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Questo Stato deve vergognarsi!

“Noi collaboratori di giustizia spremuti e abbandonati dallo Stato”. L’odissea di Antonio Scifo

"Noi collaboratori di giustizia spremuti e abbandonati da uno Stato assente". L'odissea di Antonio ScifoSi chiamaAntonio Scifo e oggi ha 37 anni. Ma la sua storia non è quella di un quarantenne qualunque:  questo perché il signor Scifo, padre di un bambino di 8 anni, è uncollaboratore di giustizia.

Ex affiliato a Cosa Nostra, Scifo deve combattere ogni giorno affinché i diritti derivanti dal suo status di collaboratore vengano rispettati. Ormai da anni denuncia un sistema pieno di falle e inottemperanze, che pongono la sua vita e quella di suo figlio a repentaglio: un’Odissea senza fine, che si protrae giorno dopo giorno, senza miglioramenti rilevanti.

Dopo la morte di suo padre, Scifo, ancora ragazzino, si lasciò trascinare nell’universo della criminalità organizzata. Lo fece volontariamente, nonostante la sua famiglia fosse, come da lui stesso spiegatoci, “benestante, onesta e molto stimata”. Nel giro di pochi anni divenne responsabile del suo paese per conto di Pinuccio Pinnintula, il boss di Noto Antonio Trigiala, collegato ai Santapaola di Catania. Il suo compito era quello di occuparsi di estorsioni, spaccio, bische clandestine e altri affari simili.

Nel novembre del 2010, poi, gli venne affidato un altro compito, diverso da quelli a cui era abituato. “Quel giorno si dovevano commettere altre cose”, ci spiega, senza specificare quali. “Mentre stavo per uscire di casa”, però, “ mio figlio, all’epoca piccolino, si attaccò alla mia gamba: non voleva che andassi”.

Fu “un segno del destino, la mia salvezza”: a seguito del comportamento del bambino, infatti, Scifo contattò i carabinieri e annunciò di essere intenzionato a collaborare con la giustizia. “Una scelta da uomo libero, senza alcuna condanna, restrizione e senza che mi sentissi braccato”. Voleva, semplicemente, far crescere suo figlio “in un ambiente sano, dargli un esempio di legalità”, evitandogli il rischio di ritrovarsi “un padre condannato a vita, dietro le sbarre”. Solo per tale motivo “infransi le regole del clan” e, in cambio, “chiedevo solo protezione per lui”.

Le sue aspettative, però, furono disattese. “Venni subito inserito nel programma provvisorio di protezione, allontanato dal mio paese d’origine assieme alla mia famiglia” e, successivamente, preso in consegna dal servizio centrale di protezione.

“Sarebbe più adatto chiamarlo servizio centrale di non protezione”, commenta ora ad Articolotre.com, amareggiato. Da quel momento, infatti, ebbe inizio il suo calvario. In questi quattro anni di collaborazione, Scifo è stato trasferito 15 volte, suo figlio 17.

Il motivo di tanti trasferimenti è presto detto: “In ogni città in cui arrivavamo, incontravo miei compaesani, persone che mi conoscevano”. Alla fine, considerato che “non veniva compiuto alcun preventivo controllo nelle città dove venivamo inseriti, stilai una lista di località controindicate”. Ma il Nop, il nucleo operativo di protezione, sembrò disinteressarsene. “Per un periodo, mentre io mi trovavo in Sardegna”, per esempio, “mio figlio, con la mia ormai ex moglie, fu portato a Rovigo, città in cui vi erano persone che avevo denunciato. Non potendo arrivare a me, avrebbero potuto vendicarsi su di lui: per farlo trasferire dovetti incatenarmi alla Prefettura”.
Vi è poi la questione della segretezza: spesso il collaboratore di giustizia si è trovato nolentemente protagonista di spiacevoli episodi che dimostrano come il sistema presenti evidenti falle. “Una volta dovevo recarmi dal mio avvocato e dovevo prendere l’aereo”, ricorda Scifo. 
“Mi fecero fare il viaggio senza scorta e con biglietti nominativi, con il mio vero nome stampato sopra”.

Allo stesso modo, suo figlio non viene tutelato a sufficienza: “A scuola, per esempio, sapevano tutti che era sotto protezione. Ugualmente quando si trovò con me in un hotel: nessuno doveva, in linea teorica, sapere chi fossimo, eppure persino la donna delle pulizie ne era conoscenza”.  Quando, però, Scifo segnalò tali episodi, “il servizio mi rispose ‘tu vai dove ti diciamo noi, altrimenti ti diffidiamo’. Solo ricatti.”

“Io ho denunciato tutte queste loro malefatte”, prosegue Scifo, arrabbiato e deluso, “e sono stato distrutto psicologicamente”. Non solo: “mi hanno anche ricattato utilizzando mio figlio”, del quale gli fu tolto il collocamento, per assegnarlo alla madre, estromessa dal programma di protezione per “gravi violazioni.” “Un giudice come può  fare ciò e mettere in pericolo la vita di mio figlio?”, si chiede ora l’uomo, che fu “costretto, così, a denunciare anche il giudice”.

Al danno si aggiunge poi la beffa: “Lasciandomi con mia moglie, sono entrato nel business delle separazioni. Fino a questo momento, il mio divorzio è costato oltre 5mila euro, a fronte del contributo di 750 euro mensili che lo Stato mi assegna”. Troppo pochi, per sopravvivere. Soprattutto considerato che spesso il collaboratore di giustizia si è trovato a doversi pagare da solo gli spostamenti. E’ il caso, appunto, di quando si trovò in Sardegna, con il figlio a Rovigo.

“In quel periodo”, ci racconta Scifo, “il Generale Sergio Pascali, direttore del ‘non servizio di protezione’ nonché direttore della seconda sezione che gestisce l’area Sicilia dei collaboratori, mi disse: ‘Se vuoi vedere tuo figlio ti paghi le spese’.” “Mi sceglievano però loro gli hotel:  mi facevano pernottare in alberghi di un costo di 180 euro a notte, senza considerare il vitto e le spese di aereo”. Inoltre, denuncia ancora Scifo, “Pascali si concesse il lusso, essendo Generale, di abusare del proprio ruolo e impedirmi di vedere mio figlio per un mese intero, violando così le disposizioni dell’autorità giudiziaria”. “Le avessi violate io, mi avrebbero arrestato”.

“Il servizio di protezione mi ha ricattato sempre, in qualsiasi modo, per portarmi alla disperazione e magari al suicidio”, ci rivela ancora, con amarezza e rabbia. Quella di non riuscire a fare abbastanza per tutelare suo figlio: “Il sistema mi ha spremuto e abbandonato al mio destino”. Per questo, dopo che “il mio ottimo magistrato della Dda”, unico a non averlo lasciato solo, “è stato trasferito in un’altra sede, ho deciso di uscire dal programma, che non mi garantisce alcun futuro”. Adesso, infatti, gli è stato assegnato un altro giudice, con cui “ho chiesto di parlare, ma non si è degnato nemmeno di sentirmi”. Pur restando “sempre a fianco della magistratura”, dunque, “mi sono visto obbligato ad uscire dal programma, per potermi inserire da solo nel contesto sociale, rifarmi una vita e cercarmi un lavoro. Lo stesso che, tra l’altro, come da contratto sottoscritto, dovrebbe garantirmi il servizio di non protezione”.

Ora, la vicenda di Scifo finirà di fronte anche la Corte Europea di Strasburgo. La speranza è che presto il sistema, riflesso di uno Stato assente nei confronti dei collaboratori di giustizia così come dei testimoni, possa dirsi più vicino a chi denuncia, in un modo o nell’altro, la criminalità organizzata. E se ciò non dovesse accadere, Scifo è pronto ad un gesto estremo “per amore di mio figlio e per amore dei figli dei collaboratori di giustizia”: “una denuncia dettagliata con nomi, cognomi e indirizzi di 70/80 collaboratori di giustizia. Per dimostrare come sia facile risalire a noi nelle località protette: basta una semplice telefonata.”

“Non è una bella situazione”, conclude Scifo. “Sa solo Dio che male fa e che sofferenza mi porta. Ma io devo lottare per mio figlio”.

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