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Quei figli di immigrati costretti a vivere sottovoce

Quei figli di immigrati costretti a vivere sottovoce

Di Rino Scarcelli

Li chiamavano ‘bambini nascosti’ o ‘proibiti’. Figli di lavoratori stagionali, entravano in Svizzera da clandestini ed erano costretti a vivere nell’ombra poiché lo statuto dei loro genitori non consentiva di portare con sé familiari. Una pagina di storia dell’immigrazione che riemerge in un romanzo della scrittrice svizzera d’origine Nicoletta Bortolotti.

‘Chiamami sottovoce’ è la storia di Nicole e Michele. Bambini negli anni ’70, hanno entrambi un papà che lavora alla futura galleria stradale del San Gottardo. Passano ore a disegnare insieme, sono amici. Ma sono costretti a esserlo di nascosto.

Nicole è di famiglia svizzera: genitori e figlia hanno preso casa in Leventina per stare più vicini all’impiego del padre, ingegnere. Michele, invece, è figlio di due lavoratori stagionali, un operaio del traforo e una cameriera: non ha il diritto di stare in Svizzera.

Dopo aver attraversato la frontiera e l’intero Ticino nascosto nel bagagliaio dell’auto, il piccolo passa le sue giornate chiuso in una soffitta ad Airolo, dove trascorre interi mesi della sua infanzia da clandestino. Sottovoce, e lontano dalle finestre.

Lontani dai genitori o nascosti

Lo statuto di lavoratore stagionale, abolito del tutto solo nel 2002, consentiva di rimanere in Svizzera 9 mesi l’anno. Un soggiorno limitato ma che andava sfruttato per intero se si voleva strappare, dopo cinque stagioni, un permesso annuale.

Agli stagionali, il Paese accordava ridotte prestazioni sociali e scarsa autonomia: non era loro consentito di cambiare datore di lavoro né domicilio. I bisogni dell’economia erano così soddisfatti, ma il (da più parti) temuto inforestierimento era limitato dalle poche possibilità di integrazione.

Più di tutto, lo statuto negava il ricongiungimento familiare. È così che migliaia di bambini italiani crebbero lontani dai genitori -ad esempio con i nonni, nella regione d’origine, oppure in istituti del nord Italia- mentre altri vissero alcune stagioni in clandestinità.

Sottovoce per la vita

Se oggi i diritti del fanciullo prevalgono sul resto, e l’istruzione è accordata in una certa misura anche ai figli dei sans-papiers (cfr. www.ccsi.ch), fino agli anni Ottanta i figli degli stagionali potevano contare solo su qualche scuola dissidente.

Oppure ripiegare su lezioni impartite di nascosto in quelle stanze con le tende sempre tirate, prestando attenzione a non essere mai visti né sentiti e senza la possibilità di uscire in cortile a giocare coi coetanei, pena l’espulsione dell’intera famiglia.

Un vissuto non facile da elaborare. Tanto che una volta diventati adulti, spiega Nicoletta Bortolotti, tanti di questi ragazzi continuano, spesso, a parlare sottovoce.

Nicole, Nicoletta e la nonna

Nonostante la quasi coincidenza di nome e di età tra la protagonista femminile di ‘Chiamami sottovoce’ e l’autrice del romanzo, Nicoletta Bortolotti ha scoperto le storie di questi bambini invisibili soltanto da adulta.

L’immagine che la scrittrice aveva della Svizzera, suo paese d’origine, era piuttosto quella di terra accogliente, rifugio per esuli italiani durante il Risorgimento e nel periodo della seconda guerra mondiale. Molti antifascisti, anarchici, profughi ripararono in Ticino.

I nonni della scrittrice ne frequentarono alcuni. E così, nel romanzo, alle voci di Michele e Nicole si affianca la storia dell’affittacamere Delia, un personaggio ispirato ai familiari dell’autrice e che rende giustizia a un Paese che ha anche saputo aprire le proprie frontiere.

La vita per un Paese (altrui)

L’alone di silenzio che avvolgeva la vicenda dei bambini nascosti ha dunque spinto Nicoletta Bortolotti a scrivere questo libro. Ma c’è dell’altro.

“Dalla casa che ho in montagna, la casa dei miei nonni in Valle Leventina, apro la finestra e vedo il massiccio del San Gottardo”, racconta. “E ogni volta che passavo in quella galleria pensavo a tutta la storia drammatica, emozionante, appassionante che si nascondeva in quelle pietre”.

Sullo sfondo dei ricordi di Michele e Nicole, infatti, prendono forma le storie dei tanti operai (italiani, ma non solo) che contribuirono alla costruzione delle grandi opere pubbliche in Svizzera (trafori, dighe).

Qualcuno lo fece a sacrificio della propria vita. Molti altri -come emerge dalle molte testimonianze ascoltate dalla scrittrice, e quindi dal romanzo- identificandosi in quel lavoro al punto da non poterne più fare a meno.

A lungo, furono principalmente italiani

Nel 1957, in Svizzera, un lavoratore straniero attivo su quattro (26,3%) aveva lo statuto di stagionale. Una quota scesa nel 1967 a uno su cinque (19,7%), che corrispondeva a 153’510 persone, in gran parte italiani (83,3%).

Nel 1977, gli stagionali scesero in proporzione e in numero assoluto (10,3% degli stranieri attivi, 67’280 persone) con gli italiani che costituivano il 37%, gli jugoslavi il 26,8% e gli spagnoli il 23,3%.

Fallita un’iniziativa per l’abolizione dello statuto, il numero di questi lavoratori precari riprese ad aumentare (nel 1987 erano 114’630) per infine scemare: nel 1997 erano 28’000. Nel 2002, gli accordi bilaterali con l’UE ne decretarono la scomparsa.

[fonte: Dizionario storico della Svizzera]

Profilo della scrittrice

Autrice in primis di libri per ragazzi, Nicoletta Bortolotti usa la narrativa per avvicinarli a temi d’attualità o storia, come il conflitto israelo-palestinese (“Sulle onde della libertà”, 2015), la ‘partita della morte’ (“In piedi nella neve”, 2015), la figura di “Oskar Schindler il giusto” (2017) e quella di Giovanni Borromeo (“La bugia che salvò il mondo”, 2018).

Una costante dei suoi romanzi, spiega, è mostrare “come i ragazzi e l’essere umano in generale possieda una forte resilienza e riesca a resistere a situazioni molto drammatiche, affermando comunque i valori della vita, della libertà, e anche della gioia”. La letteratura per ragazzi, dice ancora, l’ha educata “a non sviare dal cuore della storia e alla trasparenza lessicale”.

Bortolotti è anche redattrice editoriale, copy editor e ghost writer. In altre parole, mette le proprie capacità di scrittura al servizio degli altri (“cercando, mentre correggo i testi altrui, di imparare anche qualcosa”). Un “doppio gioco” scrittore-editor che, rivela, non sono in pochi a fare: “più di quello che le persone pensano”.

Fonte:https://www.tvsvizzera.it