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PROCURATORE, CHIEDIAMO IL RAFFORZAMENTO DELL’ORGANICO DELLA PROCURA DI BOLOGNA,,MA NON DIFFONDIAMO IL SOSPETTO CHE SI VOGLIA CHE LA GENTE NON DENUNCI

PROCURATORE,CHIEDIAMO IL RAFFORZAMENTO DELL’ORGANICO DELLA PROCURA DI BOLOGNA,,MA NON DIFFONDIAMO IL SOSPETTO CHE SI VOGLIA CHE LA GENTE NON DENUNCI.MINISTRO BONAFEDE E CSM MUOVETEVI A MANDARE A BOLOGNA IL PERSONALE CHE MANCA.I PARLAMENTARI BOLOGNESI ED EMILIANI CHE FANNO????????????????

 

L’Espresso, 31 gennaio 2019

Non ingolfate l’Antimafia: la circolare della discordia firmata dal procuratore di Bologna

La lettera inviata ai capi delle procure della regione fa discutere. Invita a non intasare solo con sospetti l’ufficio giudiziario competente sui reati di mafia. Ma le cosche sono ancora forti e si muovono nell’ombra

DI GIOVANNI TIZIAN

Nuove leve criminali, donne al comando, giudici da proteggere. E business milionari che si stanno sviluppando sui cui indagare. I pentiti raccontano la galassia del crimine organizzato in Emilia, vivo e vegeto nonostante le pesanti condanne inflitte a decine di imputati del maxiprocesso che si è chiuso nei mesi scorsi. Molte teste sono libere di agire. Tanti imprenditori sono ancora a pieno servizio dei clan. Ma l’Emilia, dopo il processo alla ’ndrangheta più grande 
mai celebrato al Nord, appare più fragile e indifferente.
Con una novità non da poco rispetto al passato. Un clima politico e giudiziario mutato radicalmente. Una classe dirigente – non solo politica – che rifiuta di affrontare la questione. E il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato, che con una circolare suggerisce ai colleghi delle procure che ricadono nella corte d’appello, di centellinare l’invio di fascicoli su singoli fatti sui quali gli inquirenti sospettano il collegamento con la mafia Emiliana. In pratica, la questione mafiosa per molti si è risolta con le condanne del maxi e con lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del comune di Brescello, il paese di Peppone e don Camillo, amministrato dal Pd fino al commissariamento per l’ingerenza delle cosche.

I collaboratori di giustizia raccontano però una realtà criminale sempre viva, che continua a covare sotto la cenere. Clan che hanno stretto alleanze nell’ombra con imprenditori, professionisti e politici locali. Sembra passato un secolo da quando il 28 gennaio 2015 i Carabinieri eseguirono quasi 200 arresti nell’operazione Aemilia. Erano anni in cui molti preferivano negare l’evidenza. Dalla retata ai maxi processi: il 31 ottobre 2018 il tribunale di Reggio Emilia ha condannato 125 persone, per un totale di 1.225 anni di carcere. Poco tempo prima altri 40 imputati sono stati dichiarati colpevoli in via definitiva dalla Cassazione per aver fatto parte della ’ndrangheta emiliana. Nella rete della procura antimafia di Bologna sono finiti profili 
di ogni tipo: affiliati, mammasantissima, politici, imprenditori, professionisti, servitori infedeli dello Stato. Il gruppo investigativo di Aemilia è riuscito a ricostruire la mappa del potere criminale. Grazie a una procura all’epoca guidata da Roberto Alfonso, che è riuscito con i pm Marco Mescolini e Beatrice Ronchi, a mettere insieme in un unico mosaico criminale frammenti che tra loro sembravano slegati.
Così è nata Aemilia. Ascoltando i territori, collegando un incendio doloso a una apparentemente insignificante bancarotta. È emerso fin 
da subito una presenza dei clan radicata, proteiforme. In grado, peraltro, di influire sul voto democratico. È dunque una novità la circolare diramata dal procuratore Giuseppe Amato che tende 
a parcellizzare e non vedere nel suo complesso il fenomeno. Certo non tutto 
è mafia, ma nulla si può escludere se 
non si approfondisce con gli strumenti dell’antimafia.
Il capo della Dda di Bologna, Giuseppe Amato, ha 56 anni, è figlio di Nicolò Amato, ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il primo ad applicare il 41 bis ai detenuti mafiosi dopo le stragi dei Corleonesi. Amato era presente alla festa a Roma dell’associazione “Fino a prova contraria” della giornalista Annalisa Chirico. Con lui i colleghi Nicola Gratteri e Francesco Lo Voi. E anche Matteo Salvini e Maria Elena Boschi. Amato potrebbe essere uno dei candidati più accreditati al Csm per la poltrona di procuratore di Roma che a maggio sarà lasciata da Pignatone.
A una settimana dalla sentenza Aemilia, il 7 novembre 2018, Amato firma la circolare inviata a tutte le procure della regione e che provoca un’accesa riunione presso la procura generale alla quale hanno partecipato i singoli procuratori della regione. Ma cosa dice Amato in questa circolare? Invita i suoi colleghi 
a capo degli uffici inquirenti a dosare 
al meglio l’uso dell’aggravante mafiosa. L’aggravante si applica ai reati previsti dal codice penale nei casi in cui questi siano stati commessi o con metodo tipico dei clan o per favorire un’organizzazione mafiosa. Su questi reati è la Direzione distrettuale antimafia (Dda), in questo caso Bologna, a dovere indagare. Non si scappa. E nel caso in cui le procure ordinarie – Modena, Forlì, Rimini, Reggio Emilia, Piacenza, Parma – rilevino fatti in odore di cosca devono girare tutto alla Dda. Questo passaggio garantisce a chi indaga di utilizzare strumenti più incisivi e quindi è garanzia di approfondimenti maggiori.
Così, in fondo, è nata l’indagine Aemilia. E così sono nate numerosissime inchieste sulle mafie fuori dai confini tradizionali. Ora, la circolare di Amato mette dei paletti molto rigidi a questo scambio. Suggerisce di limitarsi a inviare un’informazione «per conoscenza» delle vicende d’indagine per consentire così alla procura di valutare «consapevolmente» cosa è mafia e cosa non lo è. Questo per non ingolfare l’ufficio che dirige. Il rischio, tuttavia, è che con questa richiesta si arresti il flusso di informazioni che dai territori giungono all’antimafia bolognese. Informazioni preziose, perché la ’ndrangheta, la camorra, Cosa nostra operano su tutte 
le province. E spesso sono i reati “spia” (incendi, minacce, bancarotte, reati fiscali) a rivelarne la presenza. Segnali che però vengono raccolti dalle singole procure. Informazioni che poi girano ai magistrati antimafia. Un circolo virtuoso, finora.
Il procuratore di Bologna per giustificare la sua scelta cita esempi concreti: «Sembrano non corrette, oltre che foriere di ingiustificati aggravi per la Procura distrettuale, trasmissioni degli atti “per competenza” basate (…) solo sulla qualità soggettiva degli indagati (soggetti appartenenti o vicini ad una consorteria criminale, accertata o presunta) senza adeguati riscontri probatori». E aggiunge: «Ma vale anche per reati di natura economica (bancarotte, reati fiscali, e simili) rispetto ai quali la finalità di profitto che può avere mosso l’autore non è immediatamente leggibile in termini di agevolazione della consorteria e non può essere fondata solo sulla qualità soggettiva dell’indagato o sulla contiguità [familiare o di altra natura] dello stesso con soggetti che si assumono appartenenti alla “cosca”». Secondo Amato anche se un imprenditore, figlio o parente di un capo clan, commette bancarotta non è detto che quel business sia stato fatto per arricchire la cosca. Forse, però, in questo modo si minimizza il valore del vincolo familiare nella mafia calabrese. «Ritorniamo indietro di anni», confessano due autorevoli magistrati.
Al di là delle opinioni, però, una cosa 
è certa: arriveranno meno fascicoli all’antimafia. Probabilmente l’efficienza sarà maggiore. Ma può essere solo questo il criterio di cui tenere conto nella lotta ai clan?