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Peppino Impastato, la Sicilia che sa dire no

L’Espresso

Peppino Impastato, la Sicilia che sa dire no

Il vincolo mafioso spezzato in famiglia, l’impegno, la denuncia. L’omicidio del militante di Dp, ucciso il 9 maggio del 1978 a Cinisi, è un delitto contro la parola

di Enrico Bellavia

07 MAGGIO 2021

Lui per primo se ne sarebbe preso gioco. Irridente e ribelle, avrebbe liquidato con una battuta chi solo per un istante avesse provato ad additarlo come simbolo. Ma nella sua fine e in tutto quel che è accaduto dopo, Peppino Impastato, ucciso dalla mafia il 9 maggio del 1978, è un emblema della Sicilia migliore.

La sua militanza racconta le energie politiche di un’isola, né suddita né sovrana, capace però di coltivare l’utopia e di sbracciarsi perché non resti un sogno, di affondare le mani nelle contraddizioni, per additarle agli occhi dei distratti, dei conniventi, dei complici. Il suo ricordo, coltivato con la tenacia degli affetti di chi gli è sopravvissuto, è un happening, né mesto né gioioso, che negli anni ha trasformato Cinisi, il suo Paese, anche adesso pur con le restrizioni da Covid.

 

La sua lezione più grande è che la servitù mafiosa si spezza in famiglia. Disonorando i padri, se vanno a braccetto con i padrini. Trascinandosi dietro nell’emozione dell’amore una madre che dopo la sua morte è diventata la maschera dell’attesa di giustizia, implacabile nella sua mitezza. E poi il fratello, la cognata, i nipoti, gli amici di un tempo e quelli che, pur non avendolo conosciuto, hanno preteso, in mezzo a depistaggi e insabbiamenti, opera dei compari in divisa di don Tano Badalamenti, che si arrivasse alla verità.

Fu il boss a volerlo morto, simulando la disgrazia occorsa a uno sprovveduto attentatore intento a piazzare un ordigno sui binari della ferrovia. Ma nel cono d’ombra della tragica fine di Aldo Moro, intorno al cadavere di Peppino Impastato fu apparecchiata una messa in scena necessaria al capomafia di Cinisi. I compagni, trattati come potenziali complici. La pietra insanguinata con cui gli assassini agli ordini di Badalamenti lo avevano stordito, ignorata. Il dettaglio delle mani intatte, trascurato.

La tenacia della sua famiglia, del Centro che porta il suo nome guidato da Umberto Santino, dei compagni di Democrazia Proletaria, pezzo dopo pezzo ha ristabilito la verità su un delitto che è un omicidio contro la parola, scritta, urlata, vergata sui cartelli, pronunciata ai microfoni di Radio Aut. Un giornalista postumo. La battaglia continua, per dare un bollo di sentenza alla responsabilità di chi rese facile il lavoro degli assassini, per tenere in vita Casa Memoria, l’abitazione della madre diventata lo scrigno che ne custodisce la storia. Per ottenere che il casolare, teatro del delitto, diventi patrimonio di memoria pubblico, come la casa confiscata ai Badalamenti nel corso di Cinisi.

Un film, il film i Cento Passi di Marco Tullio Giordana, non una biografia in senso stretto, racconta l’uomo, le sue passioni e la fine. Consegnandolo alla memoria collettiva meglio e con più efficacia suggestiva delle pur necessarie celebrazioni. Rivederlo è riconciliarsi con i no che la Sicilia è ancora in grado di esprimere e con il prezzo che è disposta a pagare. Perché Peppino Impastato non sia un simbolo ma un esempio.