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Tutto cominciò una mattina del 1983… QUANDO NOI PARLIAMO DI……..FRAMMENTAZIONE DELLE INCHIESTE  E DI IMPEDIMENTO ALLA VISIONE DI INSIEME.PIU’ ESPLICITI ? A SPERLONGA,IN PROVINCIA DI LATINA,PUR IN PRESENZA PIU’ O MENO DELLE STESSE PERSONE INDAGATE,SONO STATI APERTI 5-6  FASCICOLI.COSI’ L’ASSOCIAZIONE NON EMERGERA’ MAI

Tutto cominciò una mattina del 1983…

25 Maggio 2018

Di Giuseppe Di Lello – Magistrato in pensione, nei primi anni ’80 componente del pool antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo

Tutto inizia la mattina del 29 luglio 1983 quando il consigliere istruttore Rocco Chinnici viene ucciso con un’autobomba insieme ai carabinieri maresciallo Mario Trapassi e brigadiere Edoardo Bartolotta e al portiere dello stabile Stefano Lisacchi; si salva l’autista Giovanni Paparcuri che poi sarà il prezioso dattilografo – informatico del pool e ora ne custodisce la memoria nel piccolo museo realizzato proprio nelle stanze dove lavoravano Falcone e Borsellino.

Chinnici aveva attuato un cambio di passo dell’ufficio istruzione dando all’azione di contrasto alla mafia una priorità assoluta: in particolare istruiva lui stesso alcuni processi di mafia e ne assegnava altri a pochi giudici, Borsellino e Falcone innanzitutto. Aveva intensificato al massimo i controlli bancari, fino ad allora scarsamente disposti, e inoltre seguiva anche l’andamento dei processi assegnati ad altri giudici. Ricordiamoci che siamo con il vecchio codice, il giudice istruttore era il dominus del processo e il consigliere istruttore non aveva alcun potere di “direzione”, ma già allora cominciavamo a capire che era utile dar conto del proprio lavoro e confrontarsi con chi aveva più esperienza. Giudici preparati e motivati c’erano e c’erano stati (Rizzo, Vigneri ecc.); con cadenza decennale c’erano stai grandi processi ai mafiosi dopo episodi criminali eclatanti a partire da quello per la strage di Portella della Ginestra (1 maggio ’47) con il processo spostato a Viterbo per legittima suspicione o altri ancora istruiti da Cesare Terranova contro gruppi di 114, 115 o 116 mafiosi, sempre gli stessi, con qualche vecchio in meno e qualche giovane in più. Allora però il codice puniva solo l’associazione a delinquere semplice, aggravata tutt’al più dalla scorreria in armi, ma con molte assoluzioni per insufficienza di prove perché il supporto probatorio era carente, basato su vecchi rapporti di polizia riciclati, fonti confidenziali e poco altro, spesso troppo poco per reggere in dibattimento. C’è da rilevare però che in alcuni di quei rapporti si parlava di summit di mafiosi a Palermo, Milano, Zurigo, Lima, Santiago o New York, mai seguiti e indagati con più attenzione per l’acquisizione di una qualche prova in più da portare in giudizio.

A Rocco Chinnici succede Caponnetto

Nella magistratura e nella polizia giudiziaria non c’era una professionalità al passo con i tempi e soprattutto c’era un fatalismo fondato sull’idea che l’omertà, l’assenza costante di prove, le collusioni, le stesse strutture sociali e politiche dei siciliani cementate in un assetto di potere che teneva dentro di sé una parte importante della magistratura nonché gli interessi di una borghesia mafiosa e parassitaria, rendevano difficile se non impossibile il contrasto giudiziario della mafia.

Negli anni ’70 e ’80 i morti ammazzati si contavano a centinaia ogni anno, più del terrorismo che però, visto come problema nazionale, egemonizzava le forze politiche e di governo mentre la mafia era vista come un fenomeno regionale, marginale nonostante i c.d. omicidi eccellenti che stavano azzerando i vertici della regione: Terranova, Chinnici, Costa, La Torre, Dalla Chiesa, Mattarella, Giuliano, Cassarà, Montana, Basile, D’Aleo: pensate se questo eccidio di classe dirigente fosse stato consumato altrove, in Lombardia o in Piemonte!

Qualcosa cominciava a cambiare a livello istituzionale. La legge proporzionale per il CSM democratizzava quest’organo di autogoverno e consentiva di portare ai vertici degli uffici giudici come Costa che altrimenti non ci sarebbero arrivati. Di supporto alla magistratura vengono inviai i migliori uomini delle forze dell’ordine, funzionari che collaboreranno direttamente con il pool e poi arriveranno ai vertici delle loro strutture: De Gennaro, Pansa, Manganelli, Pellegrino, Parente, Gibilaro e molti altri, non dimenticando Cassarà, Montana, Antiochia, Zucchetto, D’Aleo, Basile e gli agenti delle scorte, tutti trucidati proprio nel corso di quella fase di massimo impegno giudiziario contro la Mafia. Come successore di Chinnici il Csm nomina subito, e quasi all’unanimità, Antonino Caponnetto (63 anni) giudice nel Tribunale di Firenze che si insedia l’11 novembre di quell’anno. Caponnetto viene con le idee abbastanza chiare su come organizzare il lavoro dell’ufficio in tema di mafia, idee mutuate dai colleghi che operavano contro il terrorismo.

Il primo pool investigativo

Bisognava innanzitutto avere una visione d’insieme di una mafia che già si intuiva essere un’organizzazione strutturata e unitaria e quindi unificare tutti quei processi, che allora erano assegnati a singoli magistrati, in un unico contenitore, in un unico processo che Caponnetto assegnava a se stesso per poi delegare per la trattazione, costantemente e non atto per atto, ad un pool di magistrati sotto la sua supervisione e responsabilità: tutti potevano fare tutto, agendo ovviamente con coordinazione tra di loro e dividendosi i compiti: era “l’uovo di Colombo” escogitato per un efficace contrasto alla mafia.

Molti processi, per gli imputati, per le famiglie mafiose di appartenenza, per gli episodi di criminalità, erano chiaramente interconnessi, ma venivano trattati singolarmente e i nessi sfuggivano, senza una chiara visione dell’insieme: si pensi ai singoli omicidi che però si inquadravano in un più ampio disegno criminale (lo sterminio dei familiari di Buscetta, quello di molti abitanti di via Imperatore Federico dove abitava la famiglia di Contorno), si pensi alle rapine che i giovani criminali facevano per accumulare risorse che poi venivano impiegate nel contrabbando di tabacchi o nel traffico di stupefacenti che altri erano incaricati di gestire o ancora a singoli sequestri di carichi di tabacchi o di morfina base a carico di criminali napoletani (Zaza, Bardellino, Nuvoletta) connessi con le attività delle famiglie mafiose siciliane in una delle quali (Michele Greco) erano stati organicamente inseriti.

Il primo pool era composto proprio dai giudici che in quel momento avevano processi di mafia: Falcone, Borsellino e Di Lello. Poi crescendo la mole delle indagini si allargherà a Guarnotta e a molti altri, sempre disposti ad operare in coordinamento e senza tendenze a primeggiare. Falcone di fatto, anche se non poteva esserlo di diritto, era il capo indiscusso del pool per la capacità che gli riconoscevamo e senza nessuna riserva mentale. Lui e Borsellino avevano una gande capacità di lavoro, una gande memoria e, da siciliani, una grande comprensione del fenomeno. Nelle riunioni pomeridiane, pressoché quotidiane quando eravamo in sede, si discuteva delle decisioni più importanti da prendere e anche se ognuno di noi era incaricato di seguire un settore non poteva sottrarsi alla decisione “collegiale”: Falcone si occupava principalmente dei rapporti con tribunali e polizia giudiziaria nazionali e possiamo dire di mezzo mondo: grande collaborazione con FBI e giudici svizzeri (Bernasconi e Dal Ponte), con Borsellino dei grandi omicidi; Guarnotta principalmente delle inchieste bancarie; io di un centinaio di omicidi “minori” e sempre seguendo anche tutto il resto perché non sfuggisse l’insieme.

Per avere una idea della complessità delle indagini bisogna partire, come detto, dall’assunto di base che vedeva la mafia come una associazione rigidamente strutturata e centralizzata, con un vertice chiamato “cupola” e con Palermo sua sede naturale. Da ciò la competenza per tutti i fatti criminosi che erano riconducibili a Cosa nostra, ovunque fossero consumati.

Crolla il mito della mafia imprendibile

In quella fase, inoltre, la mafia era egemone nel traffico di stupefacenti (morfina base e eroina) e per gestirlo con più efficienza aveva cooptato nella famiglia di Michele Greco i contrabbandieri napoletani Nuvoletta, Zaza e Bardellino. Il circuito del traffico e delle transazioni, per la droga e per i tabacchi, era imponente: il “triangolo d’oro”, la Turchia, il Montenegro, i porti di tutti i paesi del Mediterraneo (compresi quelli oltre la “cortina di ferro”), con i pagamenti nei paradisi fiscali come la Svizzera. Si dovevano svolgere indagini su tutte questa connessioni criminali e finanziarie e non era semplice. Il rapporto con le polizie e i giudici di mezzo mondo, fondato come detto sulla grande affidabilità del pool, era, comunque, fondamentale e non è un caso se l’FBI ha un busto di Falcone nella sua sede centrale e se da 25 anni partecipa con una sua delegazione alle commemorazioni del 23 maggio.

C’era da gestire un numero impressionante di imputati (più di quattrocento) molti dei quali detenuti: io ne ho avuto in carico fino a 120, ma gli altri non erano da meno. All’esterno si ebbe la sensazione che questa volta lo Stato o, comunque, il suo braccio repressivo, faceva sul serio. Da qui la credibilità del pool anche presso i mafiosi e quindi il pentitismo che fino a quel punto era stato respinto come impensabile persino dalla magistratura. Si ricordi la tragica esperienza di Leonardo Vitale che aveva già parlato di Ciancimino, Pippo Calò ed altri: non era stato creduto e, considerato un pazzo, era stato internato in un ospedale psichiatrico giudiziario. Pazzo però non era stato considerato dalla Mafia che, alla sua dimissione, lo aveva ucciso.

Si viaggiava molto spesso, sia in Italia, sia all’estero dove si correva subito appena si sapeva che un mafioso o un trafficante era stato arrestato per fatti che potevano interessare anche le nostre inchieste, da Suez a Bangkok o a Londra. Si correva “a caldo” anche se già allora i denigratori chiamavano “turismo giudiziario” questo attivismo. Si sfatava il mito di una mafia imprendibile, che non lasciava prove o tracce di sé: bastava solo cercare. Intercettazioni telefoniche anche del passato, controlli degli elenchi dei passeggeri degli aerei (così venne scoperto Sindona e il suo finto rapimento), soggiorni in alberghi, società, imprese, consigli di amministrazione e, soprattutto, le banche: quello de controllo bancario i mafiosi proprio non se lo aspettavano e dalle indagini bancarie venivano prove di connessione con traffici illeciti, tabacchi ed eroina innanzitutto. Bisogna anche ricordare che a quel tempo non esistevano supporti informatici e si poteva indagare solo grazie al grande impegno della Guardia di Finanza, mentre poi noi annotavamo tutto a mano, su delle rubriche……

L’unico supporto tecnico: un’Olivetti

Il primo rapporto organico sulla mafia, datato 13 luglio 1982 e redatto dalla Squadra Mobile e dal Nucleo operativo dei Carabinieri contro Michele Greco + 160 , con più di duecento pagine, era stato battuto interamente a macchina e sarà proprio la macchina da scrivere l’unico “supporto tecnico” del processo. C’era il problema di seguire, annotare e connettere una gande mole di dati, imputati che man mano crescevano di numero, episodi criminali ed altro e per far ciò ci si aiutava, come ho detto, con delle rubriche sulle quali si annotavano tutti i riferimenti: una computerizzazione manuale immensa.

Si operava con grande serietà. Innanzitutto niente sciatteria nelle indagini ma una puntuale verifica di tutto ciò che poteva essere rilevante. Niente missive burocratiche, deleghe solo alla nostra polizia giudiziaria e poi i molti contatti con le polizie e gli uffici giudiziari in Italia e all’estero. Esempi della sciatteria del passato. Nel maggio del ’78 ammazzano a Palermo Beppe Di Cristina potente boss di Riesi e gli trovano addosso un pacchetto di assegni circolari tratti da un’agenzia di Napoli del banco di Napoli. Senza nemmeno fotocopiarli gli inquirenti di allora mandano gli assegni alla procura di Napoli “per competenza”. Dopo qualche anno quella procura, non sapendo ovviamente cosa farne, fortunatamente rimandano gli assegni a Palermo e così scopriamo che sono il profitto di un contrabbando di sigarette che Di Cristina divideva tra i mafiosi complici nell’affare: attività illecite, nomi e connessioni utilissimi per le indagini già nel ’78 e maldestramente ignorati per anni. Altro esempio. Ammazzano in Canada uno sconosciuto Michael Pozza, faccendiere che però faceva la spola tra il Canada e Palermo per reperire investimenti e addosso gli trovano un appunto con i nomi “Zummo” e “Civello” (costruttori edili legati a Vito Ciancimino). La polizia canadese scrive alla Squadra Mobile di Palermo per sapere qualcosa su quei due nomi, ma la richiesta, seppellita in un cassetto, non riceverà mai risposta. Anni dopo, quando indagando su Ciancimino si arriva anche ai due costruttori, la Polizia si ricorda di quella richiesta e così Leonardo Guarnotta vola in Canada e si scoprono gli investimenti che lo stesso Ciancimino stava facendo lì da anni.

Dovette difendersi davanti al Csm

Si richiamavano e si andavano a rileggere tutti i processi già conclusi per valorizzare episodi che, alla luce delle nuove indagini, potevano aggiungere ulteriori prove di connessione tra vari imputati e varie imprese criminali. Niente veniva trascurato, niente veniva trattato burocraticamente, niente veniva insabbiato, anche se poi Giovanni Falcone nell’ottobre del ’91 davanti alla prima commissione referente del Csm si dovrà difendere (puntualmente e anche con un po’ della sua solita ironia) dalle “accuse mosse dal prof. Leoluca Orlando” in un esposto presentato dall’Avv. Zupo e firmato dallo stesso Orlando, nonché dal prof. Alfredo Galasso e dall’On. Carmine Mancuso per “doveri trascurati”: i processi nascosti nei cassetti. Oggi fortunatamente quel verbale di seduta è stato integralmente pubblicato dal Csm insieme a tanti altri atti che concernono la carriera giudiziaria di Falcone in palese chiave riparatoria nei confronti dello stesso. A monte di questa serietà investigativa vi era comunque la regola ferrea dell’assoluto riserbo sulle indagini. Buscetta si pente e Falcone e Geraci lo ascoltano presso la Questura di Roma per quasi due mesi. I verbali e la stessa circostanza del pentimento sono noti a noi, a vari Pm, alle forze di polizia giudiziaria che man mano devono cercare i riscontri, ma nessuno parla, niente trapela all’esterno proprio per non bruciare l’inchiesta e non mettere sul chi vive i mafiosi.

Il metodo

Questo era il metodo di Giovanni Falcone che non aveva mai pensato di poter mettere in crisi le istituzioni o le gerarchie con polemiche o pubblici proclami, anche quando, umanamente, lo avrebbe potuto fare, arrivando a dare una mano a Meli quando questi decise di “spacchettare” la maxi inchiesta e non sapeva come farlo: Meli ormai era il suo capo e non bisognava fargli fare una brutta figura! Questo metodo di lavoro, questa riservatezza, questo rispetto delle istituzioni, questo “senso dello stato” gli sono stati riconosciuti dal Consiglio superiore della magistratura nella seduta plenaria del 22 maggio (anche se a venticinque anni dalla strage di Capaci) e il successivo 23 nell’aula bunker di Palermo, con la presenza, in entrambe le circostanze, del Capo dello Stato: una staffetta simbolica tra il Csm, istituzione nella quale credeva molto, tanto da candidarsi per cercare di farne parte e anche da qui combattere la Mafia (bocciato non per l’intervento di “poteri forti” ma per mere beghe elettorali e correntizie) e l’aula del dibattimento del maxiprocesso dove, invece, aveva ottenuto il più grande successo giudiziario di tutti i tempi contro la Mafia. Questa specie di pendolarismo tra sconfitte e successi, con la costante fiducia nelle istituzioni della Repubblica, quali che fossero e da chiunque fossero rette, è stata una delle componenti fondamentali della sua personalità: le critiche, specie da sinistra (dell’esposto dell’avv. Zupo si è già detto), a questa fiducia nelle istituzioni, fossero pure in mano ai socialisti di allora, non lo hanno mai scalfito, né lo hanno fatto tentennare.

Teorema senza riscontri

Con il nuovo codice di procedura penale, transita alla procura come aggiunto ma qui l’aria è cambiata ed è usato solo come la foglia di fico, impedito però di svolgere quella frenetica attività investigativa cui era abituato. Quindi la decisione di andarsene a Roma al ministero della giustizia retto da Martelli, come direttore generale degli affari penali: una postazione istituzionale da lui ritenuta strategica per la lotta alla mafia. Da qui continua ad organizzare la superprocura e, soprattutto, convince i vertici della Cassazione ad attuare una rotazione nella assegnazione dei processi di mafia: salva così il maxiprocesso con la conferma integrale della sentenza di primo grado e la condanna dei mafiosi, gli ergastoli e le lunghe pene detentive: altro che salito sul carro dei socialisti!

Per Totò Riina e la mafia la misura era colma: l’inevitabile sentenza di morte è eseguita il 23 maggio. E’ stata solo la mafia o ci sono state altre “entità” esterne? Da anni giornalisti e magistrati si affannano a ripetere che, forse, potrebbero esserci state ma, senza prove, seguendo il “metodo Falcone” questo resta solo un teorema senza riscontri, utilizzabile solo per polemiche. Bisogna ricordare che proprio Falcone, nel suo libro scritto con la Padovani, assegnava al reato di 416 bis la funzione di aprire un’inchiesta e non più di tanto, ma poi ci volevano le prove di fatti concreti, di reati, per andare a giudizio. Certo, ci sono circostanze acclarate, con i soliti “collettori di carte” all’opera, dalla cassaforte del generale Dalla Chiesa trovata vuota, ai computer di Falcone ripuliti, alla agenda di Borsellino scomparsa, alla incredibile mancata perquisizione del covo di Totò Riina e si spera sempre che qualcosa, prima o poi, emerga. Fino ad ora però rimane l’indubbia certezza della responsabilità della mafia che di “ragioni” autonome per uccidere Falcone ne aveva in abbondanza.

In questi giorni è uscito il libro di Giovanni Bianconi “ L’assedio”, un’opera di rigorosa ricostruzione della vita giudiziaria e delle relative vicissitudini di Giovanni Falcone. Non sono però d’accordo sulla tesi di fondo, di un Falcone delegittimato, sconfitto, isolato e per questo offerto come vittima sacrificale alla Mafia. Le sconfitte, oltre all’amarezza dei tanti tradimenti, non avevano intaccato la sua combattività e poi quel termine “isolato” è proprio fuori luogo. Lui, il potente direttore generale degli affari penali, in grado di incidere anche sulla rotazione dei processi in Cassazione, l’inventore della superprocura, legittimato dalla carica e dalla riconosciuta professionalità a utilizzare nella lotta alla mafia tutte le leve nazionali e internazionali, dall’ Fbi in giù, isolato, e da chi, da cosa? Falcone è stato ucciso per tutto quello che aveva fatto e che avrebbe potuto fare, né più, né meno. E poi, se fosse stato nominato consigliere istruttore o superprocuratore, la Mafia si sarebbe fermata nel vederlo “legittimato” dal Csm o non avrebbe rafforzato la decisione di levarselo di torno? Oggi, grazie anche all’esempio del suo metodo, ci sono in tutta l’Italia centinaia di processi contro le organizzazioni criminali, i boss delle mafie nostrane sono tutti in carcere: la battaglia continua, ma non è più impari.

 

Fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it