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Tra Facebook e serie tv, la vita violenta dei nuovi rampolli di ‘ndrangheta

L’Espresso, 19 Ottobre 2017

 

Usano i social, amano i locali e on line ostentano con arroganza lussi e frequentazioni. Ma le loro violenze sono reali e da Sud a Nord hanno permesso ai clan di strappare nuovi territori

DI ALESSIA CANDITO

Sono giovani. Spesso neanche ventenni. Ma sulle spalle portano il nome di secoli di ‘ndrangheta e lo ostentano con orgoglio, come un vestito alla moda. Quando escono insieme sembra di leggere la lista degli imputati di vecchi processi. Stessi nomi, stessi cognomi, identici di generazione in generazione. Ma a differenza dei nonni e dei padri, i giovani boss hanno scoperto facebook, instagram, guardano quelle serie tv, che hanno sdoganato il credo criminale ascoltato per tutta la vita in casa. E anche per questo si sentono in diritto di applicarlo in strada, dove ci sono coetanei che quasi ne subiscono la fascinazione.

L’ALLARME DI GRATTERI «Davanti alle scuole medie i bambini giocano a parlare, a vestirsi e ad avere i soprannomi dei protagonisti mafiosi dei film e delle fiction –  dice il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri – Questo succede perché si crea un immaginario falso, si racconta un mondo organizzato sulle regole criminali, sull’onore, il coraggio, anzi sul non avere paura, sull’invincibilità e invece la realtà delle organizzazioni mafiose è tutt’altra». Quasi uno sdoganamento, che polverizza decenni di strategia del “basso profilo”. Oggi i giovani rampolli vogliono farsi notare. E se non succede lo pretendono.

MOVIDA SOTTO SCACCO Il copione è sempre lo stesso. Il branco entra in un locale, distrugge arredi e bottiglie, manda all’ospedale i barman, poi si dilegua. Identica scena si ripete in bar e discoteche della zona. A firmare i raid sono sempre gli stessi “giovanotti”, che magari qualche giorno dopo si presentano nei locali che hanno devastato, occupano il privè e al tavolo trovano una magnum di vodka o champagne “omaggio della casa”. Pazienza se poi scatenano una rissa perché un complimento alla ragazza sbagliata è una «mancanza di rispetto per l’uomo che l’accompagna». O se vanno via senza pagare. Loro nei locali possono tutto. Succede a Reggio Calabria e in Brianza. Ma non si tratta di banale vandalismo. È una nuova strategia di occupazione e controllo del territorio.
LA FIRMA Sulla riva calabrese dello Stretto, i rampolli dei clan lo hanno fatto per anni. Indisturbati. Perché, ufficialmente, dopo i raid, nessuno ha visto o ricorda le facce degli aggressori, le telecamere di sicurezza sono sempre fuori servizio e i buttafuori assenti o distratti. Ufficiosamente invece il popolo delle notti reggine mormora e punta il dito su Archi, quartiere roccaforte dell’élite dei clan della città. È lì che batte il cuore dei “Teganini”, giovani leve al servizio di quella ‘ndrangheta che ha deciso governi locali e non, ha firmato stragi, si è mischiata con le logge, pezzi di servizi e si è seduta al tavolo di importanti consigli di amministrazione. Ma non ha mai dimenticato la strada. E le regole tribali e gli uomini che servono per controllarla.

I NUOVI PADRONI Quando arresti e processi hanno fatto cadere gli storici luogotenenti dei clan, i Teganini hanno iniziato a pretendere potere e spazio e hanno tentato di mettere le mani sui locali, senza neanche provare a nascondere le proprie ambizioni. E questo, in parte, lo hanno pagato. La gambizzazione di un ragazzo, “reo” di aver detto una parola di troppo al gruppo sbagliato, ha fatto scattare le indagini che hanno fatto saltare la rete di buttafuori abusivi, imposti dai clan nei locali per controllare il territorio e gestire lo spaccio. Una rissa a favore di telecamera di sicurezza – una volta tanto funzionante – ha invece fatto inciampare quello che per alcuni è il nucleo duro del branco. Ed ha permesso di individuare quello che viene ritenuto il giovane, carismatico, vanitoso capo.

IL GIOVANE DON Venticinque anni scarsi, biondo, magrolino, occhialini quasi da intellettuale, per gli inquirenti Mico Tegano è dotato di un carisma criminale «fuori dal comune che, nonostante la giovane età gli garantisce il massimo rispetto sia da parte dei suoi fiancheggiatori, che dai soggetti estranei alla propria organizzazione». Figlio del boss Pasquale Tegano, uno dei vertici del clan di Archi, il 25enne guida una banda che fra cugini, compari e “fratelli di sangue”, secondo indiscrezioni, conta quaranta persone, solo in parte individuate. All’attivo ha diversi procedimenti penali, il suo nome appare legato a giri di droga e di betting, il pentito Mario Gennaro lo ha accusato di aver fatto saltare in aria, in pieno centro e in prima serata, una delle sue sale scommesse, ma al momento è sotto indagine solo per quella rissa.

SALSA E PREGHIERE Né lui, né i suoi coindagati sembrano dare peso alla cosa. Sui social continuano a documentare diligentemente le loro attività. Dai viaggi in Romania alle gite a Polsi, dai cavalli – quelli che si sfidano clandestinamente sulle strade cittadine – alle serate di balli caraibici, da casinò e discoteche di Bucarest alle tavolate di “famiglia”. Regolarmente lui e i suoi si promettono on line fedeltà, onore e rispetto e spesso capita che su alcune delle loro bacheche appaiano un pensiero o un ricordo per padri, fratelli, zii o cugini “carcerati” o i detenuti in generale, o anatemi per “infami” (pentiti) e “avvoltoi” (giornalisti).

NIPOTI AFFRANTI Dichiarazioni di fede e di intenti, scritte in modo più o meno sgrammaticato, che di recente hanno regalato notorietà e fama anche al nipote di Pasquale Libri, altro blasonato boss. Quando il nonno è morto, il nipotino ha usato i social per scagliarsi contro il divieto di funerali pubblici disposto dalla Questura e chiunque osasse dirsi d’accordo con tale provvedimento. Un dibattito digitale rapidamente scivolato lungo il crinale dell’insulto becero e irripetibile e della glorificazione del nonno, definito dal nipote «un angelo che tanto ha insegnato» nonostante il discreto numero di condanne definitive che si è portato nella tomba. Tutte bugie per il giovane rampollo, perché «le cose sui giornali sono scritte per fare business».

L’OPINION LEADER Commenti non dissimili ha firmato per lungo tempo Vincenzo Torcasio, considerato espressione dell’omonimo clan di Lamezia Terme condannato a 30 anni per omicidio. Un po’ più grande dei giovani boss di Reggio, Torcasio per anni ha gestito e animato su facebook non solo il proprio profilo personale, ma anche la pagina “ONORE E’ Dignità”. Un calderone di massime di ‘ndrangheta, selfie, foto con amici e parenti, frasi stucchevoli e proclami contro il 41bis che in poco tempo ha accumulato 18mila follower. Tutti lettori che il giovane rampollo dei clan di Lamezia non ha voluto deludere e ha continuato ad aggiornare anche durante la sua breve latitanza. «Ancora non hanno capito – commenta quasi divertito un investigatore – che i social network sono la migliore banca dati pubblica che ci abbiano messo a disposizione». E non solo in Calabria.

LA LEGGEREZZA DEI GIOVANI BOSS TORINESIAnche a Torino i rampolli dei clan usavano facebook per documentare serate, frequentazioni e legami. Loro, così attenti a non farsi ascoltare tanto da usare solo whatsapp, signal e skype per comunicare, all’ostentazione digitale del lusso di cui amavano circondarsi non hanno mai saputo rinunciare. E lo hanno pagato. Nel corso dell’ultima inchiesta che ha colpito le storiche famigIie di ‘ndrangheta sotto la Mole, i social si sono rivelati uno strumento fondamentale per l’identificazione delle giovani leve. Con buona pace dei consigli degli anziani e dei parenti in carcere, che anche in parlatorio non hanno mai perso occasione per raccomandare la politica del basso profilo. «Hai comprato una macchina costosa. Non dovevi farlo- diceva serio qualche anno fa un boss piemontese al nipote –  Sono stato giovane anche io, ti pare che non capisco? I carabinieri a quest’ora hanno già scritto. Quelli vedono tutto».

ALLA CONQUISTA DELLA BRIANZA In Brianza, quello che gli investigatori hanno visto ha lasciato poco spazio all’interpretazione. Nel giro di pochi mesi, le giovani leve dei Morabito, storico clan originario di Africo ma da tempo radicato in Lombardia, hanno messo le mani su Mariano Comense, Cantù e dintorni, scalzando a suon di risse e tentati omicidi la meno blasonata famiglia dei Muscatello. Per quasi 30 anni avevano gestito quel pezzetto di Brianza, ma quando sono arrivati gli “africoti” sono stati convinti a farsi da parte. Con le cattive. Terreno di scontro, una discoteca su cui i Muscatello avevano steso la propria ala protettrice, tanto da impiegare il nipote del capofamiglia come coordinatore della security. Nel locale, i calabresi non pagavano né ingressi, né consumazioni, in cambio tutto filava liscio. O almeno, così è stato fino all’ arrivo degli africoti, che sera dopo sera hanno iniziato a rendersi sempre più molesti, fino ad arrivare allo scontro con i bodyguard dei clan. Sono stati scacciati via in malo modo e nel giro di pochi giorni hanno presentato il conto. Tre colpi di pistola che colpiscono Ludovico Muscatello e gli polverizzano una gamba.

«QUESTA E’ GENTE CHE SPARA PER NIENTE» «Tutta questa gioventù che è cresciuta» che «vorrebbe essere il Padre Eterno» ma non sa «fare neanche una o con il bicchiere», sospira sconsolato il vecchio don, Salvatore Muscatello, che tuttavia non può far altro che allargare le braccia quando il nipote, azzoppato, va da lui per lamentarsi. Il giovane si rassegna e si piega alle pretese degli “africoti”. Nel giro di pochi mesi sembra addirittura guardare con ammirazione ai nuovi padroni, finendo per chiamare “fratello” il loro capo, Giuseppe Morabito, figlio di Giovanni e nipote del boss Tiradritto, così chiamato per l’abitudine ad eliminare -anche fisicamente – ogni eventuale ostacolo o avversario. Una caratteristica di famiglia. «Questa è gente che spara per niente» diceva, intercettato, un commerciante finito nel mirino del branco guidato dal giovane Morabito. Come un reuccio scortato dalla sua legione, non aveva neanche bisogno di agire in prima persona. Presenziava a sgarbi, risse, violenze e intimidazioni come un piccolo e capriccioso monarca che scatena la propria guardia personale. Con questo metodo, agli “africoti” sono bastati pochi mesi per diventare padroni non solo di bar e locali, ma anche della gestione dell’ordine pubblico. E non solo all’interno dei locali, ma anche in caso di furti o debiti da riscuotere.

ESERCITI DA MACELLO «Chi esercita il potere di risoluzione delle controversie private o di protezione o di recupero credito, cosi sostituendosi allo Stato, esprime l’espressione e la manifestazione dell’essere mafioso – ha commentato il giudice nel disporre l’arresto –  i mafiosi sono, infatti, giudici civili e penali, ordinatori e giustizieri, riassumendo nella propria persona molti delicati poteri normalmente esercitati dallo Stato». Una sostituzione che nelle strade del Nord come del Sud vede sempre di più affermarsi generazioni di giovani belve, tutte potenzialmente sacrificabili, mandate a seminare panico e devastazione da capi che né conoscono, né immaginano. Perché la testa della ‘ndrangheta non si vede, ma sulle violenze del suo esercito costruisce il proprio potere.