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Sonia Alfano: “Testimone scortato sotto inchiesta per mafia”

di Luciano Mirone – 2 novembre 2014
Maurizio Marchetta, ex vicepresidente del consiglio comunale di Barcellona Pozzo di Gotto (che il Viminale non è riuscito a sciogliere), ritenuto vicino al boss Sem Di Salvo. Il commissario dell’Ato 2 di Trapani: “Viene tutelato con un’auto e due agenti”.


Si chiama Maurizio Marchetta. È l’ex vice presidente del Consiglio comunale di Barcellona Pozzo di Gotto: “Pur essendo sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa, pur essendo intimo amico di un boss, pur essendo stato rinviato a giudizio per diffamazione nei miei confronti e nei confronti di mio padre, viene tutelato con un’auto di Stato e con due agenti di Polizia. Questo tizio, per le istituzioni, è un testimone di giustizia”.

È un fiume in piena Sonia Alfano, sia oggi, che alcuni giorni fa, quando, sentita a Messina dalla Commissione nazionale antimafia, ha fatto una lucida analisi – con tanto di nomi e cognomi – sui legami fra mafia, politica, massoneria e servizi segreti deviati a Barcellona Pozzo di Gotto. Molte cose che ha dichiarato il 28 ottobre alla Commissione antimafia, le dice ora in questa intervista a trecentosessanta gradi sulla città dove l’8 gennaio 1993 la mafia ha assassinato suo padre, il giornalista Beppe Alfano.

Malgrado le denunce che l’ex parlamentare europeo fa da alcuni anni su Marchetta, “non è mai arrivata una risposta dalle istituzioni”. Il “testimone di giustizia”, infatti, a differenza del “collaboratore di giustizia”, è una figura non proveniente da ambienti malavitosi: con la sua testimonianza, tuttavia, può aiutare gli inquirenti a scoprire alcuni misteri di Cosa nostra. Quasi sempre si tratta di imprenditori taglieggiati, i quali, avendo denunciato i propri estortori, gode degli stessi diritti dei “pentiti”: cioè una protezione da parte dello Stato, una adeguata tutela economica e, dal 2013 – secondo il decreto legge approvato dal Governo Letta – “la possibilità di essere assunti nella pubblica amministrazione”.

La figlia di Beppe Alfano non ci sta. “Quando nel 2006 chiesi lo scioglimento del Consiglio comunale di Barcellona per infiltrazioni mafiose, vice presidente del Consiglio comunale era proprio lui, Maurizio Marchetta, militante nel centro destra. Marchetta è stato intercettato a bordo di una nave da crociera insieme al boss Sem di Salvo: da quelle intercettazioni si evince chiaramente (almeno così dicono le Forze dell’ordine) il rapporto di subalternità che Marchetta aveva nei confronti di Di Salvo: ‘Devi fare quello che dico io’. In base a quale merito questo signore ha ottenuto questo ‘status’, dato che non compare nelle liste dei ‘testimoni di giustizia’? Per essere considerati tali, bisogna essere estranei al sistema del crimine organizzato. Lui ha diverse pendenze gravi con la giustizia, quindi…”.

A Messina, davanti alla Commissione antimafia, Sonia Alfano è andata oltre, delineando un quadro di alleanze molto inquietanti fra Cosa nostra e istituzioni, un quadro che ha come epicentro le “morti eccellenti” di suo padre, di Attilio Manca, di Adolfo Parmaliana e di Graziella Campagna.

Il collegamento fra il delitto Alfano e l’individuazione del covo segreto di Nitto Santapaola da parte del giornalista (come oggi viene svelato dal pentito Carmelo D’Amico, confermando quello che dice da anni Sonia Alfano), potrebbe essere solo la punta dell’iceberg, fa capire l’ex presidente della Commissione antimafia europea. In che senso? Il cronista – alla vigilia della strage di Capaci – era uno dei pochi a Barcellona in grado di decifrare i messaggi criptici provenienti dal mondo torbido e violento dell’estrema destra locale, quel mondo capeggiato da Rosario Pio Cattafi, boss di primissimo piano in collegamento con la massoneria e con i servizi segreti deviati, con cui lo stesso giornalista, negli anni Settanta, aveva condiviso l’ideologia di destra.

Alfano, infatti, come Saro Cattafi, all’epoca apparteneva a “Ordine nuovo”, l’organizzazione neo fascista che all’Università di Messina organizzava le spedizioni punitive contro “i rossi”, ma mentre Beppe con i compagni ci faceva a cazzotti, Cattafi prendeva a sventagliate di mitra la Casa dello studente. Le due strade poi si divisero definitivamente: Saro deviò verso i quartieri alti di Cosa nostra, diramazione servizi segreti deviati; Beppe virò su posizioni decisamente moderate, ma l’uno e l’altro conoscevano ormai le dinamiche, i linguaggi, i segreti di quel sistema, quindi l’uno era in grado di leggere nel pensiero dell’altro, e viceversa.

Ecco perché oggi Sonia, parlando di Saro Cattafi, dice in modo sibillino: “Su questo individuo si sa pochissimo, l’opinione pubblica non ha consapevolezza della sua statura criminale. Cattafi sa a cosa mi riferisco, non aggiungo altro”. E poi, quasi per associazione di idee: “Non è un caso che da Barcellona sia partito il telecomando della strage di Capaci attraverso il boss Giuseppe Gullotti. Non è un caso che Barcellona abbia concesso ospitalità e protezione a tre boss latitanti di prima grandezza: Nitto Santapaola, Bernardo Provenzano e Gerlando Alberti junior. Non è un caso che queste tre presenze vengano associate ai delitti di Beppe Alfano, di Attilio Manca e di Graziella Campagna”.

Dunque Sonia Alfano collega questi omicidi alla strage di Capaci. È in questo contesto che, oltre ad inserire la latitanza di Santapaola, di Provenzano, e di Alberti jr., l’ex europarlamentare parla di Rosario Cattafi e di Giuseppe Gullotti. Poi la figlia del giornalista ucciso inserisce un altro nome: quello di Antonio Franco Cassata, fino al 2011 Procuratore generale della Corte d’Appello di Messina. “Cassata fa parte di quella schiera di persone che, pur appartenendo allo Stato e alle istituzioni, non hanno svolto il proprio dovere come avrebbero dovuto”. Secondo quanto scrive la stessa Alfano – assieme al suo legale Fabio Repici, grande conoscitore della mafia barcellonese – nel 2011 Cassata fu raggiunto da un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa da parte della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, eppure di quel provvedimento non si è saputo più nulla.

Prima di quel momento, il magistrato non era mai stato raggiunto da alcun provvedimento giudiziario o discipilinare, malgrado certe amicizie compromettenti. Addirittura nel 2008 è stato promosso dal Csm a capo della Procura generale. “Cassata – dice l’ex parlamentare europeo – ha sempre disposto di una rete di protezione fitta e alta. Non dimentichiamo che il magistrato è andato a finire davanti al Csm più volte per una condotta non proprio moralmente ed eticamente specchiata. A un altro magistrato la toga gliel’avrebbero tolta di dosso. A lui no. Perché? Da chi sarebbe protetto? Probabilmente dalla stessa rete che negli anni ha consentito che il nostro territorio potesse diventare ‘zona franca’, insomma una rete di connivenze composta da persone di alto livello”.

Parole pesanti. Che Sonia ha pronunciato davanti alla Commissione nazionale antimafia, e che non si discostano da quelle espresse da Fabio Repici, dai familiari dell’urologo Attilio Manca e da Cettina Parmaliana, vedova del professore Adolfo Parmaliana (altra vittima di quel sistema). Tutti all’unisono – benché sentiti separatamente – hanno scandito a gran voce quei nomi.

Ancora. Basta dare un’occhiata alla relazione della Commissione prefettizia che alcuni anni fa chiedeva lo scioglimento del Consiglio comunale di Barcellona: colpisce l’alta percentuale di consiglieri comunali collusi con la mafia. Quasi tutti di Alleanza Nazionale, vicini all’ex vice presidente del Senato, Domenico Nania. Eppure mai nessun governo nazionale – né di centrodestra, né di centrosinistra – si è permesso di sciogliere quel Consiglio.

Ecco un altro nome che Sonia Alfano inserisce nel “contesto”: Domenico Nania, “quello che nell’85 espulse mio padre dal Movimento sociale italiano, ma in compenso candidò il boss Giuseppe Gullotti al Consiglio comunale, quello che dichiarò ai giornalisti: A me da dove vengano i voti non me ne frega niente”.