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Trattativa, Di Matteo: ”Quirinale assecondò il tentativo di Mancino di condizionare i giudici”

Processo trattativa Stato-Mafia

Trattativa, Di Matteo: ”Quirinale assecondò il tentativo di Mancino di condizionare i giudici”

 

Pubblicato: 12 Gennaio 2018

“Ex senatore era ossessionato da possibile confronto con Martelli”
di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari
Da parte del “privato cittadino” Nicola Mancino, è stato messo in atto un “tentativo di influire e condizionare l’attività giudiziaria degli uffici del pm e addirittura le scelte di un collegio di giudici, ebbene quel tentativo, invece di essere doverosamente stoppato in partenza, venne assecondato e alimentato dal Quirinale e per quello che l’allora consigliere giuridico Loris D’Amborsio riferisce a Mancino, dallo stesso Presidente Napolitano in persona”. E’ così che il pm Nino Di Matteo, proseguendo la propria requisitoria, descrive le intercettazioni tra l’ex ministro degli Interni ed il Consigliere giuridico Loris D’Ambrosio.
Rivolgendosi alla Corte d’assise, presieduta da Alfredo Montalto, il pm spiega come quell’azione fosse inserita “in un contesto, al di là di tutte le apparenze di un coordinamento dei vari uffici già realizzato” con l’obiettivo di “evitare il confronto con Martelli”.
“Mancino – prosegue il magistrato – era ossessionato dalla possibilità di essere messo a confronto in aula con l’ex ministro della Giustizia e perciò esercitò un pressing costante e ostinato verso il Quirinale per sollecitare un intervento che gli consentisse di evitarlo” in quanto “temeva che da quel confronto si evidenziasse la sua reticenza e ha sfruttato il suo peso di uomo di potere per ostacolare le indagini”.
Di Matteo legge diversi brani delle intercettazioni delle telefonate captate tra il 25 novembre 2011 e il 5 aprile 2012.
Il nodo centrale era sempre quello delle dichiarazioni dell’ex Guardasigilli che aveva riferito ai pm di aver avvertito Mancino, già dal ’92, dei contatti anomali tra i carabinieri del Ros e il sindaco mafioso Vito Ciancimino, circostanza invece sempre smentita da Mancino. E proprio su questo punto doveva svolgersi e si svolse il confronto tra i due.
“Posso parlare col presidente (Napolitano, ndr) che ha preso a cuore la questione – diceva D’Ambrosio all’ex senatore nella telefonata del marzo 2012 – ma mi pare difficile che possa fare qualcosa. L’unico che può dire qualcosa è Messineo. L’altro è Grasso. Ma il pm Nino Di Matteo in udienza è autonomo. Intervenire sul collegio è una cosa molto delicata…”.
L’ex capo del Viminale, nelle sue conversazioni con il consigliere, lamentava infatti un contrasto tra l’azione delle tre procure (Firenze, Palermo e Caltanissetta) che si occupavano della trattativa Stato-mafia, evidenziando che Palermo seguiva una linea tutta sua. D’Ambrosio, da parte sua, diceva che l’unico che sarebbe potuto intervenire sarebbe stato il capo della Dna, Piero Grasso, per legge incaricato di coordinare l’azione tra gli uffici inquirenti.

Pressing Quirinale
In un altro dialogo, quello del 12 marzo 2012, sempre D’Ambrosio diceva: “Io ho parlato con il Presidente e ho parlato con Grasso, non vediamo molti spazi… adesso il Presidente parlerà con Grasso e vediamo con Esposito… la vediamo difficile”. E poi ancora: “Il problema è il contrasto di posizione con Martelli… tanto che il Presidente ha detto ‘ma lei ha parlato con Martelli? Questo è indipendente dal processo…”. E Mancino, che in precedenza ribadiva la sua preoccupazione del confronto con Martelli dice: “ma io non posso parlare con Martelli”.
“In quella conversazione – aggiunge il pm – quando Mancino sostiene ‘se lo Stato non ha trattato con le Br ha causato la morte di Moro…” “sembra come una sorta di chiamata alle armi di Mancino per non essere lasciato con il cerino in mano nel contesto di un dialogo a distanza tra lo Stato e la mafia. Irrituale è il suggerimento proveniente da Napolitano attraverso un colloquio di Mancino con Martelli. Soluzione che Mancino rifiuta”. Tuttavia le comunicazioni non vengono interrotte e proseguono anche successivamente.
“C’è un pressing costante ed ostinato verso la Presidenza della Repubblica – dice Di Matteo – perché influenzasse le iniziative della Procura generale della Cassazione e della Procura nazionale antimafia. Proprio nel momento in cui si concretizza la richiesta del confronto con Martelli. Mancino teme che la ribalta mediatica evidenzi la sua reticenza. Pressa facendo pesare il suo ruolo di potere per ostacolare le indagini della Procura di Palermo e sterilizzarle. Mancino non persegue uno scopo di coordinamento ma intende spostare la barra delle investigazioni verso uffici diversi dalla procura di Palermo”.
Inizia in quel momento un botta e risposta tra la Procura generale della Cassazione e la Procura Nazionale antimafia che si conclude con un documento a firma di Grasso, il 22 maggio 2012, dove si respinge ogni tentativo di ingerenza.

Le dichiarazioni di Tavormina
Proseguendo la requisitoria Di Matteo parla poi delle dichiarazioni del generale Tavormina, contrastanti con Martelli. “Tavormina però – secondo l’accusa – è amico di Mannino e Subranni che nel giugno del 1992 partecipava agli incontri presso gli studi privati di Mannino, in cui si discuteva delle indagini palermitane scaturite da Rosario Spatola, e dei suoi timori di essere ucciso dopo Lima”. “Non dimenticate – aggiunge Di Matteo – il dato delle dichiarazioni della dottoressa Contri che ha detto che fu lo stesso Tavormina a lamentare le iniziative fuori luogo da parte del Ros in quel periodo.
Un’esame, quello del generale, che viene ritenuto dai pm come “contraddittorio”. “Tavormina in riferimento ai rischi che correva Mannino disse di non sapere come li aveva appresi affermando che sicuramente ne erano a conoscenza Parisi e quindi De Gennaro ma quest’ultimo in aula ha detto di non averne mai parlato con Tavormina – sottolinea Di Matteo – Rispetto al suo rapporto con Subranni, nonostante le contestazioni dei pm, diceva: ‘le mie condizioni di salute pregiudicano il mio ricordo… non posso escludere che Martelli mi abbia parlato dei rapporti Ros Vito Ciancimino’. Poi però, in controesame, dice: “escludo con certezza che mi abbia potuto dire queste cose’”. Di fronte ad una testimonianza fatta di “contraddizioni” ed “incertezze” secondo l’accusa vi è una “consapevole e dolosa reticenza per salvaguardare la posizione degli imputati del Ros e in particolare di Subranni. Tavormina nega per allontanare quello scenario del quale nella fase iniziale, più o meno inconsapevolmente, era divenuto una pedina”. “Abbiamo saputo della morte del teste – conclude il pm – ma avevamo ritenuta falsa la sua deposizione.
Non assume alcun significato che possa ribaltare o attenuare il giudizio di piena attendibilità delle dichiarazioni di Martelli del suo dialogo con Mancino”.

Foto © Ansa/Archivio/Maurizio Brambatti

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