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Trattativa, i giudici: “Stato indebolito dai suoi esponenti. Paese in mano ai boss se fosse riuscito l’attentato all’Olimpico”

Il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2018

Trattativa, i giudici: “Stato indebolito dai suoi esponenti. Paese in mano ai boss se fosse riuscito l’attentato all’Olimpico”

Uno scenario terrificante che non si è avverato solo per una coincidenza. Anzi tre. Lo spiega la corte d’Assise nelle motivazioni della sentenza sul Patto Stato – mafia: “L’occasionale fallimento della strage, l’arresto dei fratelli Graviano, l’affacciarsi di nuove forze politiche che soltanto col successivo declino mafioso sarebbero riuscite ad acquisire la necessaria autonomia inizialmente compromessa da risalenti rapporti di tipo economico/elettorale tra taluni suoi esponenti di primo piano e soggetti più o meno direttamente legati a Cosa nostra”. Il riferimento è chiaramente per Forza Italia, il partito di Dell’Utri e Berlusconi

di Giuseppe Pipitone e Giovanna Trinchella

Lo Stato doveva capitolare con una Lancia Thema color bordeaux. Un “colpo di grazia” che avrebbe messo definitivamente in ginocchio le già deboli istituzioni democratiche: i partiti bombardati dagli arresti di Tangentopoli, il Paese dalle stragi Cosa nostra, il governo dimissionario e le Camere già sciolte. Andò in modo diverso. C’è un giorno che cambia la storia italiana. Quel giorno è il 23 gennaio del 1994 ed è una domenica: allo stadio Olimpico la Roma gioca contro Udinese. Ci sono bambini, famiglie, tifosi che vanno a vedere la partita. Ma anche carabinieri, centinaia di militari che garantiscono il servizio d’ordine dello stadio. Fuori dall’Olimpico, invece, c’è un uomo da solo: si chiama Gaspare Spatuzza e ha in mano un telecomando. È collegato alla Lancia Thema bordeaux, imbottita di tritolo e tondini di ferro perché è così che ha ordinato il boss Giuseppe Graviano: Spatuzza deve fare strage dei carabinieri, “un bel po’ di carabinieri, no due, tre, quattro”.  Graviano lo chiama “il colpettoma in realtà sarebbe stata la botta definitiva per mettere il Paese in mano a Cosa nostra. E invece il Paese finì saldamente in pugno a Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri: i due nomi che proprio in quei giorni di gennaio del 1994 Graviano indica a Spatuzza come i suoi interlocutori.

C’è anche la storia del fallito attentato allo stadio Olimpito nelle 5252 pagine delle motivazioni della sentenza sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Doveva essere l’ultima strage, la sesta in un anno e mezzo, quella più grossa, la peggiore di tutte. E invece – per fortuna – è saltata a causa di motivi tecnici: un guasto al telecomando, ha raccontato Spatuzza. Imprevisto provvidenziale: per anni di quella carneficina non si è mai saputo nulla. Nonostante sia probabilmente la più fondamentale delle sliding doors della storia recente. “Costituisce forte convinzione della corte, alla stregua del complesso di tutte le acquisizioni probatorie raccolte, che quell’episodio dell’attentato allo stadio Olimpico di Roma, passato quasi in secondo piano perché per fortuna fallito, se, invece, fosse riuscito ed avesse, quindi, determinato la morte di un così rilevante numero di carabinieri, avrebbe con ogni probabilità veramente messo in ginocchio lo Stato pressoché definitivamente dopo la sequenza delle gravissime stragi che si erano già susseguite dal 1992, ciò tanto più che l’ulteriore strage (la più grave per numero di vittime) sarebbe intervenuta in un momento di estrema debolezza delle Istituzioni a fronte di un Governo di fatto già dimissionario e di un Parlamento già proiettato verso le imminenti elezioni politiche nel contesto di una campagna elettorale particolarmente aspra per le scorie della cosidetta Tangentopoli che aveva travolto tutti i partiti politici tradizionali”, scrivono i giudici della corte d’Assise di Palermo a pagina 2842 del provvedimento con cui nei fatti riscrivono la fine della Prima Repubblica e la nascita della Seconda.

È ferma convinzione della Corte che senza l’improvvida iniziativa dei carabinieri e cioè senza l’apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al Governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista meramente e chiaramente di carattere vendicativo riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina, si sarebbe inevitabilmente esaurita con l’arresto di quest’ultimo nel gennaio 1993”, scrivono i giudici. Vuol dire che se gli uomini di Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno non avessero dimostrato voglia di interloquire con Cosa nostra le stragi di Roma, Firenze e Milano nel 1993 non ci sarebbero mai state.

Il giorno che cambia la storia d’Italia

Il presidente Alfredo Montalto ricostruisce il clima politico è istituzionale dell’epoca: il governo Ciampi si era dimesso, Oscar Luigi Scalfaro aveva sciolto le Camere fissando nuove elezioni per marzo, alle quali molti dei partiti presenti in quel momento in Parlamento non si sarebbero neanche presentati. La Prima Repubblica era già morta ma non lo sapeva nessuno. “Allora, pur volendo evitare qualsiasi enfasi, non può non ritenersi che quella strage avrebbe sicuramente cambiato (ovviamente in maniera tragica) la storia di questo Paese, aprendo la porta ad una fase di instabilità e di incontrollabilità del fenomeno mafioso foriera di esiti, sì, imprevedibili, ma certamente tutti gravemente negativi per la sopravvivenza stessa delle Istituzioni democratiche”, è la considerazione della corte d’Assise. Una scenario di caos in cui è Cosa nostra che prende in mano lo Stato. Uno scenario terrificante che non si è avverato solo per una coincidenza. Anzi tre. È sempre la corte a metterle in fila: “L’occasionale fallimento dell’attentato unitamente all’arresto dei fratelli Graviano che di lì a pochi giorni sarebbe avvenuto a Milano,ha mutato il corso delle cose e forse “salvato” il Paese da anni sicuramente bui e tristi. Quale è la terza coincidenza? “L’affacciarsi anche di nuove forze politicheche soltanto col successivo declino mafioso sarebbero riuscite ad acquisire la necessaria autonomia di azione, inizialmente compromessa da risalenti rapporti di tipo economico/elettorale tra taluni suoi esponenti di primo piano e soggetti più o meno direttamente legati a Cosa nostra. Il riferimento è chiaramente per Forza Italia, il partito di Dell’Utri e Berlusconi, legato economicamente a Cosa nostra, votato dai boss, che alla prima esperienza di governo si fa segnalare – lo raccontano sempre le motivazioni della sentenza – perché inseriva nei decreti legge provvedimenti a favore della mafia anticipati in via esplusiva da Dell’Utri a Vittorio Mangano.

“Lo Stato indebolito dai suoi stessi rappresentanti”

Ma perché i giudici chiamati a giudicare la sussistenza o meno del reato di violenza o minaccia a un corpo politico dello Statosi occupano di un fallito attentato e di come avrebbe potuto cambiare la storia italiana? “Tali considerazioni, ancorché apparentemente estranee alle competenze della Corte, appaiono necessarie per sottolineare come ancora una volta in quelle vicende si sia dimostrata fallace e illusoria la speranza di coloro che ritennero di potere attenuare la pressione del fenomeno mafioso mediante politiche ‘al ribasso’ nell’azione di contrasto al fenomeno medesimo e forme di convivenza con questo purché venissero abbandonati i picchi più eclatanti ed evidenti dell’azione criminale che maggiormente allarmavano (e allarmano) l’opinione pubblica”. Un giudizio che vale un’intera sentenza e su cui però i magistrati presieduti da Alfredo Montalto, aggiungono: “Ciò seppure occorra distinguere, poi, tra coloro che, più o meno implicitamente, ma, comunque, consapevolmente, sollecitarono tali forme di convivenza mediante intese più o meno sotterranee e coloro che, come il ministro Conso (Giovanni, ministro della Giustizia dal 13 febbraio 1993 al 10 maggio 1994 ), con una diversa consapevolezza che atteneva non già alla suddetta scelta sollecitatoria, ma solo alla ritenuta obbligatorietà morale di una decisione finalizzata ad evitare nefaste conseguenze, furono, di fatto, soltanto vittime della violenza della minaccia mafiosa”. Tradotto: prima arrivare a quel mancato colpo di grazia ci vollero tutta una serie di colpi precendenti che indebolirono le istituzioni. E quei colpi non sono solo le stragi, ma soprattutto la disponibilità al dialogo dimostrata dai vertiti dei carabinieri del Ros.

 “Senza la Trattativa del Ros nessun strage nel 1993”

Il cedimento dello Stato, già, di fatto, come si vedrà, iniziato dopo le stragi del 1992 per iniziativa di alcuni suoi esponenti (il Ros di Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno ndr) ed ancor più evidenziatosi dopo le stragi del 1993, sarebbe divenuto inarrestabile per l’impossibilità di fronteggiare quell’escalation criminale, senza pari nella storia del Paese, in un momento di forte fragilità delle Istituzioni, già travolte dal fenomeno di “mani pulite, e di conseguente instabilità per l’affacciarsi anche di nuove forze politicheche soltanto col successivo declino mafioso sarebbero riuscite ad acquisire la necessaria autonomia di azione, inizialmente compromessa da risalenti rapporti di tipo economico/elettorale tra taluni suoi esponenti di primo piano e soggetti più o meno direttamente legati a Cosa nostra”.  Per i giudici gli effetti che “quell’improvvida iniziativa dei carabinieri ebbe nel tramutare la pregressa strategia mafiosa di totale ed incondizionata contrapposizione allo Stato decisa dopo la sentenza del ‘maxi processoin quella nuova di sfruttare la debolezza oggettivamente manifestata dallo Stato (perché, per i mafiosi, Mori rappresentava, appunto, lo Stato, stante ciò che lo stesso Mori aveva fatto loro intendere) allorché aveva chiesto loro quali fossero le condizioni per porre termine alle stragi e, quindi, stabilire, appunto, tali condizioni (prime delle quali non potevano che essere il miglioramento della condizione carceraria e l’eliminazione dell’ergastolo) e, poi, “ricordarle” ancora con le successive stragi del 1993 al fine di piegare definitivamente la resistenza dello Stato”. Praticamente per la corte d’Assise è l’atteggiamento dei carabinieri che crea delle aspettative in Cosa nostra. E Cosa nostra conosce solo un modo di dialogare: mette le bombe. “È ferma convinzione della Corte che senza l’improvvida iniziativa dei carabinieri e cioè senza l’apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al Governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista meramente e chiaramente di carattere vendicativo riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina, si sarebbe inevitabilmente esaurita con l’arresto di quest’ultimo nel gennaio 1993”. Vuol dire che se gli uomini di Mori non avessero dimostrato voglia di interloquire con Cosa nostra le stragi di Roma, Firenze e Milano nel 1993 non ci sarebbero mai state.

Lanciare un messaggio ai carabinieri”

Ed è proprio per quel motivo che alla fine del 1993 Graviano chiede a Spatuzza di ammazzare carabinieri. Cosa che avviene in Calabria il 18 gennaio.  Per i giudici Cosa nostra e ‘ndrangheta in quel periodo furono unite da “comuni strategie attuate per contrastare la repressione dello Stato ed ottenere benefici per i detenuti”. Pochi mesi prima il Governo aveva mostrato di “recepire la minaccia delle cosche mafiose siciliane, lasciando decadere, nel novembre 1993, moltissimi provvedimenti applicativi del regime del 41 bis” e Cosa nostra aveva “immediatamente percepito e raccolto quel segnale di cedimento dello Stato rispetto alla linea della fermezzapropugnata e ritenuto, conseguentemente, che l’accettazione del dialogo sollecitato dai carabinieri – ragionano i giudici – stesse producendo i suoi frutti e che sarebbe stato utile, per la stessa cosa nostra, costringere i carabinieri a riallacciare le fila di quel dialogo interrottosi con l’arresto di Vito Ciancimino. Da qui la necessità di lanciare un messaggio che coloro che tra i carabinieri erano a conoscenza dei pregressi fatti ed approcci avrebbero potuto ben percepire”.

Dell’Utri, Graviano e Spatuzza tutti in 50 metri

Incontrai Giuseppe Graviano all’interno del bar Doney in via Veneto, a Roma. Graviano era molto felice, come se avesse vinto al Superenalotto, una Lotteria. Poi mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di Canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani. E per Paese intendo l’Italia. Quindi mi spiega che grazie a queste persone di fiducia che avevano portato a buon fine questa situazione, che non erano come quei quattro crasti (cornuti ndr) dei socialisti”. A quel punto arriva la richiesta: “Graviano mi dice che l’attentato ai carabinieri si deve fare lo stesso perché gli dobbiamo dare il colpo di grazia”, è il racconto di Spatuzza. Nello stesso periodo proprio Dell’Utri si trova nella capitale a pochi metri dal bar Doney: il 22 gennaio 1994, infatti, era in programma una convention di Forza Italia allhotel Majestic, sempre in via Veneto. Secondo gli accertamenti della Dia l’arrivo dell’ex senatore in albergo – a circa 50 metri dal bar Doney – è registrato il 18 gennaio. È possibile che Graviano abbia incontrato Dell’Utri negli stessi giorni in cui dava quegli ordini a Spatuzza? Di sicuro c’è solo che il 26 gennaio Berlusconi aveva ufficializzato il suo ingresso in politica. E il 27 gennaio vengono arrestati Giuseppe e Filippo Graviano.”Lo sai cosa scrivono nelle stragi? Nelle sentenze delle stragi, che poi sono state assoluzione la Cassazione e compagnia bella: le stragi si sono fermate grazie all’arresto del sottoscritto“, dice intercettato il boss di Brancaccio. E in effetti da allora non un solo colpo sarà sparato nella Penisola, nuovo regno della pax mafiosa.

Il fallitto attentato, l’arresto di Graviano, la vittoria di Forza Italia

Una ricostruzione riscontrata dai giudici. “Il punto di svolta del declino mafioso si è verificato, a parere della Corte, nel gennaio 1994 col fallimento del progettato attentato allo Stadio Olimpico di Roma e con l’arresto di Giuseppe Graviano (insieme a quello del fratello Filippo), che più si era impegnato per tale ulteriore strage, avendo la capacità economica e, soprattutto, l’intelligenza (criminale) organizzativa e direttiva, che, invece, per fortuna di questo Paese, sarebbe, poi, mancata ai residui propugnatori della strategia stragista Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca(stante il ruolo più defilato volontariamente assunto da Bernardo Provenzano, il quale, per portare avanti i suoi affari aveva necessità di una sorta di patto di non belligeranza con lo Stato)”, scrive Montalto. “La storia non si fa con i se, ma le risultanze di questo processo – e della ricostruzione storica sottesa – inducono fondatamente a ritenere, tuttavia, che quella ulteriore strage, con la possibile uccisione di oltre cento carabinieri, se fosse riuscita, avrebbe messo definitivamente in ginocchio lo Stato, costringendolo a capitolare a fronte delle sempre più pressanti minacce provenienti dall’organizzazione mafiosa siciliana che avevano, ormai, trasceso i stretti confini regionali, coinvolgendo altre realtà criminali (camorra, ‘ndrangheta e mafia pugliese) e altri territori di particolare importanza anche per la rilevanza internazionale (come nel caso delle città di Roma, Firenze e Milano)”. E invece no. Perché l’attentato all’Olimpico è fallito e non verrà più ordinato: Graviano viene arrestato tre giorni dopo. Ventiquattro ore prima Berlusconi aveva ufficializzato la sua discesa in campo con Forza Italia. La Lancia Thema color bordeaux non servirà più. Lo Stato non è stato messo in ginocchio. Non con la strage di carabinieri, almeno.