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Quelle “menti raffinatissime” mai trovate.SIAMO SEMPRE IN ATTESA DI VERITA’ FINORA NON ARRIVATE ( E CHE PROBABILMENTE NON ARRIVERANNO MAI ) IN QUESTO PAESE SOTTO IL TALLONE DELLE MAFIE.

 

Quelle “menti raffinatissime” mai trovate

Lunedì 15 maggio 2017

di Giuseppe Ayala

Le ricorrenze sono momenti importanti perché contribuiscono a tenere in vita la memoria. Un patrimonio che l’intera collettività non può permettersi di disperdere. Non si costruisce il  futuro senza il contributo del passato. Specie se si riflette sulla famosa frase di Francoise Sagan: “Non sappiamo mai cosa ci riserva il passato” .E figurarsi il futuro!
Ma, al di là del momento celebrativo, sono anche occasioni utili a stimolare bilanci e riflessioni. Sono trascorsi ben venticinque anni dalle tremende stragi del 1992.
La prima considerazione da fare è la più amara: non conosciamo ancora tutta la verità sull’ identità dei colpevoli,  specie quelli estranei all’organizzazione criminale Cosa Nostra.
Non perdo occasione per ribadirlo perchè tengo sempre ben presente l’opinione espressa da Falcone subito dopo il  fallito attentato dell’ Addaura del giugno 1989. Queste le sue testuali parole: “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’ impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”.
Se quello era lo “scenario” del 1989, qualcuno deve allora dimostrarmi che, invece, quello del 23 maggio e del 19 luglio del 1992 fu diverso. Continuerò ad attendere con crescente scetticismo rimanendo, nel frattempo, un puntino non rassegnato in mezzo alla folla degli orfani della verità.
Cosa Nostra ha dovuto incassare le severe condanne inflitte ai suoi membri, anche di vertice, con meritevole continuità  da molti anni. Dobbiamo, perciò, riconoscere che la forza repressiva dello Stato sull’ organizzazione si è fatta sentire e continua a tenerla sotto pressione. Tanto da indurla ad un ormai consolidato cambio epocale di strategia.
Mi provoca una certa soddisfazione poter affermare: Cosa Nostra non ammazza più! Sono venticinque anni che non partecipo a un funerale di Stato!
Il dato è oggettivo e incontestabile. Ma guai a ritenerlo rassicurante. Nel senso che la rinuncia all’ attacco militare allo Stato non va letta come segnale di indebolimento, ma di bilancio. Quello riguardante la “stagione delle stragi” chiuso, per i mafiosi, con molte poste negative e ben poche positive. E, perciò, da reimpostare.
E infatti, a ben riflettere, sin dagli Anni Ottanta il danno più consistente subito da Cosa Nostra non è stato soltanto quello provocato dai magistrati, specie con il maxiprocesso, ma quello conseguente alle scelte ottusamente sanguinarie di Salvatore Riina. Posso ora svelare che, con ironia spinta sino al paradosso, lo definii a suo tempo “ il membro occulto del pool antimafia.” E con qualche ragione.
Se non avesse scatenato, parallelamente agli omicidi di uomini delle Istituzioni, la cosiddetta “guerra di mafia” ci saremmo mai potuti avvalere delle preziose collaborazioni dei pentiti? Non c’è dubbio, per esempio, che Tommaso Buscetta mai avrebbe deciso di collaborare con la giustizia se non si fosse sentito braccato, anche nel lontano Brasile, dopo essere stato colpito negli affetti più cari con l’ uccisione a Palermo dei due figli maschi, del genero, di un fratello e del figlio di costui. Analogo discorso vale per Salvatore Contorno e così via.
Un bilancio, per Cosa Nostra, disastroso, tanto quanto, invece, in attivo per le Istituzioni preposte al suo contrasto. Fermo restando l’ altissimo prezzo pagato con la perdita di tanti fedeli servitori dello Stato.
Bernardo Provenzano sicuramente dissentiva ma, ben conoscendolo, mai ebbe il coraggio di provare a fermare Riina. Dopo l’ arresto del quale rimase alla guida di Cosa Nostra sino alla cattura del 2006 inaugurando, a partire dal 1994, la nuova stagione post-stragista.
La quale altro non è che la logica conseguenza dei danni cagionati all’organizzazione dalla dissennata  furia omicida di Salvatore Riina.
Un’osservazione, a questo punto, s’impone. Ammesso che, per le ragioni sopra richiamate, ci sia ancora qualcuno tra i mafiosi disposto a seguirne le eventuali indicazioni, desta in me un certo stupore apprendere dai media che Riina è considerato ancora pericolosissimo dagli addetti ai lavori. Il che equivale a ritenere che ventiquattro anni di interrotta sottoposizione al 41 bis non sono bastati a isolarlo rispetto all’ organizzazione criminale che lo ebbe al vertice.
Se così fosse, saremmo di fronte a una sorta di deposizione delle armi da parte dello Stato, incapace di concepire e rendere operativa una misura idonea a spezzare i legami dei capi mafia finiti in carcere con gli altri membri dell’associazione.
Per rimediare ci dovrebbe essere, allora, qualche novità all’ orizzonte. Non risulta. Chi ci capisce è bravo. Io non lo sono.
In ogni caso, non c’è dubbio che negli ultimi trent’anni la situazione è davvero cambiata. Sino alla sentenza del maxiprocesso ( 1987) la conoscenza del fenomeno mafioso era assai vaga e confusa, anche se nessuno si permetteva più di riproporre il vecchio interrogativo: ma siamo sicuri che la mafia esiste? I tanti “ omicidi eccellenti” e le centinaia di mafiosi uccisi non lo consentivano.
E’ una sentenza che segna un vero e proprio punto di non ritorno. Grazie anche al massiccio intervento dei media, quella conoscenza si è largamente diffusa e, con essa, la consapevolezza della gravità del fenomeno mafioso. Ampi strati della società civile, lungo tutto lo Stivale, ne hanno preso atto. Sono così nati molti punti di riferimento e aggregazione dell’ impegno antimafioso.
Si è, finalmente, compreso che la lotta alla mafia non poteva più riguardare soltanto la magistratura e le forze di polizia. Anche i cittadini dovevano schierarsi, scendendo finalmente dalla tribuna dalla quale, sino ad allora, avevano assistito alla partita. Sta tutta qui l’eredità più importante che ci ha lasciato l’irripetibile impegno di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Mi piace segnalare, in proposito, il meritorio ruolo svolto da moltissime scuole di ogni ordine e grado, i cui dirigenti e i corpi insegnanti si sono dati carico di arricchire la formazione dei loro alunni anche con l’ educazione alla legalità, in generale, e alla lotta di liberazione dalla mafia, in particolare.
Altre note confortanti vengono dal fronte del “pizzo.” In passato qualche imprenditore provò a ribellarsi all’ odiosa imposizione, ma fu lasciato solo e finì con il pagare il prezzo più alto. Non mi avventuro nell’elenco, basta ricordare Libero Grassi.
Oggi quelli che lo fanno sanno di non essere soli e, infatti, il loro numero aumenta. Assieme al portafoglio salvano anche la loro dignità e inducono altri ancora a seguire il loro esempio. Non è poco. E confesso che anni fa non ci avrei scommesso.
Sappiamo bene che il fronte della cosiddetta antimafia è assai variegato e non tutto genuino e trasparente. Gli esponenti di quel “professionismo”  preconizzato, nel gennaio 1987, da Leonardo Sciascia si aggirano petulanti anche nei palazzi delle Istituzioni. Non c’è dubbio.
Laicamente ritengo che questo sia il prezzo da pagare alla diffusione di un impegno che, in molti casi, è davvero sincero e, perciò, assai utile alla causa. E’ una nuova forma di carrierismo in un Paese che da sempre ne è contaminato. Mettiamola così, nella paziente attesa del momento in cui anche quei furbastri saranno smascherati. A qualcuno di loro è già capitato. Buon segno.
Ho sempre sostenuto che questo tipo di antimafia altro non è che l’ “indotto” della mafia. Con una sola nota comune: il potere di intimidazione. Molti, infatti, ne conoscono le malefatte, ma tacciono per paura di essere bollati di filo-mafiosità. Della serie: “Se attacchi me, che sono un  paladino dell’ antimafia, vuol dire che stai dalla parte della mafia”.
Come nei confronti di quest’ ultima, la scelta del silenzio diventa la meno coraggiosa ma, al tempo stesso, quella  ritenuta più sicura. E, invece, come nei confronti della mafia, anche per loro dovrebbe valere l’antico diktat: “Chi sa, parli”.
Temo di essere scivolato in un eccesso di fiducioso ottimismo. Ma che ci posso fare. Sono fatto così. Giovanni e Paolo, ben conoscendomi, lo sapevano e mi regalavano un sorriso. Che rimane il ricordo di loro che mi è più caro.

fonte:http://mafie.blogautore.repubblica.it/