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Rapido 904, Tescaroli: ”Raggiunta una parte di verità ma restano interrogativi”

Rapido 904, Tescaroli: ”Raggiunta una parte di verità ma restano interrogativi”

Karim El Sadi 22 Dicembre 2020

di Karim El Sadi

Sono trascorsi 36 anni da quella che venne consegnata alla storia come la “strage di Natale”. La sera del 23 dicembre 1984, esattamente alle 19.08, il treno rapido n. 904 Napoli-Milano veniva fatto esplodere mentre transitava nella Grande Galleria dell’Appennino tosco-emiliano, in località San Benedetto Val di Sambro. 15 le persone dilaniate nell’immediato dal Semtex (lo stesso esplosivo di origine cecoslovacca usato anche nella strage di via d’Amelio) nascosto in due borsoni scuri nella nona carrozza del treno da un uomo robusto di media statura dell’età fra i 40 e i 50 anni. Un’altra persona perse la vita a causa delle gravissime ferite riportate l’indomani. 267 il numero totale di feriti. Oggi a ricordare quella pagina buia di storia della nostra Repubblica è il magistrato Luca Tescaroli, Procuratore aggiunto di Firenze che da anni si occupa di inchieste su stragi e delitti di mafia. La strage del Rapido 904 “deve essere ricordata per rendere omaggio alle vittime – scrive Tescaroli in un articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano – perché fece capire che la mafia è un problema nazionale”.

A differenza di altre che l’avevano preceduta – aggiunge il magistrato – la strage non è rimasta impunita, o almeno totalmente impunita”. “Il 24 novembre 1992 è passata in giudicato la sentenza di condanna nei confronti del “cassiere” di Cosa Nostra, Giuseppe Calò, riconosciuto ideatore e organizzatore, di Guido Cercola, di Franco Di Agostino e del tecnico elettronico tedesco Friedrich Shaudinn. E nel mese di ottobre di quest’anno – spiega – è stata respinta definitivamente la richiesta di revisione di Pippo Calò che, come ogni mafioso di rango, non accetta le condanne all’ergastolo, una pena ancora oggi irrinunciabile per il contrasto al crimine mafioso”.
Dall’esito dei processi è stato accertato “in maniera incontrovertibile”, afferma Tescaroli, sia la matrice mafiosa dell’attentato che la volontà della mafia di “allentare lo sforzo repressivo dello Stato in Sicilia”. Uno sforzo, precisa, “messo in moto dalle collaborazioni di
 Tommaso Buscetta e di Salvatore Contorno, portato avanti dal pool guidato da Antonino Caponnetto e accresciutosi per effetto degli oltre 300 mandati di cattura emessi poco tempo prima”.

Quell’attentato, infatti, scrive il magistrato, “sarebbe dovuto apparire come ispirato da matrice terrorista e avrebbe dovuto distogliere l’impegno delle istituzioni e della società civile dal contrasto a Cosa nostra, facendo apparire l’esistenza di un pericolo per la Nazione diverso e maggiore da quello costituito dalla mafia”.
“Si è trattato di un delitto terroristico-eversivo – compiuto a distanza di un anno e 5 mesi della strage palermitana di via Pipitone Federico del 29 luglio 1983, ai danni del consigliere istruttore
Rocco Chinnici – nel quale è avvenuta la saldatura tra il settore camorristico della Nuova Famiglia, cosa nostra ed appartenenti alla criminalità romana, in virtù del ruolo di frontiera di Pippo Calò”, scrive Tescaroli. Tuttavia nonostante sia stata fatta luce su “parte significativa” di quel tragico evento permangono secondo il magistrato “interrogativi e zone grigie”. “Gli accertamenti giudiziari – spiega il procuratore aggiunto di Firenze – non hanno consentito di individuare chi collocò materialmente l’ordigno e di decifrare il torbido quadro criminale in cui quella strage si inserì, di capire fino in fondo perché agirono quelle mani assassine, se l’obiettivo di distrarre l’attenzione dalla Sicilia fosse riconducibile solo agli appartenenti alla criminalità organizzata o anche ad altri, se vi sia stata una prospettiva ricattatoria da parte degli ideatori, se e quali rapporti vi siano stati tra la mafia e aree della criminalità del potere nell’ideazione, relazioni che hanno fatto capolino in varie vicende delittuose anteriori al 1984, come nell’uccisione di Aldo Moro – conclude – nell’omicidio di Mino Pecorelli, nel caso Sindona, nell’attentato a Roberto Rosone del 24 aprile 1982 e nell’omicidio di Roberto Calvi”.

Fonte:https://www.antimafiaduemila.com/