta contrapposizione tra opposte fazioni all’interno dell’organizzazione oppure da specifici comportamenti di singoli associati, ed i gravi fatti omicidiari che di quella deroga costituiscono espressione appaiono pur sempre funzionali alle mire egemoniche di uno schieramento sull’altro.

Così è avvenuto, in primo luogo, per gli omicidi di personaggi di spicco dell’organizzazione (per es. Di Cristina) in relazione ai quali il rispetto della regola ed il preventivo assenso dell’organismo di vertice erano di per sé

incompatibili con lo stesso oggetto della deliberazione che aveva come obiettivo l’eliminazione punitiva di un avversario, sicchè la successiva riunione della commissione – come quella tenutasi a “Favarella”, dopo l’esecuzione dell’omicidio Di Cristina, nel corso della quale si era registrata la protesta del Bontate e dell’Inzerillo – non può non evocare l’idea di una funzione di ratifica.

Va tuttavia rilevato che la crisi del 1978 era stata determinata dal coinvolgimento del Di Cristina nell’uccisione del Madonia e dalle accertate responsabilità del Badalamenti, per tale ragione espulso, mentre il Bontate aveva sfidato chiunque a addurre prove certe a suo carico.

Orbene, tali avvenimenti, contrassegnati da un episodico contrasto ai margini della figura del Di Cristina, non avevano determinato un’aperta rottura degli equilibri, se è vero che l’organizzazione aveva finito con il trovare nelle sue “sedi istituzionali”, attraverso inchieste e processi, la fisiologica soluzione dei conflitti.

Gli assetti organizzativi del sodalizio erano quindi così saldamente legati alle regole fisiologiche di funzionamento che anche l’innesto di momenti di crisi, dovute a specifici comportamenti degli associati, ne restava normalmente assorbito.

Ma anche per gli omicidi di alcuni uomini delle istituzioni il dissenso della “minoranza”, non preventivamente informata della determinazione omicidiaria, era correlabile a diversità di strategie ovvero alla carenza di un interesse specifico di una fazione e per converso ad un forte movente(per es. vendetta ) per quella maggioritaria filocorleonese.

Ed invero, alcuni omicidi eccellenti, come sopra ricordato, sembrano rispondere ad una perversa strategia di contrapposizione, per esempio per dimostrare ad una parte avversa di essere tanto forti da poter commettere un delitto eclatante (per es. l’omicidio del Procuratore della Repubblica Costa) o, perfino, per far ricadere la colpa sugli altri.

1 Agosto 2020

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