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Stragi annunciate, lo Stato e i poteri illegali. UN’ INTERESSANTE RICOSTRUZIONE DI FATTI E DI ANALISI ,CON PASSAGGI ANCHE TOCCANTI,DI ENZO SCOTTI,GIA’ MINISTRO DELL’INTERNO.NE SUGGERIAMO UN’ATTENTA LETTURA A CHI CI SEGUE.

Stragi annunciate, lo Stato e i poteri illegali

Lunedì 29 Maggio 2017

di Vincenzo Scotti

Sono trascorsi ormai venticinque anni dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio; stragi percepite come il momento più duro dello scontro cruento tra lo Stato e le organizzazione mafiose, non solo in Sicilia, nato dalla consapevolezza che la mafia costituisce il maggior attacco alla legalità degli Stati sovrani e che con essa non può esistere alcuna possibilità di convivenza, cioè di “pax mafiosa”.
Comincia a consolidarsi, dagli inizi degli anni 70, una svolta culturale, prima in aree minoritarie della società italiana, che porta a considerare la mafia non come una semplice organizzazione criminale, anche se particolarmente efferata, ma come una “organizzazione” volta a instaurare una connivenza con lo Stato, le Istituzioni pubbliche, la politica e la società tutta necessaria per poter svolgere le proprie attività economiche illegali sotto l’insegna della violenza e del terrore.
Nel 1972, il Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia scrisse una relazione individuando con chiarezza la natura e le attività dell’antistato, non solo in tutta la Sicilia e in Italia, ma in vaste aree del globo. “Dalle biografie di illustri mafiosi emerge che la mafia esercita nella Sicilia occidentale, una  costante azione coercitiva, tale da impedire la libera e legale manifestazione della dinamica sociale e politica e senza che lo Stato riesca a impedire che la popolazione si confermi nell’opinione che ad avere comunemente la meglio sono i  mafiosi. ….. La mafia esce dai confini dell’isola al seguito della droga.  …… Nelle nuove sedi la maggiore facilità di mimetizzazione e l’assenza di collaudati strumenti di difesa sociali favoriscono la riproduzione di un fenomeno che si riteneva in altri tempi tipico dell’ambiente siciliano”. Cattanei concludeva che l’analisi mostrava un complesso di elementi rappresentativi “dell’esistenza di una effettiva connivenza, oltre che di convivenza, con la mafia, non solo di ampie aree della società ma delle stesse istituzioni pubbliche, comprensive della magistratura, dei partiti e degli enti locali”. Agli storici incombe la responsabilità di raccontare alle giovani generazioni, con grande rigore e senza cadere in una enfatica retorica, come attraverso il lavoro investigativo e giudiziario e gli alti costi pagati da grandi servitori dello Stato si sia arrivati in Italia ad una fase di aspra guerra.

 LO STATO D’ALLERTA DECISO CON PARISI

Nella relazione che presentai al Parlamento nel 1992, pochi giorni prima di lasciare l’incarico di ministro dell’Interno, sottolineavo che “la strage del 23 maggio 1992, nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo ed i tre agenti della scorta Vito Schifani, Antonio Montanaro e Rocco Di Cillo, ha segnato la chiusura di un ciclo decennale dell’attività mafiosa e dell’azione di contrasto da parte dello Stato.  Lungo l’intero ciclo 1982 – 1992 si è sviluppato uno sforzo investigativo e conoscitivo, che ha consentito alle forze dell’ordine e alla magistratura di definire, con un grado di approfondimento mai riscontrato nel passato, i contorni e le forme del fenomeno della criminalità organizzata nel nostro Paese. … Tale sforzo conoscitivo non è stato indolore, in quanto è costato la vita di molti rappresentanti delle Istituzioni che avevano scoperto alcuni tratti, caratteri e snodi, ancora inediti, della presenza mafiosa nell’economia, nella società e nelle stesse Istituzioni pubbliche”.
Non privo di ostacoli, di radicali contrasti e di un alto prezzo pagato dai promotori, è stato il cammino di costruire negli anni, e più intensamente nei primi anni ’90, l’ossatura di una legislazione che viene oggi considerata la più efficace nella guerra alla mafia.
Prima delle stragi del 1992, e pochi mesi prima  del mese di marzo, a seguito di un insieme di informazioni raccolte da organi istituzionali dello Stato, che prevedevano iniziative stragiste e azioni di destabilizzazione dell’ordine pubblico e della vita democratica (non dimentichiamo che eravamo nel pieno svolgimento della campagna elettorale per l’elezioni del Parlamento nazionale), insieme al capo della polizia, il prefetto Parisi, ritenemmo necessario dichiarare lo stato d’allerta. La comunicazione, per ragioni di sicurezza, doveva rimanere segreta e per questo il testo era stato criptato. Ma il testo del provvedimento finì nelle mani del Corriere della Sera e fu pubblicato con grande evidenza aprendo un aspro dibattito non solo in Parlamento, convocato d’urgenza sulla base di una accusa di eccessivo allarmismo del ministro dell’Interno, responsabile di aver dato credito a una “patacca”.
Ben pochi, in quei mesi, avevano preso atto che c’era stata una svolta, che occorreva prendere atto  dello “stato di guerra” e che non si poteva attenuare  la pressione anche se bisognava essere consapevoli delle conseguenze.  Proprio pochi giorni prima della ricordata dichiarazione dello stato di allerta ed a circa due mesi di distanza dalla strage di Capaci, il 17 marzo, alla Commissione Antimafia mi ero espresso in questi termini: “Da quando ho assunto, nell’ottobre del 1990, la responsabilità politica del Ministero dell’Interno ho sempre avvertito che siamo che siamo di fronte ad una guerra lunga e difficile. Non credo che siano possibili scelte alternative, almeno che non ci si voglia accontentare di un clima di tranquillità e di normalità, quello cioè che la pax mafiosa rende possibile, se lo vogliamo, con l’acquiescenza degli organi dello Stato. Il che porta ad effetti perversi sulla vita civile che abbiamo già sperimentato e che sperimentiamo. ……  Se la democrazia italiana vuole sottrarsi da un condizionamento crescente della criminalità organizzata, allora dobbiamo essere pronti ad affrontare un calvario doloroso, segnato da fatti estremamente preoccupanti.” E concludevo: “oggi siamo in presenza di un fenomeno che non mira a distruggere le Istituzioni, bensì a piegare gli apparati ai propri fini”.

 FALCONE E LA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA

E’ già dagli inizi degli anni ’80 che, progressivamente, la legislazione, la giurisdizione e la organizzazione dello Stato presero consapevolezza che la mafia era ormai un reale pericolo per le Istituzioni e per la politica di uno Stato moderno e democratico e che occorressero una azione e una legislazione che fossero in grado di dotarsi di strumenti adeguati alla sfida da vincere. Falcone, nel 1991, aveva con chiarezza indicato le criticità e le contraddizioni di una lotta alla mafia condotta dallo Stato: “La classe dirigente, consapevole dei problemi e delle difficoltà di ogni genere, connessi a un attacco frontale alla mafia, senza peraltro nessuna garanzia di successo immediato, ha compreso che, a breve, aveva tutto da perdere e poco da guadagnare nell’impegnarsi sul terreno dello scontro. Ed ha preteso di fronteggiare un fenomeno di tale gravità con i pannicelli caldi, senza una mobilitazione generale, consapevole, duratura e costante di tutto l’apparato repressivo e senza il sostegno della società civile. I politici si sono preoccupati di votare leggi di emergenza e di creare istituzioni speciali che, sulla carta, avrebbero dovuto imprimere slancio alla lotta antimafia, ma che, in pratica, si sono risolte in una delega di responsabilità proprie del governo a una struttura di mezzi inadeguati e di poter coordinare l’azione anticrimine”.
Queste osservazioni di Falcone aiutano a capire il salto fatto dalla legislazione antimafia che si consolida in quegli anni insieme ai metodi di organizzazione e  di coordinamento  della  investigazione e della prevenzione. Per questo, bisogna aiutare i giovani alla lettura critica della lotta alla mafia e soprattutto a renderli consapevoli che quella svolta ha comportando coraggio, sofferenze e incomprensione anche a iniziativa di molti di coloro avrebbero dovuto sostenerli. Sulle asperità incontrate nella costruzione della normativa antimafia vorrò tornare a conclusione di queste brevi considerazioni.
Lasciando da parte l’emozione del ricordo e facendo ricorso a una sincera autocritica, mi sembra necessario, oggi più che mai e a venticinque anni dalle stragi, invitare gli storici a una rigorosa ricostruzione dei fatti e delle idee per cogliere la portata dei cambiamenti operati e della eredità lasciata per un cammino non ancora compiuto ma che, nella globalizzazione “selvaggia” che caratterizza la vita del pianeta, richiede un arricchimento di strumenti per combattere la guerra contro la mafia.
Nei mesi scorsi, la Camera dei Deputati ha giustamente ricordato la figura di Pio La Torre a cui si deve, insieme a Virginio Rognoni, la formulazione del 416-bis del Codice Penale; l’aver introdotto, nell’ordinamento penale, il reato di appartenenza alla mafia e la norma sulla confisca dei beni ai mafiosi. Sono norme che aprirono la via di un superamento dell’approccio emergenziale della guerra.
Nella prima relazione sulla Dia che presentai, nel 1992, al Parlamento, pochi giorni prima di lasciare l’incarico di Ministro, ricordavo che la legislazione di quei due anni era in coerenza con quanto si era sviluppato lungo tutto l’intero ciclo dal 1982 al1992: “uno sforzo investigativo e conoscitivo non comune, che ha consentito alle forze dell’ordine e alla magistratura di definire, con un grado di approfondimento mai riconosciuto in passato, i contorni e le forme del fenomeno della criminalità organizzata nel nostro Paese. Tale sforzo conoscitivo non è stato indolore, in quanto è costato la vita di molti rappresentanti delle Istituzioni che avevano scoperto alcuni tratti, caratteri e snodi, ancora inediti, della presenza mafiosa nella economia, nella società e nelle stesse Istituzioni pubbliche”.
A metà di quel decennio si colloca la svolta del giudice istruttore, Giovanni  Falcone, nell’impostare il lavoro istruttorio, con una sentenza-ordinanza contro “Abbate Giovanni + 706” che inizia così: “Questo è il processo all’organizzazione mafiosa, denominata Cosa Nostra, una pericolosissima organizzazione criminosa che, con la violenza e l’intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore. (….) La pericolosità nasce dalla tendenza di Cosa Nostra al confronto da pari a pari con lo Stato ed i suoi rappresentanti, nonché all’infiltrazione in esso, tramite relazioni occulte con esponenti dei suoi apparati e degli organismi elettivi, fino alla neutralizzazione, tramite corruzione o violenza di chiunque si opponga al suo strapotere (….)”. Poco tempo prima del maxi processo fino al 1978, quando Falcone aveva iniziato le sue indagini, “ci sono sentenze” – scrive Falcone – “della Suprema Corte di Cassazzione che negavano la qualità di associazione per delinquere alla mafia. Costretti di fronte ad una realtà evidente si è arrivati al punto di distinguere fra una vecchia mafia e una nuova mafia che, chi sa per quali motivi, è diventata un’associazione per delinquere”. E c’era un insegnamento autorevole (vedi il Trattato di diritto penale italiano di un grande giurista) ricordato ancora una volta da Falcone, che ”se la mafia è una associazione per delinquere, in ogni caso bisogna sempre dimostrare per quali delitti concreti gli associati si sono organizzati”.
Per Falcone era “il rifiuto inconscio di accettare la realtà di un ordinamento giuridico all’interno dell’ordinamento giuridico statale”.
Falcone, con il maxi processo, aveva aperto la strada che mi consentì di proporre, con il ministro di Giustizia Martelli e con il sostegno determinante del Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Gerardo Chiaromonte, non delle singole leggi ma un insieme di norme che rispondevano ad una strategia di guerra coerente; sottoponemmo all’approvazione del Parlamento, dall’ottobre del 1990 al giugno del 1992, una legislazione complessiva e coerente che operava un radicale cambiamento di paradigma nella lotta alla mafia.

 I SEI CAPITOLI DELLA STRATEGIA

Quando, nell’autunno del 1990, improvvisamente, mi fu chiesto di fare il ministro dell’Interno ero Presidente del Gruppo Parlamentare della Democrazia Cristiana e mi chiesi cosa potevo e dovevo fare di più o di diverso. Mi ero occupato da giovanissimo, a partire dalla metà degli anni ’50, dei problemi dello sviluppo del Mezzogiorno,  prima nel sindacato della Cisl e poi, per dieci anni, collaborando con Giulio Pastore, dal 1958 al 1968, al Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno. La mafia era parte dei miei studi e degli interrogativi sullo sviluppo del Mezzogiorno. Avevo consapevolezza che il nodo gordiano da sciogliere era la connivenza tra mafia, istituzioni e politica. Il nodo non poteva essere sciolto se non attraverso una “guerra” che ponesse termine ad una “pax mafiosa”. Sapevo cosa mi aspettava, non per incoscienza. Parlai subito con l’opposizione comunista, e in particolare con Chiaromonte, ma non trovai alcuna apertura se non quella di valutare senza pregiudiziali, in Parlamento e nel Mezzogiorno, le mie proposte e misurarmi alla prova dei fatti.
Furono sei i capitoli sui quali concentrai l’intera strategia; li riassumo rapidamente.
Il primo gruppo di iniziative riguardava la cosiddetta “questione carceraria”, cioè il collegamento tra i boss detenuti in carcere e quelli in libertà, che consentiva alla mafia di conservare intatta la sua unità di comando e di non perdere l’efficienza complessiva della vita delle cosche. Era analogo il problema dei latitanti, perché i boss, o dal carcere o dalla latitanza, potevano continuare a gestire gli affari e comandare le truppe. Già nel primo decreto del novembre del 1990 cercai di impostare una normativa che facesse saltare il collegamento tra carcere, latitanza e organizzazione sul territorio. L’ultimo mio atto di governo fu la proposta, che avanzai a Martelli dopo l’uccisione di Falcone, di presentare un decreto legge che contenesse il famoso 41-bis, anche se eravamo un governo in ordinaria amministrazione; la proposta non voleva rendere più afflittiva la vita in carcere ma intendeva spezzare una catena di comando che costituiva la forza della organizzazione criminale.
Il secondo, in sequenza logica e certamente il più complesso da legiferare e da gestire, fu quello di introdurre nel nostro ordinamento penale alcune misure premiali per i cosiddetti collaboratori di giustizia. Non si trattava di “pentiti”, temine che ha alterato, e non poco, nell’opinione pubblica ed anche in quella degli esperti la natura dello strumento e degli obiettivi perseguibili. Ogni informazione doveva essere sempre accuratamente vagliata per non incorrere nel rischio che venisse utilizzata come strumento di vendette trasversali, di regolamenti di conti tra le cosche o di vendette nei confronti di uomini delle Istituzioni.
Fondamentale nella lotta alla mafia è l’organizzazione della attività di “intelligence analysis”, di investigazione e infine di giurisdizione. Sono note le ragioni che portarono a creare una struttura unitaria di “intelligence criminale”, la DIA, in grado di fornire all’Autorità di Polizia e alla Magistratura una costante e approfondita informazione sulla organizzazione e sulla operatività della mafia, i suoi collegamenti di rete internazionale, il suo controllo del territorio e, infine, la sua concreta infiltrazione nelle istituzioni, pubbliche e private. E’ altresì nota la proposta di Falcone di dar vita ad un organismo – la Direzione Nazionale Antimafia – del Procuratore Nazionale e di quello Distrettuale con una funzione di coordinamento della investigazione e in alcuni casi anche di avocazione di alcune indagini.
L’opposizione a queste nuove istituzioni fu durissima, soprattutto all’interno della Associazione dei  Magistrati, e richiese una capacità di mediazione che portò anche ad alcuni significativi cambiamenti. Falcone pagò duramente il contributo determinante che diede alla creazione dei due organismi: fu denunciato al CSM con l’accusa di avere tenuti fermi nel cassetto fascicoli investigativi contro mafiosi e dovette difendersi davanti alla commissione disciplinare; gli fu detto chiaramente, da alcuni membri del Consiglio (che Falcone riteneva a lui favorevoli), che non lo avrebbero votato perché aveva accettato di collaborare con Martelli al Ministero a Roma.

 LE COLLUSIONI LOCALI E ISTITUZIONALI

La crescita del fatturato del crimine ha spinto progressivamente la mafia a darsi una struttura professionale sia per il riciclaggio del denaro e il suo impiego sui mercati finanziari che per la gestione imprenditoriale di imprese legali. Questa evoluzione dell’organizzazione criminale nel 1990 si stava realizzando parallelamente ai grandi cambiamenti tecnologici ed economici, che hanno portato alla globalizzazione dei mercati con sempre minori regole e controlli. Un cospicuo sostegno veniva dall’esistenza dei cosiddetti paradisi fiscali, con un rigido segreto bancario e con una grande libertà di movimenti. Superando non poche difficoltà oggettive sulla possibilità di intervenire con una legislazione nazionale, decidemmo nel 1991 per una legge sul riciclaggio, chiedendo la collaborazione del sistema bancario, di tutti gli intermediari finanziari e del notariato. In questi anni abbiamo anche sperimentato l’impegno delle grandi istituzioni finanziarie e bancarie internazionali nel rendere il più possibile trasparenti i mercati e nel contrastare i paradisi fiscali. Certamente siamo ancora lontano dall’aver raggiunto gli obiettivi immaginati come necessari; tuttavia, c’è una maggiore consapevolezza sulla urgenza di una lotta congiunta alla corruzione e al riciclaggio intervenendo in quella “area grigia” dei professionisti della mafia che gestiscono, per questi ultimi, gli ingenti patrimoni e sulla parallela azione di confisca dei beni dei mafiosi e dei corrotti.
In quegli anni avevamo la consapevolezza, come ho già ricordato, che la questione cruciale in tutto il modo era data dal perverso intreccio di collusioni e affari tra uomini delle istituzioni, politici, mafiosi e colletti bianchi, professionisti di questi ultimi. L’azione doveva partire dal basso con lo stroncare il controllo da parte della mafia sia sulle attività economiche e sociali locali (il pizzo) e sia sulle  attività istituzionali e politiche (infiltrazione e condizionamento degli enti locali e dei partiti e movimenti politici).
Non ci si poteva fermare al livello locale ma occorreva una azione di difesa legalitaria della vita degli Stati nazionali e delle Comunità sovrannazionali. La nostra strategia di guerra alla mafia non poteva guardare alla   dimensione locale o nazionale ma doveva ricercare un ampio coordinamento tra gli Stati e le Istituzioni transnazionali senza del quale mostravamo debolezze.
La strategia, che adottammo nei primi anni ’90, poggiava sulla mobilitazione della società e delle persone; per questo mi rivolsi ai responsabili della scuola, alle autorità religiose non solo cattoliche, ai movimenti della società civile, ai leader politici per una rivolta morale contro la mafia.
Questo lavoro nei primi anni novanta del secolo scorso richiese molto coraggio, pazienza e determinazione. Ho già fatto cenno alle grandi resistenze e opposizioni che si dovettero affrontare.  Chi subì il massimo di pressione fu proprio chi si era battuto con maggiore tenacia, Giovanni Falcone; lo ricordò Borsellino, parlando a Palermo qualche giorno prima della strage di via d’Amelio. Disse che Falcone l’avevano fatto morire anche prima della strage di Capaci.

 OGGI, VENTICINQUE ANNI DOPO

Una vita drammatica, quella di Giovanni Falcone”, scrisse Gerardo Chiaromonte, “Dopo la strage di Capaci tutti si proclamarono suoi ammiratori. Quante menzogne ascoltai in quei giorni! Fece bene Ilda Bocassini, giudice a Milano, in una assemblea che si tenne il giorno dopo a Palazzo di Giustizia di quella città a prendere la parola per denunciare e indicare con nomi e cognomi, quei giudici milanesi che ora si mostravano compunti e addolorati per la morte di Falcone e fino al giorno prima avevano detto cose pesanti e offensive”.
Quegli anni di guerra, di stragi, di notte della Prima Repubblica non hanno trovato ancora uno storico capace di raccontarli alle giovani generazioni con credibilità e rigore, senza cadere né nella retorica né nella sottovalutazione. Furono anni animati anche da una forte tensione civile di una minoranza che ha lasciato una grande eredità: quella di una strategia e di alcuni strumenti fondamentali non per liberare il Paese dalla criminalità, cosa impossibile data la natura dell’uomo, ma per liberare il Paese da quella specifica forma di organizzazione criminale che vuole ridisegnare le nostre Istituzioni e la nostra vita attraverso la illegalità, la corruzione, il terrore.
Quali conclusioni possiamo trarre dalla riflessione su quegli anni?
Io penso che sia venuto il momento, anzitutto, per una lettura più veritiera di quelli che sono stati gli anni di Falcone e Borsellino. Non possiamo pensare, dopo venticinque anni, ad un rituale di commemorazione del loro impegno straordinario di servitori dello Stato. Non possiamo ripetere lo stesso discorso e non chiederci cosa sia avvenuto dopo e di come sia stata raccolta la loro eredità.
L’impressione che si ricava dalla mole di inchieste e di saggi pubblicati in questi anni è che la realtà delle mafie sia andata cambiando alcuni suoi connotati, rispetto a quelli di cui discutevamo con Falcone. Tante attività investigative e giudiziarie hanno fatto fare alla lotta alla mafia passi in avanti rispetto alla realtà degli anni ottanta quando il pool di Palermo avviò l’istruttoria del maxi processo. Ma l’organizzazione criminale, l’antistato, ha ampliato il controllo di vasti territori e, forse, ha anche accresciuto la penetrazione nelle Istituzioni locali del Mezzogiorno e la espansione nelle aree del nord del Paese e in Europa e i suoi collegamenti con le reti del Centro America e dell’Estremo Oriente.
Le novità le possiamo così individuare. La prima sta nell’ampliamento a livello planetario della cosiddetta “area grigia”, quella che nasce dall’intreccio tra attività legali e attività criminali. Il denaro sporco si ripulisce in tempi rapidissimi, entra in canali legali e, utilizzando le coperture opportune dei mercati finanziari deregolati, viene investito in attività lecite che, per la provenienza del denaro, alterano il funzionamento dei mercati dei beni e dei servizi. La possibilità di far luce in questa “area grigia”, all’interno della quale ci sono ampi spazi di attività apparentemente lecite, è molto difficile sia per l’intreccio sempre più stretto tra corruzione e forme mafiose di criminalità, sia per la carenza di una intesa tra gli Stati e sia per la rapidità con cui i proventi criminali divengono ricchezza legale e riverita. L’evoluzione della mafia su scala planetaria, a cui ho fatto cenno, rischia di ricreare quel gap tra il dinamismo delle mafie e la staticità delle Istituzioni statuali e sopranazionali chiamate a reprimerle.
Ecco perché, nonostante i successi ottenuti, le mafie, a livello internazionale e nazionale, hanno continuato ad estendere i loro tentacoli e, soprattutto, a far crescere quella grande “area grigia” fatta di legalità e di illegalità, con crescenti zone bianche di attività legali collegate a quelle illegali ma difficilmente identificabili.
Se le mafie hanno consolidato i loro collegamenti con il terrorismo nelle diverse espressioni, se hanno esteso le loro reti transnazionali, se hanno espanso le loro attività legali e se hanno esteso il loro controllo sugli Stati e sulle Istituzioni, questo deve porci degli interrogativi, a cui dare delle risposte rapide.
E’ la “zona grigia” che si è allargata ed ha sempre più a che fare con la corruzione e i crimini economici, anche essi crescenti. La responsabilità oggettiva degli attori economici va chiamata in causa. La presenza di una organizzazione criminale antistato resta, dunque, la spada di Damocle di un mondo che vorrebbe far crescere la libertà e la democrazia. Le Nazioni Unite, con un occhio particolarmente attento alle forme di crimine transazionale, hanno lanciato questo allarme, al quale hanno fatto seguito iniziative di riflessione e tentativi di cambiamento. Ma questi tentativi devono andare oltre le forme tradizionali di cooperazione tra Paesi in materia di crimine, e devono superare le ricette tradizionali di cooperazione tra Stati. Tutto questo anche considerando che molte delle attività illegali si svolgono ormai nel mondo cosiddetto “virtuale”, cyber, e, dunque, risultano ancora meno controllabili e punibili. Altresì, sempre di più aumentano l’imprevedibilità e l’asimmetria delle minacce e questo rischia di mettere in maggiore difficoltà le nostre certezze consolidate e i nostri paradigmi, riferiti a un mondo che non c’è più.
Sono ormai palesi le fragilità delle istituzioni statuali con competenze frammentate e la precarietà di funzionamento della democrazia rappresentativa in molti paesi dei diversi continenti. C’è qualcosa che non siamo riusciti a percepire nella lotta alle mafie. C’è una difficile scelta che non riusciamo a fare fino in fondo perché il prezzo ci sembra molto alto. Dobbiamo fare definitivamente una scelta tra fermezza e acquiescenza, cosa che riuscimmo in parte a fare circa venticinque anni fa.

fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it/